Studente romano di scienze politiche, appassionato di economia, serie TV, politica, soprattutto statunitense, e scrittura. La fusione delle ultime due ha portato alla collaborazione con il Prosperous Network.

Tra circa diciotto mesi, gli Stati Uniti torneranno al voto per eleggere i grandi elettori che procederanno alla nomina del nuovo Presidente. Come era lecito attendersi, in questo periodo i vari contendenti hanno iniziato ad annunciare la propria candidatura e ad organizzare la campagna elettorale. Per quanto riguarda il Partito Repubblicano, la situazione sembra essere abbastanza delineata, con Donald Trump che troverà una concorrenza quasi nulla nella sfida per essere il frontrunner del GOP alle elezioni. Per ora, infatti, il solo Bill Weld si è proposto come sfidante del tycoon newyorkese, e le speranze che l’ex Attorney General di Ronald Reagan, nonché Governatore del Massachussets dal 1991 al 1997, riesca ad essere anche solo una minaccia credibile sono alquanto basse. Ciò, del resto, è abbastanza comprensibile: data la presenza di una figura così forte e polarizzante, tutti i repubblicani di primo piano preferiscono concentrarsi sul 2024.

Il fronte democratico, invece, è molto più frastagliato: con la discesa in campo del sindaco di New York Bill De Blasio, infatti, sono diventati 23 i candidati che si sfideranno nel lungo percorso delle primarie. Va sottolineato, in ogni caso, come molti di loro (tra cui lo stesso De Blasio) siano destinati ad ottenere un consenso molto limitato. Fino a qualche settimana fa, le figure di spicco erano sostanzialmente cinque: Joe Biden, Bernie Sanders, Elizabeth Warren, Beto O’Rourke e Kamala Harris. Sin dalle prime rilevazioni dei sondaggi, però, si è notato come Biden e Sanders godessero di un consenso molto più alto. Secondo vari analisti, ciò può essere dovuto all’affinità ideologica tra Biden e O’Rourke (ala moderata) e tra Sanders e Warren (ala più progressista). Di fronte a queste somiglianze, gli elettori propenderebbero per la figura più carismatica (l’ex vicepresidente) o ideologicamente più definita, ossia lo storico senatore del Vermont, ricordando anche che, all’interno della base progressista, c’è chi non ha perdonato alla Warren il suo appoggio alla candidatura di Hillary Clinton alle primarie del 2016. Kamala Harris, invece, sta faticando a trovare un suo spazio ben definito.

Secondo i due sondaggi più recenti (il primo ad opera della Quinnipiac University, il secondo a cura di Morning Consult), il frontrunner sarebbe Biden, con un consenso superiore al 35% (rispettivamente, 35% e 39% nei due sondaggi qui esaminati), con Sanders staccato di circa 20 punti percentuali. Dopo il senatore del Vermont, c’è un gruppo di 5 candidati molto ravvicinati (anche se tutti abbastanza sotto il 10%), ossia Warren, Harris, O’Rourke, Booker e Pete Buttigieg. Sebbene anche quest’ultimo sembra avere poche chance di competere con Biden e Sanders,  è senza dubbio notevole trovarlo assieme ad avversari molto più quotati. Sindaco di South Bend, Indiana, se eletto Buttigieg sarebbe il Presidente più giovane, il primo dichiaratamente omosessuale e quello con la maggiore esperienza militare dai tempi di George H.W. Bush, Presidente dal 1988 al 1992. Molti osservatori stanno seguendo con attenzione la sua campagna elettorale, e il motivo è presto detto: l’Indiana è notoriamente una roccaforte repubblicana (non a caso, è lo Stato di provenienza del Vice Presidente Mike Pence), ma Buttigieg è riuscito a costruirsi un consenso solido, durante i suoi sette anni come sindaco. Per di più, la comunità da lui amministrata fa parte delle città, soprattutto del Midwest, messe in grande difficoltà dalla crisi del 2007 e dalla globalizzazione; negli ultimi anni, però, c’è stato un deciso cambio di tendenza, simboleggiato dall’aumento del 6% del PIL della città registrato nel 2017. Questo tema è molto importante e si ricollega all’obiettivo di riconquistare il sostegno del Midwest, che ha mostrato negli anni una tendenza sempre maggiore verso il Partito Repubblicano. Con l’esempio della sua amministrazione, può mostrare come la soluzione non consista nelle promesse sul tornare indietro nel tempo (e riaprire le miniere di carbone), ma nella riqualificazione e nella formazione di nuove competenze. Nell’elaborazione della sua strategia, Buttigieg deve quindi considerare due distinti fattori: da un lato, sta cercando di capitalizzare la sua popolarità in Indiana per proporsi come il candidato che riunirà i democratici alla rust belt; dall’altro, però, egli deve cercare di ampliare la sua base elettorale, avvicinandosi ad altre frange della popolazione americana. Questo dualismo è ben riscontrabile nelle sue dichiarazioni: Buttigieg, infatti, ha affermato diverse volte che i democratici non devono avere paura di essere un partito a tutela della libertà, in modo da evitare che i più conservatori egemonizzino il concetto e, allo stesso tempo, ha abbracciato una posizione più critica di quanto si potesse pensare nei confronti di Israele (inizialmente, era considerato il candidato più a favore dello Stato ebraico, assieme a Joe Biden), sostenendo che il dovere degli Stati Uniti sia quello di far capire all’alleato che sta sbagliando e deve cambiare strategia (pur riaffermando come i leader palestinesi non siano partner credibili per cercare di raggiungere la pacificazione dell’area).

