La prevista intervista…
[05/12/2020] Qualche tempo fa – più precisamente ad Aprile – abbiamo potuto parlare con Valerio Lundini. Era primavera, il sole splendeva, il caldo stava arrivando. Eravamo chiusi in casa, non c’era ancora stata la famosa seconda ondata e, ancora più incredibilmente, non era iniziato Una Pezza di Lundini. Se al tempo ci avessero detto che la televisione pubblica avrebbe lanciato un programma così innovativo e fuori dagli schemi non ci avremmo creduto; e dire che, già al tempo, agli “eventi a cui non potevamo credere” avremmo dovuto avere il callo. Il programma di Lundini è tutto quello che ci si può aspettare da un genio (parola che forse, per una volta, non è inappropriata) come il suo e alcuni aspetti del suo modo di intendere la televisione si trovano anche in questa intervista.
Un Marziano a Roma
Racchiudere l’universo Valerio Lundini in un’introduzione è impresa ardua. Da artista poliedrico quale è sfugge alle categorie fisse: fa l’autore, il comico, è tastierista dei suoi VazzaNikki -band che sembra uscita dalla scena rockabilly USA degli Anni ’50- ed è laureato in Lettere; ha scritto per Linus, collaborato con Lillo e Greg, con Nino Frassica e ha partecipato alla prima edizione dell’Altro Festival di Sanremo su RaiPlay. Tra le tante cose, Valerio Lundini fa molto ridere, e lo fa con umorismo obliquo a cui forse il nostro paese è poco abituato.
L’intervista a Lundini
La prima domanda, vista la situazione, è scontata: come stai?
Sto bene, grazie. L’unico aspetto negativo dell’isolamento è la noia che mi assale e a cui cerco di sopperire. Non mi posso lamentare, comunque.
Okay, allora passiamo alle cose serie: vorrei iniziare chiedendoti quali sono le tue influenze principali, a livello comico, fumettistico, o generalmente culturale.
Fin da bambino ho visto moltissima televisione, ho assimilato quel calderone di roba che mi arrivava dallo schermo. Come tutti, mi dirai: si parla di tv, mica botanica. Vero, però molte delle cose che ho visto mi hanno sicuramente influenzato, sia quelle che mi sono piaciute che quelle che ho odiato. Mi ha sempre interessato fare un po’ di tutto; forse, per riuscire a fare qualcosa bene, ho provato a fare tutto male. Nonostante ciò, non avevo mai pensato di trarre un lavoro dalla comicità. Facendo musica e fumetti però, ho spesso inserito una dose di nonsense che inevitabilmente diventava elemento comico.
In generale, mi piacciono i film di Mel Brooks, quelli del trio composto dai fratelli Zucker e Abrahams, le commedie demenziali Anni ’80. Apprezzo molto i fumetti di Benito Jacovitti, di Andrea Pazienza, tutti i lavori di Mad Magazine, rivista americana con caricaturisti eccezionali. Poi adoro i musical, ma non li posso fare: non so ballare, cantare o recitare, e non sono americano.
Puoi sempre scriverli.
Eh ma è difficile, non sono mica giri di Sol.
Non ho ancora avuto la fortuna di vederti live, cosa che spero di poter fare prima possibile, ma dalle cose che ti ho visto fare, in tv e sul web, ti ho associato ad alcuni grandi della comicità più surreale, o per meglio dire “meta”, come Steve Martin o Norm McDonald. Ti ci rivedi un po’?
Sono felicemente sorpreso perché pur conoscendoli molto poco so che non sono gli ultimi arrivati. E non è la prima volta che mi capita, proprio oggi un amico mi ha scritto associandomi ad un altro comico che non conoscevo assolutamente. Martin lo apprezzo come attore cinematografico, in particolare ne Il Mistero del Cadavere Scomparso.
Anche se non lo conosci, sei accomunato a Norm McDonald anche dalla passione per le barzellette surreali, di cui lui è un maestro. Quella della Falena che va dal podologo come è messa nella tua classifica?
Non la conosco! La recupero appena possibile.
Sappi che mi stai bruciando il 90% delle domande…
Erano tutte su Steve Martin e la barzelletta della falena?
Quasi, passiamo a quelle di riserva. So che è una domanda difficile, ma c’è un aspetto in particolare che ti affascina dell’elemento surreale, obliquo, della comicità?
