Studente romano di scienze politiche, appassionato di economia, serie TV, politica, soprattutto statunitense, e scrittura. La fusione delle ultime due ha portato alla collaborazione con il Prosperous Network.

I, Donald John Trump, do solemnly swear, that I will faithfully execute the office of the President of the United States, and will to the best of my ability, preserve, protect and defend the Constitution of the United States. So help me God.

Il 20 gennaio 2017, Donald Trump prestò giuramento durante la cerimonia di inaugurazione, diventando così ufficialmente il quarantacinquesimo Presidente della storia degli Stati Uniti. Da quello che era, senza dubbio, un gran momento di festa per lui e per il suo entourage (e per tutti i suoi sostenitori, ovviamente) si passa, adesso, ad un altro 20 gennaio, contraddistinto da un clima molto meno gioioso e da un‘atmosfera di tensione. Nel primo anniversario della sua presidenza, infatti, si è materializzato uno dei peggiori incubi di un POTUS (secondo solo, probabilmente, ad un attentato o ad una procedura di impeachment), ossia lo shutdown. Questo termine, probabilmente, non suonerà nuovo a molte delle persone che si interessano, in modo più o meno costante ed approfondito, alle vicende riguardanti la politica statunitense: lo shutdown, ossia il blocco delle attività amministrative, è infatti un evento che, dal 1980 ad oggi, si è verificato già nove volte (incluso quello di cui stiamo parlando in questo articolo).
Il 1980, citato poco fa, non è stato scelto a caso: prima di quella data, infatti, si erano già verificati sei shutdown: uno nel 1976 e cinque tra il 1977 e il 1979. In quelle occasioni, però, gli enti pubblici non applicavano la legge alla lettera, riducendo in parte le attività non strettamente essenziali, ma proseguendo comunque con la maggior parte delle attività. Nel 1980, però, ci fu un grande cambiamento apportato da Benjamin R. Civiletti, Procuratore Generale sotto l’amministrazione Carter e primo Procuratore Generale italoamericano della storia. Civiletti, infatti, pubblicò una nuova interpretazione, molto più rigida, della norma, secondo la quale gli enti pubblici dovevano interrompere tutte le loro attività tranne quelle contraddistinte da un “ragionevole e articolabile legame con la sicurezza della vita umana o la tutela della proprietà”.

Benjamin R. Civiletti

Quando si parla di shutdown, il focus non può che ricadere sul Congresso: all’organo legislativo spetta il potere esclusivo sulla gestione del bilancio federale. Ogni anno, l’organo legislativo deve approvare un gran numero di disegni di legge (detti Appropriations bill) che stanzino fondi a dipartimenti, agenzie e programmi del governo. In caso ciò non riesca, si corre un serio rischio di shutdown. Spesso, quando il Partito al governo capisce che potrebbe avere una certa difficoltà nel far approvare tutti questi appropriation bill, esso può ricorrere all‘omnibus spending bill. Questo particolare tipo di disegno di legge, la cui prima applicazione è avvenuta nel 1985, quando Ronald Reagan firmò il Consolidated Omnibus Budget Reconciliation Act of 1985, è composto dalla stragrande maggioranza degli appropriation bill, che vengono dunque incorporate all’interno di una singola proposta. Il grande vantaggio consiste, ovviamente, nel fatto che, in questo modo, si debba tenere una sola votazione in ogni Camera per approvare il Bilancio, invece di molte votazioni (che comporterebbero un più alto rischio di perdere qualche votazione).  La maggioranza repubblicana, sapendo di essere in forte difficoltà, ha scelto di ricorrere proprio a questo strumento, nella speranza di ottenere un esito positivo in entrambe le Camere. Si tratta, nello specifico, di una spending bill a breve termine, in grado di garantire fondi a tutto l’apparato federale fino a metà febbraio. Questo piano, già di per sé rischioso, doveva confrontarsi con altri due ostacoli piuttosto difficili da aggirare: i Democratici, infatti, si erano detti da subito non disposti ad approvare la proposta fino a quando non si fosse trovato un accordo per sistemare la questione dei figli dei migranti irregolari (di cui vi avevamo già parlato in questo articolo); inoltre, in Senato, la maggioranza richiesta per l’approvazione di questo tipo di decreti legge (sia omnibus che appropriations) non è del 50%+1, bensì del 60%. Questo succede perché il settore relativo al budget e all’economia è uno dei pochi a non essere stato colpito, nel corso delle varie amministrazioni, dalla nuclear option, che elimina la supermaggioranza in favore di una maggioranza semplice (di questa questione, collegata alla nomina alla Corte Suprema di Neal Gorsuch, si era parlato in modo più approfondito in quest’altro articolo).