Pete Buttigieg

Ora che è diventato noto a livello nazionale, Buttigieg deve però fare i conti con i fisiologici attacchi da parte dei Repubblicani e degli altri democratici e su una maggiore attenzione alle sue idee e al suo passato, come avvenuto con O’Rourke. L’ex Rappresentante Texano, infatti, è stato supportato largamente nella sua sfida (persa) contro Ted Cruz ma, una volta entrato seriamente nella corsa presidenziale, la situazione è cambiata e sono emersi un voting score simile a quello di diversi Repubblicani e una donazione da parte di un dirigente di Chevron (O’Rourke ha annunciato che la rimanderà indietro, ma questa vicenda non lo ha certo aiutato). Inoltre, O’Rourke ha recentemente ammesso che gli sforzi compiuti fino a questo momento non sono stati sufficienti, e che è richiesto molto più impegno, anche da parte sua. In particolare, il candidato ha ammesso che la sua organizzazione a supporto della campagna elettorale non era sufficientemente professionalizzata. Vanno interpretate secondo quest’ottica, dunque, sia la fine del rapporto professionale con Becky Bond, una delle sue collaboratrici più fidate, e l’ingaggio di Jeff Berman, una figura fondamentale nella prima campagna presidenziale di Barack Obama. In ogni caso, fino ad ora sembra che Beto O’Rourke abbia perso buona parte della popolarità della quale godeva ai tempi della sfida elettorale contro Cruz, e difficilmente riuscirà a proporsi come un serio contendente alla nomination dem.

