Laureato in Storia e critica del cinema, studia Informazione ed Editoria presso l'Università di Genova. Appassionato di tutto ciò che riguarda l'audiovisivo e la parola scritta.


1. Della morte

Trent’anni sono tanti, dentro ci stanno tante storie, tanta Storia, tanta vita. Nel caso di Aldo, Giovanni e Giacomo, forse il gruppo comico più famoso e di successo del nostro paese, trent’anni – il tempo trascorso dal loro esordio come trio, nel 1991 – sono costellati di molte battute, risate, sketch.

La loro è una carriera così lunga e piena di soddisfazioni da fare invidia a qualsiasi altro loro collega: esordiscono nel teatro, poi la televisione porta loro la fama, prima tra i programmi di Paolo Rossi e poi della Gialappa’s Band; al cinema, infine, arriva la consacrazione definitiva: vi esordiscono nel ’97, con un film che crea negli anni un culto totalizzante e una setta piuttosto ampia di fans che ripetono in modo ossessivo frasi e gesti della pellicola. Si tratta, ovviamente, di Tre uomini e una gamba.

Giovanni, Giacomo, Aldo e il Garpez.

Ma, d’altro lato, trent’anni di carriera sono estenuanti, soprattutto per chi si occupa di intrattenimento. Non disattendere le attese o abbassare il proprio livello -specialmente quando è così alto- è difficile, impossibile. Ecco che allora quella stessa setta che prima ti acclamava inizia a vedere solo l’immagine passata, il ricordo felice di ciò che fu: il materiale nuovo smette di funzionare, o meglio di interessare, quello vecchio si ripete fino a svuotarsi di senso. Per molti spettacoli, per più decenni, la stessa battuta a cui segue una risata sempre meno fragorosa.

Col tempo, Aldo, Giovanni e Giacomo sono rimasti vittime del loro stesso successo e del loro stesso pubblico. Superato il periodo dei trionfi commerciali e di critica -di cui Chiedimi se sono felice (2004) è massimo connubio-, ottenuti nella commedia più o meno on the road e più o meno romantica, il trio fatica a reinventarsi. Il primo decennio degli anni 2000 si chiude con Il cosmo sul comò (2008, M. Cesena): un film a episodi, che aspira più al modello Monty Python che a quello Woody Allen. “Aspira”, appunto: la riuscita però, al netto di qualche momento riuscito, è un disastro.

Dopo la parentesi de La banda dei Babbi Natale (2010, P. Genovese), senz’altro migliore del precedente, la discesa qualitativa continua: nelle fugaci apparizioni televisive si ripropongono sketch che hanno più di vent’anni e che giocano stancamente sull’effetto tormentone, in sala arrivano con Il ricco, il povero e il maggiordomo (2014), una variazione sul tema senza alcuna forza o idea che funzioni davvero.

È evidente come in questi anni il trio si muova tra due prospettive opposte: da un lato il tentativo di proporre qualcosa di nuovo all’interno della propria filmografia (Il cosmo sul comò) e a teatro (Ammutta muddica, 2013), dall’altro la rassicurante prospettiva di rimanere in territori familiari, ma senza spinta innovatrice o, banalmente, la forza comica degli anni passati. Vittime dei loro ruoli comici e dei loro personaggi storici, nel 2016 arrivano a teatro con The best of Aldo, Giovanni e Giacomo, l’ennesima celebrazione autoreferenziale di una carriera che, a discapito delle apparenze, non è ancora finita.

Ma come sfuggire alla morte artistica? Come ritrovare sé stessi? Per farlo, si passa da quello che, dai fan e dagli spettatori casuali, è considerato il peggior film della loro carriera.

2. Risvegli

Fuga da Reuma Park (2016, M. Bertacca, Aldo, Giovanni e Giacomo) è uno strano film. Certamente autoreferenziale (non a caso è stato pubblicizzato come celebrazione della carriera, similmente al The best of), ma in cui il rapporto col passato del trio è, quantomeno, affrontato in modo problematico.

Nella storia, Aldo, Giovanni e Giacomo sono anziani, prigionieri del Reuma Park, un ospizio distopicamente situato in un parco divertimenti, dove la sera, all’interno di un tendone (gli echi di Tel chi el telùn sono forti) si celebra la carriera di un gruppo comico una volta famoso: Aldo, Giovanni e Giacomo, per l’appunto.

L’aspetto più interessante è metatestuale: i tre sono ostaggio della situazione, intorno a loro si muovono i loro personaggi storici: i sardi, Rolando e Mr. John Flanagan di Mai dire goal, gli svizzeri; Pdor, il Conte Dracula e Tafazzi, rinchiusi indicativamente nella casa degli orrori del luna park.

