Laureato in filosofia presso l’università degli studi di Genova, dove frequento la magistrale in metodologie filosofiche. Appassionato, ovviamente, di filosofia, soprattutto nel suo versante etico, politico e sociologico.


“La rivendicazione di un’identità culturale tende a imporsi in tutto il mondo, oggi, a causa del ritorno del nazionalismo e come reazione alla mondializzazione.” È con queste parole che si apre L’identità culturale non esiste (Einaudi, 2018), breve, ma estremamente prezioso, testo del filosofo e sinologo francese François Jullien. La tesi proposta, chiaramente esplicitata nel titolo dell’opera, riflette l’esigenza di comprendere, e se possibile risolvere, i conflitti che dilaniano l’Europa contemporanea, la quale si ritrova a doversi confrontare con diverse culture e diverse lingue, con modi di pensare e di concepire il mondo spesso distanti da quelli europei.

Globalizzazione e nazionalismi, fenomeni indissolubilmente legati, hanno permesso questo stretto, ormai inevitabile, contatto tra popoli, generando al contempo una forte necessità di definire, delineare e rivendicare una propria identità culturale. Ed è proprio dal concetto di “identità” che Jullien prende le mosse: un concetto che esprime qualcosa di statico, immobile, definito ed immutabile, completamente inadatto per descrivere le culture. Infatti, l’ “identità” è più facilmente attribuibile ai singoli soggetti e alla loro unicità, che permane nonostante i cambiamenti biologici; i sistemi culturali e sociali sono, al contrario, dinamici, permeabili, tendenti allo scambio e alla contaminazione reciproca. Ed è proprio l’abuso del concetto di “identità culturale” a generare comunitarismi integralisti da un lato, ed indifferenti relativismi dall’altro. 

Jullien propone, con il fine di auspicare un dialogo tra le diverse culture, un ripensamento di alcune categorie filosofiche del pensiero occidentale. Tra queste possiamo citare quella dell’ universale, la quale contiene in sé una pericolosa deriva dogmatica, assimilante e violenta. Se concepiamo l’universale come costitutivo e non regolativo (come già aveva suggerito Kant), il rischio è di totalizzare e dogmatizzare quella che resta pur sempre una visione particolare, rendendola chiusa ed incapace di aprirsi verso il nuovo. Inoltre, in che modo si può tradurre l’universale una volta usciti dai confini europei?

Jullien ricorda che questa categoria non è facilmente estendibile a tutte le culture e quindi nemmeno ai loro modi di pensare, di dialogare e di percepire il reale. In questo modo non facciamo altro che proiettare, consapevolmente o meno, quelli che sono i nostri schemi interpretativi ad altre culture, spesso radicalmente diverse dalla nostra.

Ma il dispositivo di esclusione può essere generato anche da una rigida idea di uniformità, dall’aderenza indiscussa a regole astratte che estromettono tutto ciò che si discosta dalla “norma”. Il diverso, il differente, se ridotto all’uniforme tenderà sempre alla chiusura, all’esclusione, rigettando le possibilità di un vero dialogo. È proprio in questo modo che le comunità, invece che aprirsi ed essere quindi autentiche, si irrigidiscono in sé stesse.

Come è possibile allora il dialogo tra culture?

La proposta del filosofo non è orientata a cercare di negare le diversità culturali, ma nemmeno quella di esortare a trincerarsi dietro al concetto di “identità culturale”, soppressore di qualsiasi forma di dialogo. Jullien invita a non considerare le differenze come barriere, ma come scarti: distanze, spazi intermedi, lacune, vuoti non colmati nei quali è possibile l’incontro con l’altro.

Proprio in questo spazio libero le culture possono condividere, reciprocamente, le proprie “risorse”. Da ciò deriva che i sistemi culturali non differiscono sul piano dell’ “identità”, ma su quello delle “risorse”, delle quali possiamo usufruire. Infine, è proprio lo scarto inteso come dialogo ciò che garantisce la sopravvivenza stessa delle culture.

La prospettiva di Jullien, radicalmente dialogica, può essere un’innovativa chiave di interpretazione per pensare ad un orizzonte non monistico, coloniale o imperialista, ma pluriprospettico e pluralistico, capace di ospitare, e non assimilare, il differente

Una lezione che, se appresa da ognuno di noi, può diventare un vero e proprio antidoto contro gli estremismi che minacciano seriamente la stabilità delle democrazie occidentali. Estremismi, principalmente di destra, che generano odio, vivono e si propagano grazie ad esso, strumentalizzando, criminalizzando e discriminando l’altro. Abbiamo il dovere di arginare gli intolleranti e, forse, il dialogo, quello autentico, potrebbe essere un buon punto di partenza.