Laureato in Studi in comunicazione alla Cesare Alfieri di Firenze. Ora studente di Strategie di Comunicazione Pubblica e Politica dell’Università di Firenze. Appassionato di politica, storia, filosofia, cinema e letteratura.


Il Tigray è la regione più a nord dell’Etiopia, al confine con l’Eritrea. È la regione abitata dall’etnia tigrina, che è in prevalenza cristiana, e dall’etnia tigrè, che è musulmana sunnita.

Il Tigray è una regione piena di insidie, contesa fra le due ex colonie italiane per venti anni, dal 1998 al 2018. Poi il trattato di pace del luglio di tre anni fa, che ha fatto ben sperare, una distensione dei rapporti, la calma per il Tigray.

Non tutto, però, è andato come previsto.

L’Etiopia è in preda a lotte intestine, le varie etnie che la compongono si scontrano frequentemente. I popoli più diffusi sono gli oromo, gli amhara, i somali e i tigrini. Insieme contano più del 70% della popolazione. Gli oromo, che sarebbero la maggioranza, sono i più discriminati e marginalizzati. Al governo hanno prima seduto gli amhara, poi i tigrini, che hanno perpetrato le discriminazioni e le violenze. Tra il 2015 e il 2018 numerose manifestazioni hanno imperversato per Addis Abeba e nelle principali città etiopi. Gli oromo cercavano maggiore visibilità e un più alto rispetto dei diritti.

Nel 2018 si registra il primo cambio di passo, che farà di quell’anno un periodo rilevantissimo per il paese africano. Viene nominato Primo Ministro Abiy Ahmed Ali, è il primo oromo a ricoprire questa carica. Succede a un leader tigrino, Hailé Mariàm Desalegn, che aveva portato il paese in situazione di emergenza, con un carico di morti sulle spalle per gli scontri alle manifestazioni degli ultimi 3 anni. È un cambio di passo significativo: il nuovo primo ministro attua un processo di riforme per la privatizzazione delle aziende e l’eliminazione della censura a siti internet e canali tv.  Il 9 luglio di quell’anno Abiy Ahmed firma il trattato di pace con l’Eritrea, cosa che gli varrà il premio Nobel per la pace del 2019.

Non è tutto oro quello che luccica. Le etnie non riescono a vivere pacificamente. Nel 2019 viene assassinato a 34 anni Haachaaluu Hundessaa, cantautore di etnia oromo. Hundessaa era molto famoso per il suo attivismo politico, che trasponeva anche nelle canzoni. A soli 17 anni era stato incarcerato per aver manifestato contro il potere tigrino e per far parte del Fronte di Liberazione Oromo. I giorni successivi alla sua morte gli oromo sono tornati in piazza a richiedere il rispetto dei loro diritti, nella città di Harar hanno decapitato la statua di Ras Makonnen, padre di un imperatore di etnia amhara. Il potere del primo ministro oromo non ha scardinato le tensioni tra etnie, che tornano vive continuamente, è un fatto culturale.

Il portato dell’era coloniale, il prodotto di confini tracciati con il righello.

L’Etiopia è anche terra di rifugiati. Paese di passaggio per le tre rotte migratorie che caratterizzano l’Africa: quella per il nord, dal Sahel alla Libia, verso l’Europa; quella dell’est, verso i paesi del Golfo e lo Yemen; quella per il sud, verso il Sudafrica. Sono in tanti, molti provengono dalla vicina Eritrea, scappano dalle ritorsioni del loro governo. Le etnie si moltiplicano e le problematiche si ampliano.

Gli ultimi mesi del 2018 avevano già visto un ennesimo cambio di passo. La frontiera tra Etiopia ed Eritrea, che era stata aperta, viene ora richiusa. Probabilmente perché molti giovani sono scappati dallo stato di Asmara a quello di Addis Abeba, si parla di quasi 30mila persone. In Eritrea i diritti umani continuano a non essere rispettati, il Presidente è Isaias Afawerki, dittatore dal 1993. A tutto questo si aggiungono gli scontri territoriali.

