Laureato in Relazioni Internazionali presso Alma Mater Studiorum di Bologna, Studente di Strategie di Comunicazione Politica presso Università di Firenze, fondatore del Prosperous Network. Nel tempo libero abuso di Spotify.


Nel nord dello Stato cinese, al suo confine occidentale con il Kazakistan, vi è una regione montuosa abitata da una mescolanza di popoli ed etnie, accomunate dalla religione musulmana. Sto parlando degli Uiguri e i Kazaki, dei Kirghisi e gli Hui. I primi tre di origine turca e turcofoni, l’ultima di origine cinese e sinofona.

Queste popolazioni, che fin dalla prima metà del secolo scorso hanno manifestato la loro volontà di autodeterminarsi svincolandosi dall’egemonia cinese, sono oggi le vittime protagoniste di uno dei più disgustanti crimini contro l’umanità.

Il Partito Comunista Cinese, guidato dagli alti papaveri designati dal Presidente Xi Jinping, ha intrapreso dal 2017 una graduale opera di incarcerazione ed indottrinamento di massa, con l’obiettivo di “eliminare il terrorismo musulmano” e omogeneizzare la popolazione locale alla cultura cinese Han:

Costruzione di numerosi siti di “detenzione e rieducazione” sparsi per tutto lo Xinjiang. Distruzione di moschee, santuari, luoghi di culto e cimiteri locali musulmani in tutta la regione. Arresti, torture, lavori forzati e sterilizzazioni coatte.

Quello messo in campo dal Governo cinese in questa regione montuosa è un autentico sforzo autoritario di manipolare la popolazione secondo canoni culturali diversi da quelli naturali: un programma di manipolazione di massa impiegato con la volontà di rimuovere con qualsiasi mezzo qualsivoglia sacca di differenziazione dalla cultura maggioritaria cinese Han.

La diffidenza centrale Han nei confronti delle etnie che abitano le regioni periferiche dei confini dello Stato risale alla fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Già dal 1949 infatti fu messo in atto un processo di sinizzazione della regione nordoccidentale che permise l’incremento dei cinesi Han residenti dal 6% a poco meno del 40%.


Una storia di persecuzione e volontà di autodeterminazione

Non potendo per motivi editoriali dilungarmi troppo sulle diatribe etniche avvenute negli ultimi 70 anni esporrò gli avvenimenti più salienti sfruttando un documento dell’ISPI, al fine di rendere quanto più chiaro possibile il background storico che ha condotto alla situazione attuale.

La fase odierna della “questione uigura” inizia con il crollo dell’URSS e l’istituzione delle Repubbliche di Kazakistan, Kirghizistan e Tajikistan lungo i confini della regione. La nascita di Stati indipendenti contribuì a riaccendere i sentimenti secessionisti. L’allora presidente cinese Jiang Zemin si affrettò a normalizzare i rapporti con gli Stati emersi dall’era post-sovietica, ma i confini particolarmente porosi dello Xinjiang agevolarono gli scambi con altri esponenti del gruppo etnico uiguro localizzati sul territorio degli stati vicini. Furono queste condizioni a far sì che fosse riscoperto un ideale panturco e a fomentare un nuovo ciclo di moti separatisti nella regione.

L’inesperienza del neonato Governo nel contrastare il separatismo portò a sua volta ad un’inasprimento dei livelli di contestazione politica dei gruppi antistatali che, dopo il 2001, le autorità di Pechino fecero rientrare nella cornice della “guerra globale al terrorismo”, divenendo ufficialmente “terroristi” per il governo centrale.

Il concetto di terrorismo in Cina ha una definizione molto ampia: racchiude infatti il terrorismo, il separatismo e l’estremismo religioso, quella dei “tre mali” dei quali, in particolare, viene accusata la minoranza uigura in Xinjiang.

I Presidenti cinesi che si sono succeduti dal nuovo millennio fino ad oggi hanno gradualmente alzato l’asticella del grado di autoritarismo nella gestione della regione, nel tentativo di sanare una volta per tutte la questione uigura e riportare stabilità e sicurezza nella regione

Dalla campagna strike hard di Zemin che prevedeva una forte presenza militare nella regione a quella attualmente in corso della cosiddetta “rieducazione attraverso il lavoro” di Xi Jinping, abbiamo assistito ad un’escalation di violenza e sistematica violazione dei diritti umani.

Giovane donna di etnia uigura sventola bandiera per l’indipendenza dello Xinjiang

La “rieducazione di massa” orchestrata da Xi Jinping

L’imponente programma di manipolazione di massa messo in campo da Xi Jinping inizia nel 2017 con l’avvio di una campagna di arresti nei confronti degli esponenti più in vista delle minoranze etniche.

Nel giro di pochi mesi decine di migliaia di persone vengono arrestate anche senza alcun mandato, interrogate e spedite in strutture militari che piano piano iniziano a comparire in tutto lo Xinjiang.

