Laureato in Storia e critica del cinema, studia Informazione ed Editoria presso l'Università di Genova. Appassionato di tutto ciò che riguarda l'audiovisivo e la parola scritta.

Vivere e morire a Londra

I giardini di Victoria Embankment non sono di certo i più famosi di Londra. Quelli di Chelsea, di Kyoto e Kensington, per esempio, sono più belli e più popolari. Negli Embankment Gardens però, almeno nel periodo tra il 10 e il 21 ottobre, sorge una struttura fondamentale per uno dei festival cinematografici più importanti d’Europa, figlio certo dell’esperienze di Cannes e della nostra Venezia. Tra il verde degli alberi vicino al Tamigi, le vie di ghia portano infatti a Embankment Gardens Cinema, la principale sala del London Film Festival 2018, che, per quanto provvisoria, vanta una qualità audio/video eccezionale. In questa splendida cornice, noi di Prosperous Network abbiamo avuto la possibilità di vedere l’ultima fatica dei fratelli Joel e Ethan Coen, La Ballata di Buster Scruggs.

Prodotto e distribuito da Netflix, ormai al vertice delle produzioni autoriali e di genere, il film arriverà sugli schermi di tutto il mondo il 16 novembre e, solo poco più di un mese fa, ha vinto il Premio Osella per la migliore sceneggiatura a Venezia. Strano se si pensa che questo progetto era stato annunciato nel 2017 come una miniserie televisiva da sei episodi. Recentemente i Coen hanno smentito questa ipotesi sostenendo che, nel mettere insieme i racconti scritti nel corso degli ultimi 25 anni che compongono la ballata, la loro idea fosse da principio quella di un prodotto audiovisivo unitario.

Queste brevi storie a cui Ethan e Joel hanno pensato per più di due decenni rientrano nel genere più rappresentativo della cultura cinematografica americana, genere che i due fratelli hanno già affrontato sia attualizzandone le dinamiche (Non è un paese per vecchi, 2007) che dando omaggio ad uno dei classici del genere (Il Grinta, 2010): il western.

Ma parliamo più vicino del film, partendo dagli episodi che compongono il grande libro consegnatoci dai registi.

Il Film

The Ballad of Buster Scruggs

L’episodio di apertura è anche quello che, attraverso il nome del suo protagonista, dà il titolo al film. Buster Scruggs (Tim Blake Nelson) è il pistolero più veloce del west e vaga per le lande desolate americane armato della sua pistola e della sua chitarra, con cui accompagna le sue canzoni e suoi pensieri. Arrivando in una cittadina a lui sconosciuta, avrà a che fare con partite a poker, duelli e vendette di sangue.

Quello di Buster è senza dubbio il segmento più divertente. È evidente il riferimento ad un certo tipo di musical del primo periodo classico hollywoodiano, sia nei tempi che nella messa in scena, che, nonostante un’ambientazione western, ha in Scruggs il personaggio giusto, senza macchia e senza polvere (letteralmente, come vedrete). La vicinanza di questo episodio all’ultimo lavoro dei Coen, Ave, Cesare! (un omaggio all’industria del periodo classico appunto), è marcatissima. Il pistolero è sempre candido, sereno e sicuro della sua vittoria. In qualche modo sembra consapevole di essere soltanto parte di una storia; non a caso è l’unico personaggio a parlare direttamente in camera. Buster è convinto di non essere scalfibile o eliminabile.

Il West dei film a cui sembra appartenere il protagonista però non esiste più, tutti i suoi comprimari sono brutti, sporchi e cattivi.  E non adeguarsi alla nuova realtà potrebbe essere un errore fatale.

Near Algodones

Il secondo episodio è quello che vede al centro le avventure di James Franco, chiamato ad interpretare un cowboy aspirante rapinatore di banche. Al suo primo tentativo, ovviamente, le cose non andranno come previsto.

Segmento di transizione questo, forse il più debole del film. I toni rimangono comici per quasi tutta la durata brevissima del racconto, il meno lungo della pellicola. Grandi trovate slapstick, come i fucili dietro al bancone della banca o la sequenza della prima impiccagione, e dialoghi fortemente marcati Coen (“First time?” battuta già cult) reggono i minuti che traghettano lo spettatore verso un finale capace di aprire uno squarcio su quello che sarà il proseguimento della ballata.

Una chiusura incentrata sulla morte e sull’atteggiamento umano nei confronti di essa, ma per la prima volta triste e malinconica.

Meal Ticket

Un povero impresario (Liam Neeson) gira per gli USA insieme alla sua unica fonte di guadagno: un attore senza gambe e senza braccia (Harry Melling), un “freak” capace di farsi notare più per le sue abilità drammatiche che per la sua eccezionalità fisica. I guadagni però sono miseri, i pasti scarsi e le difficoltà di movimento e sopravvivenza del suo artista, porteranno il personaggio di Neeson a fare scelte drastiche riguardo al futuro.