Tutte queste apparizioni sono una stantia riproposizione, le gag sono svuotate di ogni veridicità (il contrario di ciò che fece la loro forza negli inizi, un’apparente simbiosi tra i loro personaggi comici e la loro persona), le mani sono finte, i pesci di gomma, gli effetti sonori posticci. Ma gli stessi creatori del freakshow sono decisi, nel film e nella realtà, a scappare da questo limbo autocelebrativo in cui sono costretti, come dice Aldo nel film, «a vedere gli sketch di mille anni fa». E di mille anni fa è anche il sapore dell’umorismo, tutto incentrato sui corpi e sulla fisicità delle gag, come in una commedia slapstick di inizio Novecento, «un sapiente gioco di specchi» che accresce il senso di morte e di tempo trascorso.

Il trio scappa dalla Morte.

Fuga da Reuma Park è una pellicola che non funziona, con grossi problemi di ritmo (gli intermezzi teatrali sono dannosi e opposti al senso complessivo del film) e risate, ma è anche una favola di Orfeo dove i tre, per tornare alla vita, devono lasciarsi alle spalle tutto quel bagaglio comico diventato troppo pesante per essere trasportato con leggerezza.

Un passaggio necessario, obbligatorio per chi vuole proseguire su strade diverse. Sebbene, come detto, il film sia una sorta di seduta di psicoanalisi volta a fare i conti col passato, critica e pubblico, fan e non, lo hanno, anche giustificatamente, massacrato e ad esso sono seguite voci di divorzi e separazioni artistiche, puntualmente smentite. Dopo Reuma Park non è arrivata però la rottura del trio, bensì il lavoro più riuscito da anni a questa parte.

Una rinascita per molti inaspettata, ma di cui, si è tentato di dimostrare, Reuma Park era purgatorio di preparazione.

3. Della vita

«La verità

È che ti fa paura

L’idea di scomparire

L’idea che tutto quello a cui ti aggrappi prima o poi dovrà finire

La verità

È che non vuoi cambiare»

La citazione è di Brunori Sas, cantautore e compositore delle musiche di Odio l’estate (2020, M. Venier), e ben racchiude una delle ragioni per cui il film è importante per Aldo, Giovanni e Giacomo, oltre che, finalmente, bello. Il film esce a gennaio 2020, data da cui sembra trascorsa una vita, un’era geologica. Anticipato da un brutto trailer e da un brutto poster, il film si rivela invece un successo monetario (secondo Movieplayer.it l’incasso si aggira intorno ai sette milioni e mezzo) e una riappacificazione tra i protagonisti e il loro pubblico. Perché?

Partiamo banalmente dalla trama: tre famiglie agli antipodi culturalmente, socialmente ed economicamente, si ritrovano, per un errore dell’agenzia di viaggio con cui hanno prenotato le vacanze, a soggiornare nella stessa casa per un’estate. Un canovaccio classico, banale persino, ma che proprio nella semplicità assoluta trova il suo punto di forza: dopo anni di tentativi sbilenchi di cambi di rotta e di riletture forzate del proprio immaginario, Aldo, Giovanni e Giacomo si limitano ad aggiornare, con estrema lucidità e sincerità, la formula che li ha visti eccellere, quella della commedia leggera, malinconica e agrodolce.

Un ritorno al passato diverso dai precedenti perché cosciente di quello che, nei tanti anni passati, c’è stato e di cosa il trio ha rappresentato per la comicità italiana, in totale opposizione alle mostruosità di gomma di Reuma Park, da cui si è scappati con successo.

Una rivisitazione rasserenata, finalmente in pace, in cui la lettura di secondo livello (i tre che ritrovano l’amicizia, l’omaggio ai tempi che furono della partita di pallone con Vinicio Capossela in sottofondo) non sovrastare il procedere della storia; la storia appunto, fatta di sentimenti e relazioni che tornano centrali, verosimili e non macchiettistiche, e coinvolgono comprimari di livello: funzionano le tre donne, Lucia Mascino, Carlotta Natoli e Maria Di Biase (dalla cui bocca escono le battute più divertenti); funzionano i due giovani, Sabrina Martina e Davide Calgaro, e il loro amore estivo; funziona, infine, la regia di Massimo Venier, il cineasta con cui hanno esordito e firmato i lavori migliori che, come loro, dopo la collaborazione col trio e il bel lavoro con Ale & Franz (Mi fido di te, 2007) ha girato le sue pellicole peggiori.

Odio l’estate torna, come nei migliori lavori del trio, a parlare della vita -e quindi della morte- con la leggerezza e lo stupore con cui, nel finale i personaggi assistono allo spettacolo dei fuochi d’artificio. Un’epifania che è un trucco, come il cinema e la vita, che, nelle parole del maresciallo (M. Placido), «se ci pensi […] sono una minchiata, ma se non ci pensi sono una meraviglia».