Neal Gorsuch, primo giudice della Corte Suprema ad essere eletto a maggioranza semplice

La preoccupazione maggiore del GOP, naturalmente, non era rivolta alla Camera dei Rappresentanti, bensì al Senato: nella prima, infatti, è sufficiente la maggioranza semplice e, inoltre, i repubblicani (238) hanno un buon margine sui democratici (193); per questi motivi, ottenere  215 voti a favore non è mai sembrato un problema (teoricamente, la metà più uno, alla Camera, dovrebbe essere di 218, ma al momento ci sono quattro posti vacanti) ed, infatti, è andato tutto secondo i piani dei dirigenti repubblicani: 230 rappresentanti si sono detti a favore, 197 si sono detti contrari e 4 si sono astenuti (qui in dettaglio il voto dei singoli rappresentanti). Nel complesso, sono stati 11 i repubblicani a votare no, e molti di loro erano annunciati, come Justin Amash (MI) e Thomas Massie (Ky), entrambi appartenenti all’ala più libertaria del Partito repubblicano, il Freedom Caucus, ed entrambi spesso e volentieri critici nei confronti delle politiche dell’amministrazione Trump (come si può notare in questo tweet, questo sentimento di ostilità è reciproco).

In Senato, la situazione si è mostrata sin da subito più complessa: in questa ala del Congresso, infatti, i repubblicani conservano una maggioranza molto risicata, 51-49 (insufficiente, dunque, per approvare la spending bill); inoltre, a ciò va aggiunta l’assenza di John McCain (Az), tornato in Arizona per ragioni mediche (ricordiamo che l’ottantunenne senatore sta combattendo contro un tumore al cervello). Per il GOP era necessario, quindi, l’appoggio di almeno 10 senatori democratici ma, come detto prima, i leader del partito d’opposizione erano stati chiari: niente voto sulla spending bill senza aver trovato un accordo per il DACA. Per cercare di risolvere la situazione di stallo, poche ora prima del voto il leader della minoranza al Senato Chuck Schumer (Ny) è andato alla Casa Bianca per incontrarsi con il Presidente Trump, sotto invito di quest’ultimo.
Del resto, il rapporto tra i due è sempre stato sotto i riflettori: Schumer, infatti, è il congressista (attualmente in carica) a cui Trump e i membri della sua famiglia hanno donato più soldi per contribuire alle sue varie campagne elettorali. Tutto ciò non deve essere una sorpresa: oltre a condividere con Schumer la città d’origine, New York, Donald Trump ha condiviso, per tre decenni, anche l’appartenenza allo stesso partito, quello Democratico. Inoltre, il 4 dicembre scorso, c’è stato un incontro alla Casa Bianca proprio tra Trump, Schumer e Nancy Pelosi (Ca), leader della minoranza alla Camera, per discutere di un accordo sul DACA. Non vanno dimenticate, inoltre, alcune frasi che il tycoon ha speso nei confronti dell’avversario politico, definendolo come “far smarter than Harry R and with the ability to get things done”, ossia “molto più intelligente di Harry Reid (precedente leader democratico al Senato) e capace di portare a termine le cose”. Alla luce di tutto ciò, quindi, la convocazione di Schumer alla Casa Bianca poteva far presagire la possibilità di un accordo in grado di scongiurare lo shutdown.