Meal Ticket vira prepotentemente verso gli angoli più bui mai esplorati dai Coen. La fotografia si incupisce, così come i toni. Non ci sono le battute presenti nei primi due episodi. Manca, a dire il vero, ogni tipo di dialogo tra personaggi, eccezion fatta per il monologo che Melling ripete in modo ossessivo e che i Coen ci mostrano con un montaggio insistente, soffermandosi sulle storiche parole del discorso di Gettysburg di Abraham Lincoln (“of the people, by the people, for the people”). L’episodio e Il suo finale, perfetto nella sua gelidezza, sono un’amara riflessione sul ruolo dell’artista e, ancora una volta, sulla morte della sua performance e della sua persona.

All Gold Canyon

Un bosco e un fiume, un cervo e un gufo. Con queste immagini si apre il terzo episodio. La tranquillità naturale del paesaggio è rotta da un canto fuori campo: la voce profonda è subito riconoscibile in quella del leggendario cantautore americano Tom Waits, che per i registi diventa un cercatore d’oro nel pieno della sua attività. Ed è proprio su quest’ultima che All Gold Canyon si concentra maggiormente, indugiando su attrezzi e modalità del lavoro. Riuscirà a trovare la pietra che tanto cerca? Sul finale, quando nuovamente sembra avvenire l’inevitabile scherzo del destino, i Coen ci sorprendono di nuovo. In ogni caso, la natura intorno all’uomo, indifferente, riprende il suo corso.

The Gal Who Rattled

Alice Longabaugh (Zoe Kazan) parte, insieme al fratello, per l’Oregon alla ricerca di un marito e di una nuova vita. Ad avere conoscenze sul posto e soldi per il viaggio è il familiare che l’accompagna, familiare che, fin dalla prima esilarante scena a tavola, scopriamo essere malato. Il viaggio in carovana è guidato da due cowboy esperti e solitari, interpretati da Bill Heck e Grainger Hines. La morte e l’amore faranno saltare i piani della protagonista.

Episodio lungo più del doppio degli altri, The Gal Who Rattled è quello che maggiormente, per via della sua struttura, sarebbe potuto essere un film autonomo. Sarebbe poi interessante sapere quando Joel e Ethan lo hanno scritto, visto che la storia di una donna che cerca di sopravvivere e autodeterminarsi nel west composto da uomini si cala perfettamente nel contesto sociale del post-#metoo. Struttura solida, personaggi ben caratterizzati portano ad un finale quasi action amarissimo e beffardo, dove per giunta compare per la prima volta uno degli elementi topici del genere western: gli indiani.

The Mortal Remains

Un irlandese, un inglese molto simile a Edgar Allan Poe, un francese, un cacciatore e una signora altolocata condividono un viaggio in carrozza verso la città più vicina. Quella che sembra l’inizio di una barzelletta di bassa fattura è invece la sinossi di The Mortal Remains, capitolo conclusivo dello straordinario libro che è La Ballata di Buster Scruggs. Episodio per certi versi riassuntivo e figlio dei precedenti, tanto enigmatico quanto divertente nello svilupparsi in un infinito dialogo che man mano porta a rivelare sfaccettature sempre più profonde dei protagonisti.

Nel dibattere di temi importanti, come l’umanità o l’amore, i personaggi si azzuffano in liti verbali esilaranti e, come ci mostrano i Coen, inutili: in ogni caso, indipendentemente dalla loro volontà, tutti sono destinati alla medesima fine. Come dice la frase di lancio del film, “stories live forever, people don’t”.

Considerazioni

L’ultimo lavoro dei Coen è una lucidissima e raggelante riflessione sulla vacuità della vita e sull’importanza soltanto ludica delle storie e dell’arte. Nonostante il tono leggiadro con cui trattano la materia (fuorché in Meal Ticket, episodio cardine del film) i registi scrivono un saggio nichilista sulla considerazione spietata che hanno dell’esistenza, dominata dal caso e dalla sopraffazione reciproca. In questo quadro, anche la natura (vedasi All Gold Canyon) è totalmente indifferente al destino degli uomini. Il lavoro sul genere western, con la sua naturale predisposizione allo scontro armato e alla legge del più forte, diventa dunque incredibilmente funzionale a trattare tutto ciò.

L’arte, in quanto prodotto dell’uomo, è subordinata al denaro e alla sopravvivenza ed è destinata, come i suoi fautori, a “dissolversi nell’aria”, come dice il freak di Meal Ticket nel separarsi dal suo pubblico, a sua volta citando La Tempesta di William Shakespeare.

Da u punto di vista tecnico i film è uno straordinario ordigno a orologeria. I Coen gestiscono perfettamente i tempi drammatici di ogni episodio e sono eccezionali nella costruzione dei dialoghi. Near Algodones e The Mortal Remains sono, a mio avviso, i due più deboli: il primo per colpa di un minutaggio che impedisce un sufficiente sviluppo narrativo, al secondo, contrariamente, avrebbe giovato di qualche minuto in meno.

In totale, con 133 minuti, La Ballata di Buster Scruggs è il film più lungo di Joel e Ethan. Per la grazia con cui è scritto e diretto però sarebbe stato comunque estremamente godibile anche se fosse durato il doppio, il triplo o per sempre. D’altronde stories live forever, people don’t.