International Consortium of Investigative Journalists, associazione di categoria giornalistica, un anno fa pubblicava 137 pagine di un documento ufficiale del Partito Comunista Cinese (rinominate giornalisticamente “China Cables”) in cui vengono esposti i dettagli personali di residenti nello Xinjiang, tra cui le loro abitudini religiose e i legami di parentela, allo scopo di determinare se dovranno essere internate nei campi di “rieducazione”.

In questo rarissimo documento vengono presentate ed indicate le procedure operative per la costruzione, gestione e popolamento dei “campi di rieducazione e lavoro“. Nel giro di due anni è stata stimata la realizzazione di almeno 350 strutture adibite a questi scopi, divise in quattro livelli di sicurezza e dimensione.

Calcolando una media delle stime compiute in questi anni è possibile affermare che almeno un milione di persone sono state imprigionate, sottoposte a violenze, torture e soprusi, con lo scopo di “incorporare la conoscenza della cittadinanza cinese all’interno della società dello Xinjiang”

Secondo numerose testimonianze di uiguri e kazaki fuggiti dalla regione le attività svolte dai detenuti in questi campi consisterebbero, non solo sullo studio della propaganda del partito comunista e la ripetizione di slogan in supporto del Presidente Xi, ma anche sulla graduale abnegazione della dottrina musulmana.

I detenuti infatti verrebbero costretti ogni Venerdì (giorno sacro per i musulmani) a mangiare carne di maiale e recitare versi della Costituzione cinese al posto del Corano.

Gli abusi e le violenze sarebbero all’ordine del giorno, spaziando da torture fisiche ed interrogatori estenuanti (circa la convinzione dei detenuti a “divenire cittadini cinesi”) a sterilizzazioni e aborti forzati su donne.

Inoltre, durante un meeting del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, è stato dichiarato da China Tribunal, un’associazione interpellata sul tema, che “considerate le evidenze in nostro possesso possiamo senza ombra di dubbio affermare che stia avvenendo una raccolta forzata di organi umani dei prigionieri dei campi di reclusione adibiti per la minoranza uigura. [..] Un fenomeno che continua tutt’oggi e coinvolge centinaia di migliaia di vittime

Le informazioni a nostra disposizione, oltre ai rarissimi documenti ottenuti da ICIJ, provengono dalle sopracitate testimonianze dei sopravvissuti fuggiti e da immagini satellitari che attestano il mutamento avvenuto in questi ultimi anni nella regione per opera del Governo centrale.

Distruzione del santuario dell’Imam Asim, importante luogo di culto: a sinistra Marzo 2011, a destra Giugno 2020

Grazie al supporto satellitare infatti è possibile osservare con i propri occhi come il Partito Comunista Cinese stia cercando di rimuovere dalla regione qualsiasi segno di esistenza di una cultura differente da quella Han, distruggendo luoghi sacri, cimiteri e interi villaggi a maggioranza etnica non-Han.

Secondo un report del Australian Strategic Policy Institute, attraverso lo studio delle immagini satellitari della regione, dal 2017 è possibile contare la distruzione o grave alterazione di almeno 8.500 moschee e siti religiosi.

I santuari e i cimiteri rasi al suolo in questi anni dall’autorità cinese incorporavano le tradizioni e l’identità uigure. Molti siti di pellegrinaggio vedevano il transito di migliaia di fedeli ogni anno. La sistematica distruzione di questi luoghi rappresenta un grave crimine contro la cultura e l’identità di questi popoli e non solo.

(puoi trovare più immagini satellitari consultando qua il report completo di ASPI)

Distruzione del cimitero di Sulanim in Hotan, Xinjiang: sinistra Aprile 2018, destra Settembre 2019

La campagna globale contro gli uiguri

Ma, secondo nuove testimonianze raccolte da Amnesty International, la persecuzione delle minoranze non si esaurirebbe nei confini nazionali, delineando una dimensione globale della campagna cinese contro tali etnie.

Il Governo cinese infatti starebbe sottoponendo ad intimidazioni gli uiguri persino dopo che hanno lasciato il Paese: “Le agghiaccianti testimonianze che abbiamo raccolto dimostrano quanto l’ombra della repressione contro le minoranze musulmane della Cina vada ben oltre i confini”, ha dichiarato Patrick Poon, ricercatore di Amnesty International per la Cina, “anche dopo essere fuggiti dalla persecuzione nello Xinjiang, gli uiguri e i membri delle altre minoranze musulmane non sono al sicuro. Il Governo cinese trova modo di raggiungerli.”

Solo da settembre 2018 a settembre 2019 Amnesty International ha raccolto informazioni da circa 400 uiguri, kazachi, uzbechi e altri membri delle minoranze a predominanza musulmana sparsi per il mondo: i loro racconti rivelano il clima di minaccia e di terrore che queste comunità affrontano ogni giorno. Molti uiguri intervistati hanno riferito che le autorità locali del Xinjiang prendono di mira i loro parenti per cercare di ridurre al silenzio le comunità residenti all’estero. Altri hanno denunciato l’uso, da parte delle autorità cinesi, delle app di messaggistica per rintracciarli, contattarli e minacciarli.