Chuck Schumer

Nove ore prima della deadline, però, il senatore newyorkese è tornato al Campidoglio riferendo che, nonostante fossero stati effettivamente compiuti dei passi avanti, rimanevano ancora molte divergenze di opinioni su un’ampia gamma di temi; per questo, sarebbero stati necessari altri incontri e altre trattative. Per il partito repubblicano si faceva, quindi, sempre più concreta l’ipotesi di un fallimento nella votazione sulla spending bill. Come se tutto ciò non bastasse, Mitch McConnell non poteva contare neanche sull’appoggio di tutti i senatori del suo partito: esattamente come alla Camera, infatti, anche al Senato c’è una frangia libertaria che spesso e volentieri critica le decisioni prese dall’establishment repubblicano. L’opposizione di Rand Paul (Ky) e Mike Lee (Ut), esattamente come quello di Amash e Massie, è dettato dalla volontà di non supportare una spending bill a breve termine, soprattutto se è la quarta da ottobre (inizio dell’anno fiscale) a questo momento. A loro due si aggiungevano, per vari motivi, altri senatori del GOP: Mike Rounds (S.D.) si era espresso in modo critico sulla parte relativa all’esercito, così come Lindsey Graham (S.C.), il quale aveva anche evidenziato come quella spending bill fosse la quarta in neanche quattro mesi; Jeff Flake (Az), invece, ha avuto una visione molto vicina a quella del Partito Democratico, criticando l’assenza di un piano per il DACA.

Date queste premesse, la votazione non poteva che finire in un solo modo: sconfitta per il Partito Repubblicano. Tra i repubblicani indecisi, infatti, soltanto Rounds ha cambiato idea, vanificando anche i voti favorevoli di cinque senatori democratici, tutti provenienti da red states, ossia da Stati contraddistinti da  una forte preferenza dell’elettorato nei confronti del GOP: Claire McCaskill (Missouri), Heidi Heitkamp (North Dakota, stato che i democratici non conquistano durante le presidenziali dal 1964), Joe Manchin III (West Virginia), Doug Jones (Alabama, appena eletto dopo una campagna elettorale molto impegnativa contro il controverso Roy Moore) e Joe Donnelly (Indiana).
Considerata la situazione, ormai ampiamente compromessa, Mitch McConnell (Ky) ha deciso di votare no, per un risultato finale di 50-49. Non si tratta, però, di un voto ideologico, bensì meramente strategico: in questo modo, infatti, egli, leader della maggioranza al Senato, potrà riproporre di nuovo il voto.

Come era prevedibile, non potevano mancare le classiche accuse rivolte agli avversari politici: uno dei primi ad aprire le danze è stato Chuck Schumer, che, ancora prima del voto, aveva reso chiaro il suo pensiero: “If, God forbid, there’s a shutdown, it will fall on the majority leader’s shoulders and the president’s shoulders”, ossia “Se, Dio non voglia, ci sarà uno shutdown, esso sarà sulle spalle del leader della maggioranza (McConnell, ndr) e su quelle del Presidente”. Dall’altro fronte, quello Repubblicano, particolarmente esplicativa è stata la dichiarazione di Paul Ryan (Wi), Speaker alla Camera: “I ask the American people to understand this: The only people in the way of keeping the government open are Senate Democrats”, ossia “Chiedo al popolo americano di capire questo: le uniche persone che possono mantenere il governo aperto sono i Democratici al Senato”. Non poteva mancare, ovviamente, il commento del Presidente Trump che, affidandosi a Twitter, ha lanciato un duro attacco al Partito Democratico e alle vigenti politiche sull’immigrazione.