In realtà la comicità è una conseguenza, per me. Sono interessato a ciò che è inaspettato, che sia la comparsa del mostro in un film horror o lo shock emozionale in un dramma. Mi piace la disattesa di premesse normali che sfocia nel nonsense. La ricerca della risata a tutti i costi, fine a sé stessa, non mi attrae. Non ho mai avuto l’esigenza di “far ridere”. Pure in questo momento non sono d’accordo con chi sostiene sia il momento di alleggerire e di distrarsi: forse a volte è più sano essere preoccupati. Riassumendo, mi piace osservare e parlare della realtà quando però prende pieghe assurde, creare scenari plausibili che diventano altro.
Se trovassi un’idea dove sfruttare la stessa qualità in un altro genere, che sia il dramma o altro, ti interesserebbe lavorarci?
Sì, assolutamente. Mi diverte anche, all’interno della comicità, il ribaltamento opposto a quello di cui ho parlato: una premessa evidentemente sopra le righe, il classico set up per una battuta, che però si risolve in modo incongruo, o non si risolve per nulla. Invece di una barzelletta che finisce con Pierino che ha fatto una cazzata, me ne interesserebbe una dove si è comportato in modo normalissimo.
Ci sono molti lavori riusciti che stanno sul confine tra il comico e il drammatico, come Black Mirror, che utilizza gli stessi meccanismi di una costruzione comica ma avanza a colpi d’angoscia e non a suon di risate. È una sorta di comicità al negativo.
Per tornare alla tua domanda: se avessi un’ispirazione mi piacerebbe, ma credo sia un proposito molto difficile da mettere in pratica. Mentre un’idea comica può essere sviluppata in uno spettacolo, in un video o in tv, un drama è meno digeribile per il pubblico distratto che in questo momento è in maggioranza.
E lavorare per un mezzo come il cinema ti affascinerebbe?
Sì, ma bisogna prima avere una storia che funzioni. Ho avuto la possibilità di proporre dei progetti, ma non l’ho fatto perché sentivo di non avere ancora l’idea giusta. In casi simili si rischia di diventare uno di quelli che hanno provato a fare il salto ma senza avere successo. Poi considera che non ho mai scritto nulla di “lungo”, né ho mai pensato di avere l’illuminazione per un film; le scintille che mi vengono sono più che altro a proposito di una possibile scena, o di un singolo momento.
Il tuo è un tipo di comicità che Italia è molto poco presente, tranne poche eccezioni come quella del grande Nino Frassica. C’è un motivo?
Secondo me anche nel nostro paese c’è stata molta sperimentazione sull’assurdo, basti pensare a Cochi e Renato, a Jannacci, ed altre persone che pur non avendo avuto la loro fama erano molto d’avanguardia da questo punto di vista, ad esempio Maurizio Milani. Personalmente a me piaceva tanto anche Gene Gnocchi, molti dei suoi libri sono geniali. È un mondo vivo, che esiste, ma c’è un problema: in Italia siamo pochi. Una comicità di questo tipo, che chiaramente è un po’ più difficile, arriva ad una percentuale minore di pubblico, percentuale che rappresenta un numero di persone molto inferiore a quello degli Stati Uniti. I comici inglesi e statunitensi sono ascoltati anche in Germania e in Cina, quelli Italiani ovviamente no. Se tu citi Steve Martin è perché ha avuto la possibilità di arrivare a te e ad un pubblico non nazionale bensì mondiale.
Oltre a ciò, penso che il nostro paese tenda ad assimilare versioni semplificate di ciò che arriva dall’estero. Un po’ per il lavoro di adattamento, un po’ per il tipo di presentazione, tendiamo a confondere l’irriverenza di alcune proposte comiche con lo stereotipo del comedian “figlio di puttana” che dice quello che pensa in modo gratuitamente scorretto, nonostante sia uno dei loro aspetti meno interessanti.
In ogni caso credo che pure in paesi come gli Stati Uniti la comicità un po’ più facile –che non vuol dire necessariamente peggiore- e generalista vada per la maggiore. Certo, ci sono casi straordinari quali I Simpson, che riescono a fondere un carattere nazionalpopolare ad una scrittura elegante, ma sono eccezioni.
Però le eccezioni sono molte. Non so se sia una questione culturale o, come hai giustamente fatto notare, numerica, ma mi pare che le preferenze all’estero siano diverse. Tra SNL, il Chappelle’s Show…
Vero, non saprei. Bisogna anche considerare che, avendo a disposizione molti più soldi, hanno una miriade di autori che lavorano a show simili. D’altro canto però Dave Chappelle o Louis CK sono i primi autori di sé stessi, quindi è una questione complessa. CK peraltro ha scritto e diretto una serie incredibile, Louie, una delle mie visioni preferite degli ultimi anni.
Horace and Pete ti è piaciuta?
