Laureato in Storia e critica del cinema, studia Informazione ed Editoria presso l'Università di Genova. Appassionato di tutto ciò che riguarda l'audiovisivo e la parola scritta.

Deconstructing Saverio

Siamo nella seconda metà degli Anni Novanta. Un ragazzo di Roma è chiuso in camera sua, tra le mani ha un libricino, piccolo e un po’ sgualcito; l’autore, conosciuto in Italia perlopiù per i suoi film, è scoperto dal giovane attraverso le pagine che sfoglia. I racconti umoristici di tale “Woody Allen” lo divertono ma, ancor più significativamente, lo segnano per sempre. Capoversi, paragrafi e pagine si susseguono; poi, all’improvviso, un’esplosione interna paragonabile al Big Bang: Saverio Raimondo capisce di voler fare il comico.

Da quel momento di strada ne ha fatta, ma, secondo lui, tutti i successi che ha incasellato sono solo punti di partenza, basi su cui lavorare con entusiasmo e passione.  A dispetto della sua modestia, però, i traguardi sono stati molti: i più recenti, ad esempio, sono la pubblicazione su Netflix del suo special Il Satiro Parlantee l’imminente quinta stagione di CCN – Comedy Central News, in onda tutti i venerdì alle 23.00 dal 24 maggio, solo su Comedy Central (canale 128 di Sky).

Tra un impegno e l’altro, Saverio è stato così gentile da concederci un’intervista.

L’intervista

È impossibile non iniziare dal rilascio del tuo special Il Satiro Parlante, per cui prima di tutto ti faccio i complimenti: un’ora di standup comedy di altissimo livello. Vorrei sapere cosa significhi per te l’approdo su Netflix e poi se credi che, insieme a quello di De Carlo e Ferrario, esso sia una svolta fondamentale non solo per voi tre ma per tutta la scena italiana.

Per quanto mi riguarda è stato una grande riconoscimento riuscire ad essere distribuito su Netflix. D’altra parte non ti nego che, data la mia nota natura ansiosa, la soddisfazione è stata solo parziale, mentre maggiore è l’inquietudine scaturitane: una volta saputo che il mio spettacolo sarebbe stato distribuito sulla piattaforma mi sono chiesto: “ok, ed adesso che si fa?”. L’ansia, una volta raggiunto un traguardo, ti porta a guardare immediatamente oltre. E un po’, forse, è dovuto anche alla mia incapacità di godermi le cose. Certo, contemporaneamente è un ulteriore stimolo ad andare avanti, a cercare ulteriori strade nuove. “Il Satiro Parlante” è un altro punto di partenza più che d’arrivo.

Una clip da Il Satiro Parlante

Per la standup comedy italiana penso sia stato importante. Questo perché, fino ad oggi, la scena aveva trovato casa ed investimenti solo su Comedy Central Italia, primo canale televisivo a dedicarle spazio. Che oggi gli si affianchi un secondo editore quale Netflix, che distribuisce gli special in 190 paesi nel mondo, è un grande successo. Ancor più se consideriamo che la standup comincia ad essere praticata con coscienza nel nostro paese da soli dieci anni; in così poco tempo non siamo arrivati in pari alla scena internazionale (io stesso mi sento un impostore rispetto ai colleghi americani), ma ci stiamo avvicinando. Noi siamo solo i primi e questo è solo l’inizio.

Parlando di editori e canali possibili, pensi che Youtube, con il suo variegato insieme di giovani, possa essere un’alternativa valida?

Sicuramente Youtube è una realtà molto interessante per farsi conoscere, confrontarsi con il pubblico e far circolare un po’ del proprio materiale. È una buona vetrina, ma non credo che possa essere qualcosa di più o che riesca diventarlo nel prossimo futuro.  L’assenza di un editore, se da una parte sembra essere garanzia di massima libertà, dall’altra vuol dire mancanza di soldi: semplicemente nessuno paga per quello che fai. È un problema non per chi fa il comico per passione o hobby, ma per coloro che vorrebbero confrontarsi con un mercato e farne una professione. Caricare contenuti gratuitamente è, il più delle volte, un investimento a perdere. Io lavoro su Comedy Central, sulla tv pubblica e sono su Netflix anche perché pago un affitto e mi compro cose da mangiare. Inoltre, per quanto riguarda la standup comedy, non è Youtube il terreno nel quale crescere e maturare, quanto la performance live.