Nei due giorni successivi all’inizio dello shutdown, le posizioni delle varie fazioni sono praticamente rimaste le stesse: i Dem chiedono un accordo relativo ai figli dei migranti irregolari, altrimenti niente voto, i Repubblicani continuano ad insistere su una spending bill a breve termine.  A questa strategia  si affianca quella proposta dal Presidente Trump, di stampo decisamente diverso e più aggressivo: usare l’opzione nucleare, ossia fare come fatto con la nomina alla Corte Suprema, una volta resisi conto di non poter arrivare ai 60 voti necessari per la nomina di Gorsuch: passare con maggioranza semplice una proposta detta, per l’appunto, opzione nucleare, che permetta di abbassare la maggioranza richiesta dal 60% al 50%+1. Questa soluzione, che sembra molto comoda e conveniente sul breve periodo, potrebbe rivelarsi dannosa e controproducente sul lungo periodo: le supermaggioranze, infatti, erano (e sono tutt’ora, almeno per quanto riguarda le poche ancora non sottoposte a nuclear option)  molto importanti in quanto costringevano, in un certo modo, i due partiti a lavorare insieme e a trovare accordi bipartisan (semplicemente perché è abbastanza arduo, per un partito, avere 60 senatori). In questo modo, invece, al partito di maggioranza basta soltanto tenere unito il proprio partito (certo, comunque, non un compito facilissimo, come mostrato anche dalla parte sugli esponenti dissidenti all’interno del Grand Old Party) per far passare qualunque tipo di legislazione. Il risultato di questo processo non può che essere una spaccatura e una polarizzazione sempre maggiori. Prendiamo, ad esempio, le nomine alla Corte Suprema: con la maggioranza fissata a 60, entrambi i partiti dovevano trovare candidati in grado di suscitare appeal anche ad una parte degli avversari politici; da Gorsuch in poi, non sarà più necessario, e si potranno proporre giudici più radicali e meno tendenti alla bipartisanship. Per tutta questa serie di motivi, Mitch McConnell e molti altri colleghi di partito non sono stati disposti a ricorrere all’opzione nucleare: come fatto sapere dal portavoce del Senatore del Kentucky, infatti, “The Republican Conference opposes changing the rules on legislation”, ossia “Il caucus Repubblicano si oppone al cambiamento delle regole relative alla legislazione”. La soluzione da trovare, quindi, sarebbe sarebbe dovuta essere per forza bipartisan. .

 

La prova del nove, per entrambi gli schieramenti, si è  avuta alle 13, orario della East Coast, del 22 gennaio, quando il Senato ha votato su un finanziamento al Governo fino all’8 febbraio (nella precedente proposta, quella bocciata il 19 gennaio, si parlava di finanziamento fino al 16 febbraio). Questa manovra ha incontrato anche il benestare di Ryan, che aveva detto che la Camera sarebbe stata più che disposta ad approvare questa spending bill in caso di raggiungimento dei 60 voti nel Senato. Questa differenza di otto giorni tra i due disegni legge potrebbe essere considerata minima, quasi inutile, ma non è cosi: il programma DACA, infatti, scade ad inizio marzo. Il 16 febbraio causava forti resistenze ai democratici perchè si trattava di una data troppo vicina alla scadenza di cui sopra; il loro timore, dunque, è che non ci sarebbe più stato tempo per discutere di quella questione. La speranza dei repubblicani, per concludere, era che l’8 febbraio venisse ritenuto come molto più ragionevole e in grado di garantire una discussione abbastanza lunga per trovare un accordo soddisfacente.
Alla fine, l’ha spuntata il GOP: il Senato, infatti, con 81 voti favorevoli e 18 contrari, ha infatti approvato il finanziamento fino al 18 febbraio, previo accordo tra i due leader, McConnell e Schumer. La più grande vittoria per il Partito repubblicano, in questo accordo, è che non sono stati presi impegni specifici, si è soltanto garantita la disponibilità ad intavolare una lunga serie di trattative per arrivare ad un accordo bipartisan; in questo modo, il GOP ha ottenuto quello che voleva, ossia la riapertura delle attività federali, e ha ancora un ampio margine di manovra.
I 16 voti contrari mostrano una spaccatura all’interno del DNC (2 sono venuti dai repubblicani Paul e Lee, contrari alle spending bill a breve termine): per molti, infatti, le promesse di McConnell e le rassicurazioni di Schumer non sono state abbastanza; questo gruppo, inoltre, si compone di molti tra i nomi più in vista per una corsa presidenziale: Bernie Sanders (Vt, indipendente), Elizabeth Warren (Mass), Kamala Harris (Ca) e Cory Booker (NJ). La stessa spaccatura sta emergendo anche all’interno della base Dem: uno degli hashtag più in voga su Twitter in queste ore, sia tra una frangia dei democratici che tra i repubblicani, è #SchumerSellout. L’opinione di molti, in pratica, è che abbia concesso la riapertura del Governo senza avere abbastanza garanzie da parte dei Repubblicani.
Per il momento, non si può dire chi abbia ragione, nonostante si possa notare con chiarezza come McConnell, per il momento abbia ottenuto una vittoria: la vera battaglia, infatti, non si è ancora svolta. Bisognerà attendere, quindi, l’8 febbraio.