Nel Tigray il conflitto si presenta nuovamente nell’autunno del 2020. Motivi etnici, territoriali, di risorse primarie. Scoppia la guerra civile tra il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray (Tplf) e il governo federale. Uno dei motivi scatenanti sono sicuramente le elezioni, che dovevano essere rimandate secondo la legge nazionale, vengono comunque svolte. Il governo federale non accetta il gesto e impedisce ai giornalisti stranieri di documentare lo svolgimento. Il Tplf afferma: il “governo cerca di attuare uno schema subdolo per mettere in ginocchio il (nostro) popolo”. Il gruppo politico ritiene ancora irrisolto il conflitto con l’Eritrea. Il Tplf ha una lunga storia intrisa di nazionalismo etnico. Nel 2018 il Fronte di liberazione tigrino non entra a far parte del governo di Abiy Ahmed.

Le tensioni crescono fino al 4 novembre, Abiy Ahmed invia l’esercito federale nella regione. Sembra che sia stata attaccata una base militare. Il Tigray entra in stato di emergenza: vengono tagliate le linee telefoniche e bloccato Internet. Il Tplf risponde all’attacco lanciando missili contro due aeroporti etiopi e contro l’aeroporto di Asmara, capitale dell’Eritrea. Gli Stati che sono stati per anni in guerra ora si aiutano contro il Fronte popolare di liberazione tigrino: l’Eritrea partecipa attivamente con spedizioni militari, nonostante i due governi continuino a negare il fatto. In molti scappano verso il Sudan. Il 29 novembre termina la Guerra del Tigray: l’esercito federale riprende il controllo di Macallè, il capoluogo della regione. Il Tplf non si arrende e annuncia che continuerà a combattere contro quella che definiscono “una dittatura illegale, unitaria e personalistica attualmente responsabile del potere politico a livello federale”. È una guerra breve, che si consuma in poche settimane, ma il fatto che lo scontro possa trasformarsi in guerriglia si fa sempre più reale. Nel frattempo le atrocità che sono state nascoste dai due stati vengono alla luce.

A inizio dicembre, dopo molte richieste da parte di Ong e della comunità internazionale, l’Onu chiede di poter entrare nella regione del Tigray, dove si paventa una catastrofe umanitaria perché oltre 600mila abitanti dipendevano dagli aiuti umanitari, aiuti bloccati per oltre un mese a causa del conflitto. Tra questi ci sono anche 96mila rifugiati eritrei, il timore è che l’esercito di Asmara abbia usato verso di loro una maggior recrudescenza.

A fine febbraio Amnesty International denuncia un massacro di civili ad Axum. Sono 240 i morti stimati e che verrebbero confermati dalle immagini satellitari. L’attacco sarebbe stato perpetrato dalle truppe eritree in appoggio a quelle etiopi. I governi negano l’appoggio eritreo, ma i civili dicono di aver riconosciuto uniformi e veicoli dell’esercito di Asmara, alcuni dicono che sarebbero stati proprio loro a identificarsi come eritrei. Negli stessi giorni la Cnn conferma alcune notizie riportate da “Aiuto alla chiesa che soffre”, Ong cattolica italiana, secondo cui sarebbero circa 150 i cristiani ortodossi uccisi da militari eritrei al santuario di Maryam Dengelat. I fedeli si erano radunati per la festa di Tsion Maryam, il 30 novembre, il giorno successivo alla fine della Guerra del Tigray. I possibili crimini di guerra e crimini contro l’umanità aumentano con il passare dei giorni.

Il 4 marzo l’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha espresso la necessità di chiarezza sui fatti avvenuti, anche su probabili violenze sessuali. I crimini potrebbero essere stati perpetrati da tutti gli attori in campo: militari etiopi ed eritrei, ma anche dal Tplf. Isaias Afawerki continua a negare l’intervento, mentre Abiy Ahmed Ali specifica di aver già avviato un’indagine interna. Tuttavia, le indagini non sono imparziali e trasparenti e ciò fa temere che le violenze possano accadere di nuovo. Le Nazioni Unite hanno fatto richiesta ad Addis Abeba di poter entrare nel Tigray per svolgere i propri accertamenti.

La guerra non è risolta e tutto è ancora dubbio. I popoli etiopi non metteranno da parte le loro prese di posizione e gli scontri rimarranno una normalità nell’ex colonia italiana. L’Onu non riuscirà a imporre controlli stringenti e indagini internazionali. È un fatto che questa guerra sia solo l’ultima parte di una Etiopia disgregata, dove i tigrini non tollerano la leadership oromo nell’esecutivo di Addis Abeba, dove la tensione tra alcune parti dell’Etiopia e l’Eritrea continua ad essere cogente. Questa guerra racconta anche un grande problema umanitario: le guerre di oggi, poco conosciute, sono ancora molto sanguinose e problematiche dal punto di vista dei diritti umani.