Ti è capitato di vedere il “Late Show” di Yotobi?

Certo, conosco Yotobi sin dai suoi inizi. Lo trovo interessante nel modo in cui riesce ad essere diverso dall’idea più canonica e più comica di Late Night. È perfetto per la piattaforma in cui si muove ed è innegabile che stia crescendo e cercando strade interessanti. Lui è, per me, un esempio perfetto della miopia di Youtube nel non investirsi in quanto editore. So che in alcuni paesi ci stanno provando, promuovendo una nuova versione del canale a pagamento, ma non so se funzionerà; sappiamo quanto sia difficile per una realtà gratuita iniziare a chiedere un compenso. Tornando a Yotobi: da esterno, per i motivi di cui parlavamo prima, vedo dei limiti strutturali ed editoriali, insiti alla piattaforma ed indipendenti dalle qualità del ragazzo, che mi fanno interrogare sull’ampiezza di respiro e sulla solidità futura dello show.

Si ci interroga molto ultimamente su cosa sia davvero la standup comedy e quanto sia distante dalla tradizione italiana del monologo. Pensi ci siano diversità sostanziali o la differenza è tutta nella qualità del comico?

La qualità non dipende dal fatto che tu sia monologhista o standup comedian. Esistono eccellenti cabarettisti, così come bravissimi imitatori e pessimi comedian; quest’ultimo termine non è sinonimo di qualità. Walter Chiari, ad esempio, era uno straordinario monologhista.

La standup comedy sicuramente non è un genere preciso, è un macro-mondo vasto e sfumato, che raccoglie cose tra loro distanti. All’interno di essa ci sono sia Jerry Seinfeld che Doug Stanhope, due persone con contenuti e linguaggio opposti, che arrivano a pubblici diversi. Seppur in zone confinanti con altri territori della comicità, all’interno della standup ci sono Emo Philips, Bo Burnham…

O Adam Sandler.

Assolutamente, ma pure Jim Carrey, anche se nel suo caso la definizione sarebbe un po’ limitativa. Non è un genere netto, con regole precise e bordi ben segnati, bensì una tradizione comica molto sfumata. È un blob, un poligono irregolare.

La differenza con il monologhista tradizionale, a cui siamo più abituati in Italia, è in primis la conoscenza stessa della standup comedy. Quelli che pensano di averla sempre fatta senza saperlo sbagliano: inevitabilmente ognuno di noi si muove all’interno di un contesto, con dei riferimenti saldi in testa. Prima di dieci anni fa, questi riferimenti non sarebbero potuti essere i comici americani, per il semplice motivo che non c’era internet. Non sapevamo nulla di quella scena vastissima, avevamo una vaga idea di chi fosse Lenny Bruce a causa del film Lenny di Bob Fosse e ammiravamo Woody Allen senza sapere del suo passato da comedian. Il nostro immaginario era rappresentato da Dario Fo, Beppe Grillo, Roberto Benigni o, negli anni della massiccia comicità televisiva, i programmi di Serena Dandini, Drive-In, fino a Zelig e i suoi derivati. Nessuno può aver fatto standup comedy prima di averne conosciuto il modello americano, è naturale.

Un’ulteriore diversità sta nell’attingere continuamente alla propria persona, fisicamente, intellettualmente, psicologicamente ed emotivamente; cosa che i nostri monologhisti, neanche quelli di spessore, hanno mai fatto. Di Beppe Grillo, ad esempio, sappiamo molto poco, non ci ha mai veramente parlato di sé ed ha invece sempre giudicato gli altri. Lo stesso possiamo dire di Benigni o di Daniele Luttazzi. La tradizione dell’“auto-sputtanamento” del comico, un pochino individualista e narcisista, non appartiene per nulla alla nostra cultura ma arriva nel nostro paese grazie ad internet ed alla globalizzazione.