Molto. Lì si sente tutta la voglia di lavorare a cose belle indipendentemente dal guadagno che se ne trae. Quelli veramente bravi come CK una volta avuto un successo utilizzano soldi e credibilità per sviluppare progetti che sono interessanti per loro. Ma in Italia come si fa? Anche dopo aver guadagnano una data somma da un programma, come potrei investirla nella produzione di una mia serie quando mi potrebbero servire per pagare una bolletta? E, come ti ho detto, bisogna considerare la ristrettezza del nostro mercato, che non ha sbocchi internazionali: dubito che un giapponese vedrebbe mai la versione italiana di Horace and Pete, o che un cileno pagherebbe per il nostro Curb Your Enthusiasm, con Nino Frassica al posto di Larry David.
A proposito di televisione: ci troviamo in una situazione d’emergenza a dir poco particolare. L’offerta di intrattenimento sul web però, tra Tutti a Casa di Lancia-De Carlo e il Covid Late Night di Saverio Raimondo, è molto ricca. Credi che queste esperienze possano essere una sorta di prove generali per un palinsesto tv del prossimo futuro?
Mi auguro di sì. Non sono uno di quelli che sostiene il “largo ai giovani” a tutti i costi – ci sono molti giovani che fanno cagare-, credo però sia giusto dare spazio alle persone capaci e di talento, persone come quelle che fanno i due programmi che hai citato. Tutti a Casa poi sarebbe un format radiofonico eccezionale, di un tipo d’intrattenimento che si sta perdendo.
Riguardo ai cambiamenti portati dal virus: una volta tornati alla normalità, adatterai qualcosa del tuo spettacolo vista l’esperienza vissuta?
Prima dell’isolamento avrei dovuto portare in alcuni teatri un po’ più grandi il mio spettacolo vecchio, per dare il modo di recuperarlo a coloro che non lo avessero visto. Dopo di ciò, avrei preparato quello nuovo. Attualmente, considerando che non si sa quando si potrà riprendere a fare live, sono combattuto tra l’idea di iniziare subito a scrivere il prossimo show e quella originaria, soltanto traslata di qualche mese.
Spero comunque di riuscire a non parlare del covid. Cerco di non trattare di attualità e, anche in questo caso, non vorrei ritrovarmi ad essere l’ennesima persona a cercare umorismo in questa situazione. Al contempo però il coronavirus non è più la semplice notizia del giorno, è un fattore che ha cambiato radicalmente la nostra esistenza. È ovviamente più vicino alla portata dell’11 settembre che al litigio tra Bugo e Morgan.
Quindi si potrà fare uno spettacolo senza parlarne?
Certo che si potrà. Se oggi guardassi Pulp Fiction me lo godrei nonostante l’assenza di riferimenti al coronavirus.
Il problema di cui parli però lo sto vivendo nel completare la scrittura di una raccolta di racconti. Alcune delle situazioni narrate, come una sequenza dove un personaggio si siede vicino ad una signora su un bus, avranno ancora senso lette nel mondo post-epidemia? Non so, comunque non mi pare il caso di inserire una nota a pie di pagina che reciti: “Attenzione! La situazione descritta è precedente all’arrivo virus”.
Recentemente ti ho sentito parlare di Apropos of Nothing, l’autobiografia di Woody Allen. Visto che anche tu stai lavorando a dei racconti, cosa ne pensi dei suoi?
Sono bellissimi. Tutte e tre le raccolte, Effetti Collaterali, Rivincite, e Pura Anarchia, sono stupende. Credo sia stato una delle fonti d’ispirazione maggiori per la mia scrittura.
Il video più bello a sostegno delle norme di isolamento, a mio parere, è quello di Mel Brooks col figlio. Dato che ne abbiamo parlato e che sei un suo fan, ti chiedo i tuoi film preferiti di Brooks.
È difficile decidere. Direi Balle Spaziali, poi Robin Hood – Un uomo in calzamaglia, ma più per un legame affettivo che per l’effettiva qualità del film. Poi Alta Tensione ed infine La Pazza Storia del Mondo.
Su Frankenstein Junior ti dico una cosa da snob antipatico: è molto bella versione musical che è andata in scena a Broadway e a Londra.
E invece di The Producers preferisci il film o il musical?
Senza dubbio il secondo. Anche il film è un capolavoro, ma il musical è meta-teatrale in modo intelligente, ha canzoni bellissime e attori incredibili. Funziona tutto a perfezione.
In chiusura: Woody Allen racconta di come, essendo autore, regista, attore e musicista, sia sempre stato in imbarazzo nel compilare moduli che necessitassero risposta alla voce “Professione”. Quando Valerio Lundini compila un modulo simile cosa scrive?
Io metto autore e attore, ma solo perché è riportato sulla mia Partita IVA.