Quello universitario è un mondo affascinante e zeppo di contraddizioni, in particolar modo se si guarda al sistema italiano. I nostri atenei pubblici, spesso ricchi di storia, sono forieri a tempi alterni di gioie e dolori per tutto il sistema Paese, e forse anche per questo nel corso del tempo non sono mancate manovre politiche che hanno tentato di modificarne radicalmente la struttura, accompagnate da riforme meno invasive, a seconda delle intenzioni del governo di turno. Anche questo governo, come i precedenti, ha qualcosa da dire in merito al sistema universitario. Addentriamoci dunque in un breve excursus che fa da seguito e conclusione ai nostri due precedenti articoli sulla scuola primaria e sulla scuola secondaria.
L’università in subbuglio
Relativamente all’istruzione è nel merito del sistema universitario che ultimamente si sono sollevati grandi polveroni mediatici. Mentre si è parlato poco delle probabili modifiche al sistema della scuola primaria e secondaria, rammentiamo almeno due fasi calde inerenti alle riforme delle università, che prepotentemente hanno occupato la scena dei media italiani. Ci si riferisce in particolar modo alla proposta di vietare il requisito del voto di laurea nei bandi pubblici e a quella, forse un po’ meno controversa, di abolire il numero chiuso per l’accesso alla facoltà di medicina. Osserviamole più nel dettaglio.
«Il 110 e lode non serve» Partiamo facendo riferimento ad una proposta di legge, depositata alla Camera dall’On. Maria Pallini (M5s) il 31 luglio scorso, intitolata Divieto di inserire il requisito del voto di laurea nei bandi dei concorsi pubblici; il testo non è ancora stato pubblicato, tuttavia questa intenzione ha subito destato scalpore. La proposta, seppur manchino i dettagli (segui gli aggiornamenti qui), è abbastanza chiara, e si è discusso molto sulle conseguenze che ciò potrebbe comportare. I promotori dichiarano che il requisito di un certo voto di laurea per poter accedere ai concorsi pubblici sia discriminatorio, e che rimuoverlo non significherebbe andare contro al principio meritocratico: il voto non perderebbe infatti il suo valore legale, ma solo la sua valenza per poter accedere ad un concorso pubblico. Come sottolineano diverse analisi, il tentativo di ridimensionare il peso assegnato al titolo universitario non è cosa del contratto di governo gialloverde, tuttavia rientra nel patrimonio sia della Lega che del MoVimento. In particolare i grillini avevano avanzato una proposta molto simile nella scorsa legislatura, a firma di Carlo Sibilia (attuale sottosegretario al Ministero dell’Interno), e lo stesso Beppe Grillo ha più volte arringato la folla facendo riferimento ad una radicale abolizione del valore legale dei titoli di studio. Il tema, per quanto ultimamente non menzionato da Salvini, è stato per lungo tempo dibattuto tra le fila della Lega Nord.
«La previsione del requisito minimo del voto di laurea in bandi di concorso pubblico deve essere vietata perché tale limitazione tende ad escludere a priori e senza alcuna reale motivazione una parte degli aventi diritto» C. Sibilia
«Abolizione del valore legale dei titoli di studio: qui non sarete d’accordo, però secondo me poi ne potremo discutere» B. Grillo
La domanda sorge spontanea: com’è possibile dichiarare discriminatoria la richiesta di una preparazione di un certo livello per poter ricoprire degli incarichi di interesse pubblico? Sulla base di quale concezione d’uguaglianza premiare il merito andrebbe a ledere l’interesse altrui? Nella scorsa legislatura Sibilia giustificava questo fatto sottolineando che oggi ci sia da contrastare un’elevata disoccupazione giovanile, e lo si dovrebbe fare cercando di limitare quelle misure che per i giovani di fatto rappresenterebbero un ostacolo.
Ergo, il requisito minimo del voto di laurea danneggerebbe chi non è ancora arrivato in fondo agli studi universitari o ha deciso di non intraprenderli. Effettivamente la disoccupazione giovanile in Italia (15-24 anni d’età) doppia la media europea. Questo dato però non ci dice niente su un’eventuale correlazione tra il requisito del voto di laurea e la difficoltà dei giovani nell’ambito lavorativo; anzi, se al tempo stesso osserviamo il dato sulla disoccupazione relativo alla fascia successiva, cioè quella dei 30-40 anni d’età, notiamo che la situazione non è migliore. A volerla dire tutta il trend degli ultimi mesi sembra essere addirittura più favorevole ai giovanissimi che ai 30-40. Seguendo la logica portata avanti dai grillini (di per sé già fallace) quest’ultima categoria risulterebbe però essere meno esposta all’ “ostacolo” del requisito del voto di laurea per chiare ragioni anagrafiche: fra i 30-40enni chi ha seguito un corso di laurea quasi certamente l’ha concluso.
Era evidente, anche senza tutto questo discorso, che l’esistenza di una correlazione diretta tra i due fenomeni – requisito e disoccupazione giovanile – fosse da mettere in dubbio.
Il requisito del voto di laurea infatti non taglia fuori solo tutti quei ragazzi che ancora non hanno conseguito il titolo perché troppo giovani, bensì tutti coloro che ne sono sprovvisti, giovani o anziani che siano. E si torna lì: di fatto si andrebbe solo a sgretolare quel poco di meritocrazia che abbiamo, al di là dei discorsi.