All’interno dello special della HBO Talking Funny, Ricky Gervais racconta di come, agli inizi della sua carriera di comedian, si vergognasse di fare battute sugli animali perché “troppo facili”.  Secondo lui, quindi, esistono risate di diversa qualità ed altezza. Sei d’accordo?

Sì, abbastanza. È innegabile che esistano risate più facili di altre, ma è altresì vero che la stessa risata possa essere facile in un contesto e non esserlo in un altro. È una variabile, non una certezza. Lo si vede ad esempio con le battute politiche: in alcune situazioni funzionano, in altre si possono prendere fischi. Siamo d’accordo nel dire che la risata facile costituisce, in quanto tale, una sfida minore per il comico, special modo se quest’ultimo avesse interesse a costruire la propria forza sull’originalità e sul rifiuto di mezzi ai quali posso arrivare tutti.

Ricky Gervais

Vero è che non bisogna negare alla risata facile una sua funzionalità, specie se all’interno della complessità di un monologo comico. Trovo sempre affascinante l’alternanza tra alto e basso, tra facile e difficile, accessibile e tortuoso. Passare da un sapore all’altro rende tutto più interessante. La scelta di riappropriarsi della risata bassa penso debba essere una sfida pure per comedian di altissimo calibro quali Gervais. Questo perché, altrimenti, adagiarsi su un certo standard, seppur alto, diventerebbe a sua volta una via semplice al raggiungimento del fine. All’interno di un monologo alto, l’abbassamento di tono potrebbe fungere da spiazzamento. Da onnivoro del genere penso che la comicità sia tutta degna di essere usata, tutto sta nei dosaggi e nel saperli miscelare.

Qualche tempo fa hai detto che “la satira è solo satira, alla fine non ha mai cambiato un cazzo”. Al contrario invece Dario Fo, citato poco fa, sosteneva che essa avesse la forza di cambiare la storia. Ma davvero secondo te la satira non ha potere politico?

Decisamente no, o meglio: lo ha come può averlo qualunque cosa. Persino un cartone del latte può essere un fattore politico. Essendo tutto influenzato e influenzabile, la satira ha un’interferenza all’interno del discorso pubblico nella misura in cui la hanno tutte le componenti della società. 

Dario Fo lo affermava perché ci credeva, o forse perché il suo personaggio pubblico gli imponeva di farlo. Consideriamo pure che, come dimostra il fatto che sia finito ad essere un sostenitore del Movimento Cinque Stelle, ha avuto una sua lunga fase di rincoglionimento. Diciamolo pure in maniera serena: la satira non ha mai cambiato nulla, poi certo: tutto ha condizionato tutto e niente ha influito su niente, la storia umana è comandata più dal caso e dal caos che da scelte più o meno legittime.

Arriveranno i fan di Dario Fo a chiedere la tua testa…

Prego, prego!

A proposito di Daniele Luttazzi: Carlo Freccero, che credo fosse un tuo professore al DAMS…

Sì! Mi ha anche interrogato, ho preso 30 e lode.

…Ecco, Freccero sembra essersi convinto di riportare il comico in RAI. Cosa ne penseresti di un suo ritorno, che rapporto hai con la sua figura?

Sono sempre contento quando le persone lavorano. Ben venga per lui se era questo ciò che voleva. Consideriamo pure che la RAI è un contesto particolare, non sai mai se augurare alle persone di collaborarci o meno. Devo dire però che come scelta editoriale non mi pare poi così distante da Techetechetè.

Luttazzi è sicuramente un primato culturale. È stato il primo in Italia a portare un certo tipo di linguaggio comico, è innegabile. Quando abbiamo iniziato a fare standup comedy dieci anni fa, il pubblico che ci vedeva era il pubblico di Luttazzi, aveva dimestichezza con certi contenuti forti e controversi grazie a lui. Sul resto, personalmente, il mio giudizio rimane “non classificato”. Le note vicende, per quanto mi riguarda, sono tali. Ci sono evidenze che mi impediscono di dare un giudizio artistico. Poi certo, ai posteri l’ardua sentenza.