O’Rourke durante un dibattito con Ted Cruz

Come accennato in precedenza, Joe Biden sembra essere l’uomo da battere, fino a questo momento, sebbene non siano mancati elementi critici e potenzialmente in grado di causargli delle difficoltà. Non vanno dimenticate, a tal proposito, anche le accuse di comportamenti inappropriati rivolte verso Biden; esse, peraltro, hanno anche portato di nuovo alla ribalta come, durante la procedura di nomina alla Corte Costituzionale di Clarence Thomas, Biden – allora Presidente della Commissione Giustizia del Senato – sottovalutò le accuse di stupro rivolte al giudice da parte di Anita Hill. Come riportato dal New York Times, Biden ha recentemente telefonato alla Hill per scusarsi, ma lei avrebbe detto che, per perdonare, ha bisogno di vedere un effettivo cambiamento del suo comportamento.  Biden, inoltre, è visto da alcuni come troppo anziano (un problema comune anche ad altri candidati) e troppo legato alla vecchia guardia democratica, sfidata negli ultimi anni dalla corrente progressista. Senza alcun dubbio, l’ottenimento del ticket presidenziale e la sconfitta dello sfidante repubblicano (al 99% Donald Trump) sarebbe un grande punto a favore dell’ala del Partito democratico che preferisce mantenere la rotta moderata intrapresa nei decenni dal Partito.
Sin dall’inizio della sua candidatura, Biden ha mostrato grande sicurezza di sé, comportandosi quasi come se avesse la nomination già in tasca. Il suo video di candidatura, infatti, era un attacco diretto verso il Presidente Trump e un appello per recuperare lo spirito che ha reso grandi gli Stati Uniti. Inoltre, egli non parla quasi mai dei suoi colleghi candidati, ma volge la sua attenzione sempre verso il tycoon newyorkese, a simboleggiare come, secondo Biden, sia proprio lui il suo unico rivale. Stando a quanto sembra, anche Trump sembra condividere la visione dell‘ex vicepresidente, tanto da dedicare gran parte delle accuse nei suoi confronti. L’ultimo esempio, a questo proposito, viene da quanto sostenuto dal Presidente durante il suo viaggio in Giappone in questi giorni: sabato sera, infatti, egli ha rimarcato il sorriso che Kim Jong-Un aveva quando ha definito Biden un uomo dal basso quoziente intellettivo. In altre occasioni, il POTUS aveva coniato l’espressione “Sleepy Joe” (spesso associata all’appellativo “Crazy Bernie” per il Senatore Sanders).

Joe Biden ai tempi della testimonianza di Anita Hill

Avendo Biden quasi monopolizzato il fronte moderato, tutti gli altri candidati stanno cercando di ottenere il consenso all’interno della base progressista. Ad esempio, hanno tutti deciso di rinunciare a raccogliere i soldi con l’aiuto dei PAC (political action committee), visti come il simbolo dell’influenza di lobbisti e multinazionali nella politica statunitense, preferendo le donazioni dei singoli elettori.
In ogni caso, sarebbe un errore credere che, così come per i moderati, gli elettori progressisti non tendano a catalizzarsi verso uno o due figure politiche, con Elizabeth Warren e Bernie Sanders che raccolgono molto sostegno all’interno di questa area. Il Senatore del Vermont, così come nella precedente campagna elettorale, punta molto sul sostegno della classe lavoratrice, inclusi i blue collar dei Paesi del Midwest, ossia la classe sociale che è stata di grande aiuto per l’elezione di Donald Trump. Non è un caso, quindi, che Sanders dedichi molti discorsi a spiegare a quei lavoratori come il tycoon li abbia traditi, promettendo una politica popolare e favorendo, al contrario, le classi dominanti. Sui canali social legati alla sua campagna sono molto presenti, ad esempio, video di ex-sostenitori di Trump che dicono di aver scelto, per questa tornata elettorale, di sostenere il candidato davvero a favore delle classi più disagiate.
Sebbene differisca con Sanders su diversi aspetti, anche Elizabeth Warren sta tentando di smentire l’immagine del partito democratico come di un partito che ha abbandonato i lavoratori (in particolare quelli degli Stati che non si trovano sulle coste). Per rendere chiaro questo concetto, non a caso, ha scelto come slogan per la sua campagna “Rebuild the Middle Class”. Inoltre, la Senatrice del Massachussetts si è spesso scagliata contro multinazionali e miliardari, proponendo una Ultra-Millionaire Tax riservata alle 75.000 famiglie più ricche del Paese. All’interno del suo programma sono presenti, inoltre, proposte per far riprendere l’agricoltura (tema molto caro per la Rust Belt) , il Green New Deal e il Medicare for All (proposte più progressiste dedicate alla parte più radicale del suo elettorato).
Stando ai sondaggi, la Warren non dovrebbe riuscire a ottenere la nomination, ma sarà interessante vedere se i suoi sostenitori decideranno di supportare Bernie Sanders nell’ultima fase delle primarie e se, eventualmente, lei darà indicazioni in tal senso.

Elizabeth Warren e Bernie Sanders

Per concludere, mancano ancora diversi mesi prima che si inizi effettivamente a votare, ma lo schieramento democratico è decisamente attivo e, per questo, è importante seguire sin da adesso le campagne dei molti candidati. Joe Biden sembra, al momento, il favorito d’obbligo, ma è davvero troppo presto per emettere giudizi così definitivi.