Eco mediatica e reazioni internazionali: ancora non è abbastanza

Negli ultimi anni molte entità hanno denunciato ciò che sta avvenendo nello Xinjiang, nel tentativo di rendere consapevole l’opinione pubblica internazionale e i Governi degli Stati, occidentali e non: news outlet come New York Times, El Pais, Buzzfeed, Radio Free Asia, Hong Kong Free Press, associazioni di categoria come International Consortium of Investigative Journalists, associazioni per i diritti umani come Amnesty International, Osservatorio Diritti Umani, World Uyghur Congress, sono solo alcuni degli attori che in questi anni hanno cercato di mettere sotto il riflettore la disgustante situazione in corso nello Xinjiang.

Gi ambasciatori di 22 Stati, tra cui Australia, Canada, Francia, Germania, Giappone e Regno Unito (Italia grande assente tra i firmatari ), hanno inviato nel Luglio 2019 una lettera indirizzata al Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (UNHRC) nella quale viene condannato il trattamento delle minoranze etniche nello Xinjiang e sollecitata la chiusura dei campi di internamento.

Solo pochi giorni dopo, 37 Paesi, tra cui Arabia Saudita, Nigeria, Egitto, Russia, Corea del Nord, Filippine, Pakistan, Iran, Siria e Palestina (tutti con posizioni politiche e forti interessi economici che li legano a Pechino) hanno replicato con una lettera a sostegno delle politiche attuate in Xinjiang.

Cittadini di etnia uigura in attesa di essere smistati nei centri di rieducazione

E’ interessante sottolineare inoltre che i Paesi che ad oggi dovrebbero avere un forte interesse nazionale per la situazione in corso in Xinjiang non hanno preso una posizione chiara sulla questione: la Turchia, per esempio, Paese da cui proviene in origine la minoranza uigura, ha alternato richieste di chiarimenti a forti spinte cooperative (soprattutto nel settore economico) con la Cina.

Kazakistan e Kirghizistan, che invece sono chiamati a rendere conto dei cittadini kazaki e kirghisi che risiedono nella regione, si sono astenuti da qualsiasi schieramento internazionale.

Questo atteggiamento ambiguo da parte dei Paesi più vicini alla questione dimostra i limiti d’azione della comunità internazionale, interessata innanzitutto a salvaguardare i propri interessi e i propri rapporti politici ed economici con la Cina.

L’Unione Europea ha esposto la questione del rispetto dei diritti umani nello Xinjiang per voce dell’Alto Rappresentante Federica Mogherini già nell’ottobre 2018.

Lo scorso Dicembre il Parlamento Europeo ha inoltre consegnato il premio Sakharov per la libertà di pensiero a Jewher Ilham, figlia dell’intellettuale uighuro Ilham Tohti, condannato all’ergastolo da un tribunale cinese su accuse di separatismo e ritenuto dal PCC come un terrorista.

Gli Stati Uniti hanno recentemente seguito l’esempio europeo, lo scorso 17 Giugno Donald Trump ha infatti firmatoUyghur Human Rights Policy Act”: una legge federale che impegna diversi organi istituzionali a monitorare e valutare l’andamento della situazione in Xinjiang con la concreta possibilità di implementare sanzioni economiche.

Come sottolineato da Giulia Sciorati del China Programme di ISPI:

“Gli schieramenti internazionali sul tema sono esemplificativi di una forte spaccatura nella comunità internazionale: una divisione che ricalca uno dei più antichi motivi di contenzioso delle relazioni internazionali, ovvero i limiti alla sovranità statale. Pechino infatti tradizionalmente sottolinea la sua posizione alternativa alle potenze occidentali, presentandosi come potenza legata a doppio filo al principio di non interferenza nelle sue relazioni con l’esterno e si aspetta un medesimo atteggiamento nei suoi confronti”

Le reazioni internazionali, prima sociali e poi politiche, sono quindi gradualmente arrivate, ma ad oggi ancora non sembrano essere coerenti con la gravità della situazione. Questo anche perché la manipolazione di massa in corso nello Xinjiang è tutt’altro che finita.

Secondo Xi Jinping infatti l’operato dello Stato nella regione si è dimostrato essere “totalmente corretto” e che “dovrà essere mantenuto in vigore per un lungo periodo“.

Xi infatti, durante una conferenza dedicata alla regione nord-occidentale, ha affermato che “valutando complessivamente, lo Xinjiang gode di una favorevole condizione di stabilità sociale, con gli abitanti che vivono in pace e appagamento [..] La realtà dei fatti dimostra abbondantemente che il nostro lavoro sulle minoranze è stato un successo“.