Vorrei approfittare del fatto che sei un’autorità in materia di Late Night. Poco più di quattro anni fa, Letterman ha dato il suo addio (temporaneo) alla televisione. Pensi che il suo sostituto, Stephen Colbert, stia facendo un buon lavoro?

Sì, sono un grandissimo fan di entrambi. Mi è dispiaciuto per l’addio di Letterman tanto quanto ho esultato per la promozione di Colbert. Quest’ultimo sta facendo un Late Night molto interessante, completamente diverso dal precedente, come è giusto che sia. Sono due comici molto distanti che hanno sviluppato due stili diversi. Quello di Letterman resta legato al mondo a cavallo tra gli Anni Ottanta e Novanta, mentre Colbert ha portato a compimento il percorso iniziato su Comedy Central USA all’interno di una tv generalista quale è la CBS. Intercetta perfettamente lo spirito degli Stati Uniti di Donald Trump, è più satirico e meno silly. È al passo coi tempi e lo dimostrano gli ascolti: da anni batte regolarmente Jimmy Fallon, che solo in Italia è visto come la figura di massimo successo nell’ambito dei Late Night, nonostante oramai da tempo escano persino articoli sul NY Times riguardanti la sua crisi di pubblico. Sarà dovuto al nostro provincialismo.

Tornando al Late Show di Colbert, credo sia un programma eccellente, così come lo era quello di Letterman, il cui ritiro, quattro anni fa, è stato bellissimo. La fine di ogni storia o percorso ha una bellezza intrinseca. Adoro poi il suo nuovo non-programma, come lui stesso lo ha definito, My Next Guest Needs No Introduction. Mi pare un prodotto molto bello, post-mortem.

Quindi secondo te funziona? Io ho qualche riserva.

A me piace. Sembra un po’ un’intervista di Maurizio Costanzo, solo che al posto suo c’è Letterman- decisamente più divertente. Poi chiaramente gli ospiti, come da titolo, non hanno bisogno di presentazioni. Inoltre mischiare il momento talk ad una parte documentaristica funziona. Mi sembra un ottimo esperimento, un cantiere a cielo aperto. Nel farlo in un momento come quello odierno, dove chi fa il nostro mestiere è esposto (ed è invitato ad esporsi) sempre di più, Letterman trova la sua forza proprio nel rinunciare all’etichetta di show, di programma vero e proprio. Mi ha molto colpito, è stato un insegnamento.

Il mio nuovo CCN, ad esempio, in onda da venerdì 24 maggio, è a sua volta una sperimentazione. Ho smontato il vecchio format, per la terza volta, e l’ho ricostruito senza la certezza che funzionasse, guidato dalla voglia di innovarlo e di innovarmi. Credo di essere uscito dalla confort-zone e con successo: le prime proiezioni hanno avuto un risultato eccezionale, oltre le aspettative.

Volevo parlare proprio della nuova stagione di CCN, in onda dal 24 su Comedy Central (canale 128 di Sky): ci saranno molte novità?

Ce ne sono diverse, sì. Prima di tutto il segmento con l’ospite, che già era presente, è stato completamente stravolto. Non sarà più in studio ma in esterno, con un’intervista all’interno della CCN Mobile seguita da esperienze diverse a seconda della persona. È un’evoluzione molto interessante, che spero di poter esplorare ulteriormente in futuro. Ogni puntata, inoltre, sarà anticipata da una versione animata del sottoscritto, che farà battute sull’attualità. È la prima volta che CCN si confronta con le notizie del giorno e per giunta si farà attraverso un linguaggio diverso, il cartoon. Poi l’ultimo episodio di questa stagione sarà distopico, ambientato nel 2030. Infine abbiamo allargato le interviste impossibili, che stavolta saranno presenti in tutte le puntate. In generale è meno uno show e più magazine satirico. Ha un ritmo interno simile allo zapping, più drastico e veloce, necessario alla contemporaneità televisiva. Bisogna prendere un po’ a schiaffi i telespettatori, ma solo per tenerli svegli e divertiti.