Abolizione del numero chiuso a medicina. Qui siamo di fronte a qualcosa di ben più recente. E’ il 16 ottobre, mattina presto, quando il governo rilascia un comunicato stampa relativo alla manovra di bilancio nel quale campeggia un punto particolarissimo: Abolizione del numero chiuso nella facoltà di medicina. I giornali subito si scatenano: com’è possibile che una cosa del genere venga presentata così nettamente e all’improvviso? Il ministro Bussetti, interpellato nelle ore successive, dichiara: «Voglio essere sincero, a me non risulta questa cosa. Farò le dovute verifiche». la frittata è fatta: il Governo si è presentato sprovvisto di chiarimenti sulla questione e la faccenda non ha potuto che degenerare. Successivamente è stato precisato che quel punto nel comunicato stampa rappresenterebbe un indirizzo da perseguire nel corso del tempo, partendo da un aumento del numero di posti disponibili per arrivare gradualmente all’abolizione del numero chiuso, in un lasso di tempo nell’ordine degli anni. Al di là della confusione comunicativa, traspare una finalità chiara per l’esecutivo ovvero quella di allargare il parco di giovani medici in Italia o comunque andare a modificarne radicalmente la selezione. Ulteriori delucidazioni ci vengono in aiuto se analizziamo un testo depositato alla Camera dei Deputati il 13 settembre scorso dal leghista Tiramani, dal titolo Modifiche alla legge 2 agosto 1999, n. 264, in materia di accesso ai corsi universitari, con particolare riguardo a quelli delle professioni mediche e dell’area sanitaria. In questa proposta di legge emergono le motivazioni alla base del cambiamento prospettato, inoltre vengono poste le metodologie con cui si andrebbero a selezionare i futuri medici. Il testo sotto questi punti di vista è estremamente chiaro ed asserisce che:
«Da un parere espresso dall’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR) emerge la necessità di rivedere i criteri di analisi utilizzati finora allo scopo di garantire i necessari livelli qualitativi degli studenti che intendono iscriversi ai corsi universitari. Esiste in Italia una consistente concentrazione di personale medico nella fascia di età superiore a sessanta anni, e questo lascia supporre che, entro pochi anni, molte migliaia di medici lasceranno il Servizio sanitario nazionale. […] La Lega è da sempre contraria ai test di ingresso, in particolar modo per la facoltà di medicina e chirurgia, nella quale c’è un solo posto disponibile ogni sette domande e spesso si entra più in base alla fortuna che per le proprie capacità. I test di ingresso, anche se ben formulati, possono essere relativamente utili per verificare il livello di preparazione alla fine di un ciclo di studi: basti guardare a quello che accade in altre nazioni vicine a noi, come la Francia, in cui la selezione per la facoltà di medicina avviene dopo il primo anno di università e un breve tirocinio in ospedale. Pensiamo a un sistema che lasci una possibilità a tutti gli studenti di accedere all’università, ‘scremandoli’ dopo un certo periodo di tempo – magari dopo un anno – in base a un adeguato numero di esami da superare, in modo tale che i migliori possano scegliere il corso di laurea di loro specifico interesse».
(testo integrale qui)
In sostanza, dunque, nessuno parrebbe voler rendere la facoltà di medicina un far west per una quantità esorbitante di ragazzi, da sempre attratti dal prestigio del mestiere, dalla sua forte vocazione sociale o anche dai suoi sbocchi lavorativi e remunerativi; al contrario l’intenzione è quella di dare una piega più razionale al processo di selezione dei futuri dottori senza lasciarlo in balìa di «test che […] non sono parametrati sulle materie attinenti alle facoltà scelte dai candidati, ma riguardano argomenti del tutto estranei, spesso di cultura generale, per non dire ‘spicciola’». Se un nodo rimane, certamente è quello relativo alla necessità di un potenziamento dell’offerta universitaria, visto che comunque al primo anno si avrebbe a che fare con una saturazione di studenti frequentanti, anche se questo potrebbe risultare di fatto un problema sormontabile specialmente in caso di un cambiamento graduale del sistema attuale.
Riforma delle modalità d’accesso ai corsi di laurea. Il MoVimento 5 Stelle propone, sulla falsariga di quanto visto poc’anzi, una riforma della disciplina d’accesso ai corsi universitari. Il deputato D’Uva è primo firmatario di una proposta che pone l’attenzione sulla necessità di invertire la logica alla base dell’ammissione: «Il fondamentale criterio del fabbisogno di professionalità del sistema sociale e produttivo oggi, piuttosto che rappresentare l’elemento essenziale per la determinazione dei posti da assegnare, risulta del tutto subordinato alle mere esigenze dei singoli atenei». Si propone di abrogare la legge attuale (n.264/1999), mantenendo però la stessa modalità d’accesso ai corsi di specializzazione e comunque facendo rimanere a numero programmato quelle facoltà espressamente previste dalla legge 264. Ovviamente si dà per scontato che le modalità di selezione del numero di studenti vadano mutate. In questo la proposta è molto simile alla precedente a firma Lega, prevedendo un accesso libero al primo anno, seguito da un test d’accesso al secondo, stavolta davvero attinente alle conoscenze che uno studente di tali facoltà deve necessariamente soddisfare. È possibile consultare il testo integrale qui.
•Postilla 1•
Il MoVimento 5 Stelle, tramite il proprio parlamentare Daniela Torto, ha intenzione di modificare anche l’art.2 della legge 30 dicembre 2010, n.240 in materia di organi e sistemi di governo nelle università statali. Sul sito istituzionale della Camera non è ancora disponibile il testo della proposta, sarà possibile consultarlo prossimamente qui.
A questo proposito può essere interessante consultare la legge in questione, qui consultabile, che contiene una descrizione puntuale dell’organizzazione delle università statali.
Il nostro interessante percorso volto a conoscere la scuola italiana così come Lega e M5s la vorrebbero purtroppo si conclude qui. Non c’è modo migliore di congedarsi che con l’auspicio che le modifiche che effettivamente verranno apportate siano ragionevolmente rivolte alla preparazione ed al benessere degli studenti e dei docenti.