Saverio formato Cartoon

Nonostante tu abbia solo 35 anni hai fatto l’autore televisivo, giri l’Italia con gli spettacoli live, hai condotto la più bella edizione del dopofestival, hai scritto un libro, hai ideato e conduci CCN e ora sei pure su Netflix. Vista la versatilità pazzesca con cui riesci ad esprimerti ti piacerebbe fare cinema?

È una cosa a cui non avevo mai pensato, lo dico sinceramente. Visto che gli ultimi anni sono stati quelli della crisi dell’industria cinematografica, non pensavo che il film potesse essere un’ipotesi concreta; e te lo dico da cinefilo incallito laureato al DAMS in Analisi del Film, ho una grande passione per il mezzo: chiedimi un’analisi di una qualsiasi sequenza di Hitchcock e la svolgo nel dettaglio!

Ultimamente stanno iniziando a chiedermi se potrei e vorrei fare il salto. Le richieste sono cresciute così tanto che sto cominciando a pensarci seriamente. Anche perché questa crisi di cui parlavo forse altro non è che una trasformazione…

Come tutte le crisi.

Esattamente, alla fine il cinema uscirà dalle sale per arrivare a casa, sui computer ed in streaming. Chissà, mai dire mai. Ad oggi il mio pensiero non è ancora concreto, potrebbe diventare una realtà a breve così come mai.

Nel caso, ti piacerebbe arrivare a gestire il mezzo in quanto autore e regista o solo davanti alla cinepresa?

Mi piacerebbe averne un’autorialità il più completa possibile.

Parlando di cinema non posso fare a meno di approfittare del fatto che, ancora più di me, sei un grandissimo conoscitore e ammiratore di Woody Allen. Pochi giorni fa è stato annunciato che il suo ultimo lavoro, A Rainy Day in New York uscirà in Italia ad ottobre. Come hai preso la notizia?

Mi è cambiata la giornata, ho iniziato a ballare sui tavoli di casa. Avevo una forma di simil-depressione da un anno e mezzo a questa parte, un periodo orribile.

E cosa ne pensi sul trattamento riservatogli per via della questione #MeToo? So che ne hai già accennato su CCN.

È stato un utilizzo pretestuoso e in cattiva fede per mano della famiglia Farrow. La vicenda inoltre getta delle ombre sul grande lavoro di inchiesta svolto da Ronan Farrow (figlio di Mia Farrow e Woody Allen, ha svolto indagini sulla vicenda H. Weinstein – ndr). Viene il dubbio che abbia intrapreso una giusta battaglia soltanto per colpire il padre, innocente secondo un processo e due perizie mediche. Tutta la questione è un scandaloso attacco allo Stato di diritto, di una gravità assoluta. Il fatto che A Rainy Day in New York non esca negli USA dimostra tutta la debolezza ed ipocrisia di un sistema che gestisce il potere in modo coercitivo. Come dicevo, spiace perché è un utilizzo particolarmente cinico della causa del #MeToo, che non è solo buona, è legittima, giustissima e importante.

Riassumendo: per il rilascio in Italia, ancor prima che come fan, sono felice in quanto cittadino.

Ti faccio la classica domanda da appassionato: se dovessi salvare un suo film o pezzo di narrativa da un’eventuale apocalisse quale sceglieresti?

Eh questa è la domanda più difficile che mi hai fatto. Credo che mi getterei nelle fiamme pur di non scegliere. Tra i film la scelta sarebbe tra Io e Annie e Manhattan, anche se la mia sensibilità e la mia emotività sono più vicine al secondo. Però certo, tu citi i racconti e per me sono un pantheon indiscutibile. Non so come farei, credo abbraccerei tutta la sua opera ed insieme ad essa mi butterei nel fuoco.

Nel suo caso il rapporto tra persona e personaggio, o meglio quella che gli americani chiamano comic-persona, è interessante: nonostante più volte abbia detto di non essere il nevrotico che portava al cinema e sul palco, per la gente le due cose sono indistinguibili. Ecco, nel tuo caso ci sono differenze sostanziali tra la versione di te che sale sul palco e quella quotidiana?

Sì, Allen dice che il suo alter-ego è una versione esagerata di sé stesso. Il punto centrale è proprio quello: esiste un io che lega la persona al personaggio, che ha una sua autenticità. Ovviamente c’è un lavoro comico, l’esagerazione è uno dei principi base del nostro mestiere; vedasi Fantozzi, emblema dell’esagerazione grottesca.

La gente identifica Allen nella sua comic-persona proprio perché egli ha fatto un lavoro eccezionale nel trarre un personaggio dalle proprie caratteristiche individuali. Non è una maschera dietro la quale nascondersi, bensì un’amplificazione di sé stessi. Non sarà propriamente “vero” ma è sicuramente autentico, così come cerco di essere io sul palco. Mentre mi esibisco si assiste ad una versione esagerata di me: ciò che dico è intimamente autentico anche quando non è fattualmente vero. Non supererei il fact-checking, ma me la caverei con la macchina della verità, insomma.

Ciò ci riporta ad una delle tue prime domande: lo standup comedian, molto più degli altri comici, non cerca una maschera ma un vestito, un modo di presentare sé stesso in società. Molto spesso invece il monologhista si appiattisce, si nasconde dietro uno stereotipo od una macchietta.

Hai una conoscenza pazzesca della comicità, credo che tu stesso ti sia definito un “nerd” della materia. Judd Apatow si definisce nello stesso modo nel suo bel libro “Sick in the Head”, dove racconta di come, da piccolo, trascrivesse integralmente su carta le puntate del SNL, i live di Pryor e Steve Martin e il Flying Circus dei Monty Python. Il giovanissimo Raimondo aveva qualche abitudine da nerd della comicità?

La mia nerditudine si è sempre espressa nell’essere spettatore di molta comicità, attraverso film, libri, programmi e spettacoli live. Dico sempre che il miglior modo per imparare è assorbire, per essere grandi comici bisogna essere grandi spettatori. Nel mio caso inoltre cerco di non studiare quello che ho davanti, provo a non avere uno sguardo analitico. Voglio cercare di fare mio ciò che vedo e leggo nel modo meno intellettuale possibile. Così facendo l’elaborazione è più esperienziale e meno didattica.

L’altra abitudine che ho sempre avuto è quella della coltivazione della scrittura. A differenza di Apatow non trascrivevo, ma, dopo aver letto i racconti di Allen, li imitavo nello stile e nell’umorismo cercando di produrne dei miei. Trovando poi una mia voce, col tempo. Anche questo mi pare un esercizio importante per un comedy nerd che voglia farne a sua volta un lavoro.

Per chiudere, vorrei farti una proposta politica, in vista delle europee: hai mai pensato di approfittare della tua somiglianza con Luigi Di Maio per spacciarti per lui davanti ai giornalisti presenti a Palazzo Chigi dichiarando lo scioglimento del M5S e la nascita del partito degli ansiosi-pessimisti di cui parli in “Stiamo Calmi”?

Purtroppo queste cose bellissime succedono solo nei film, per la precisione solo ne Il Grande Dittatore. Temo che non funzionerebbe, sia perché la mia voce è distinguibile da quella di Di Maio, sia perché coniugo correttamente i congiuntivi.

La voce non è un problema, vedi Larry David quando si cala nei panni di Bernie Sanders: la sua imitazione è pessima, ma i due sono identici.

Hai ragione, è vero. Sarebbe bello se una parte rinsavita del Movimento rapisse Di Maio e lo sostituisse con il sottoscritto. In un giorno li metterei talmente in crisi da risolvere definitivamente il problema. Però non ci credo molto: la realtà è sempre più deludente dei film, come insegna Woody Allen.