Laureato in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l'Alma Mater Studiorum di Bologna, studente magistrale di Strategie della comunicazione Pubblica e Politica presso L'università di Firenze. Appassionato di politica, storia, sociologia, comunicazione e nuove tecnologie.

L’8 giugno 1949 George Orwell pubblicò la prima edizione di “1984“, un libro destinato ad abbattersi come uno tsunami sull’opinione pubblica del tempo, tanto attuale da essere tutt’oggi fonte di dibattito.
Nel romanzo, tralasciando le vicende narrate, vi è la definizione di un concetto che oggi vorrei prendere in esame: il “Newspeak“.

Questo viene presentato come un linguaggio artificiale, epurato da ogni riferimento al pensiero astratto, ridotto a un vocabolario base di connotazione infantile, esso appiattisce il pensiero stesso e rende i cittadini incapaci di discernere il bene dal male.
Nel libro, l’affermarsi di questa nuova lingua è accompagnata dalla distruzione dei grandi classici passati della letteratura e dalla loro sostituzione con opere prodotte in serie meccanicamente.

Nonostante il romanzo di Orwell sia ancora definito fantascientifico, offre, per l’ennesima volta, una visione critica della realtà che ci circonda quotidianamente. Avete mai sentito parlare, sopratutto in ambito videoludico o cinematografico, del termine “politically correct” ?
Questo è definito come una linea di opinione, o un atteggiamento sociale, di estrema attenzione al rispetto generale, soprattutto nel rifuggire l’offesa verso determinate categorie di persone: la forma politicamente corretta appare quindi libera da ogni tipo di pregiudizio razziale, etnico, religioso, di età, di sessualità o relativo a disabilità fisiche e mentali.
Se a prima vista può sembrare una linea di pensiero eticamente non criticabile, è necessario e fondamentale osservare come questo sia nato e come poi sia stato applicato alla realtà sociale e culturale dei paesi occidentali, per capirne le reali problematiche e la sua effettiva vicinanza al sopra citato Newspeak.

Il movimento che diede origine al “politically correct”, e successivamente ai movimenti radical e liberal, nacque in risposta al rapido aumento di episodi di razzismo tra gli studenti delle università statunitensi; furono approntati ed imposti dei codici di condotta verbale (speech codes) con i quali si voleva scoraggiare l’uso di epiteti offensivi, questi infatti se venivano infranti comportavano una serie di richiami ufficiali che influivano negativamente sulla carriera accademica degli studenti.
Si intervenne quindi sulla forma delle parole, non sul loro significato, poiché nonostante venisse imposto il passaggio da “blacks” o “niggers” ad “afro-americans”, o da “handicappato” a “diversamente abile”, gli atteggiamenti ostili e discriminatori dietro alle parole rimanevano invariati.

Il politicamente corretto si caratterizzò successivamente come una forma di conformismo linguistico, un pensiero unico che frena la libertà d’espressione oltreché una sorta di ipocrisia istituzionale, che si limita a cambiare la “forma“, cioè le parole, senza intervenire sostanzialmente sul problema, poiché è fuori discussione che sostituire i termini “afroamericani “e “diversamente abili” a “negri” e “handicappati” sia ben altra cosa dal rimuovere il razzismo e le barriere architettoniche.
Nonostante la sua inefficacia, il “politically correct” fu assimilato e utilizzato per scandire i canoni di corretto o scorretto anche al di fuori delle facoltà universitarie statunitensi, andandosi ad annidare in qualsiasi ambito socio-culturale degli States: dalla cinematografia, alla produzione di videogiochi, alla letteratura, alle riviste fino a porsi come unico giudice del lecito e dell’illecito, una sorta di Ministero della Verità riprendendo Orwell.
Forse vista come facile ed immediata soluzione a problemi così grandi e complessi come la discriminazione e il razzismo, il “politically correct” appare essere una oppressiva, elusiva e controproducente forma di censura.

Non è stereotipando in una banale mediocrità le tante e variopinte differenze tra etnie umane che si raggiunge l’uguaglianza, non è togliendo conoscenze che si istruiscono le generazioni future ad essere migliori dalle passate, e non è portando la massa all’obbedienza attraverso l’ignoranza che si costruisce un mondo più giusto, democratico e libero.

Per quanto opinabile, personalmente reputo più fruttuoso mantenere e conoscere sostantivi come: negro, frocio, finocchio, handicappato o mongolo perché sono proprio questi che insegnano e delineano la differenza tra ciò che è giusto o ciò che è sbagliato. Se questi vengono eliminati da ogni nuova produzione cinematografica di massa, si sottrae la possibilità alle nuove generazioni di capire il perché tali aggettivi, con il loro relativo risentimento culturale, siano sbagliati e necessitino di essere superati.

Potremmo concepire il “politically correct” come una banale risposta al “Nuovo Fardello dell’Uomo bianco”, ovvero quel peso che grava sulle spalle dell’Occidente e che esige da esso, dopo anni di soprusi, sfruttamenti ed ingiustizie, la costruzione di meccanismi di integrazione, tolleranza e, almeno apparente, apertura verso le altre etnie. Una soluzione, che per l’ennesima volta, pone come baricentro l’uomo occidentale e la sua presunta capacità superiore di concepire cos’è bene per le altre culture e cosa invece è assoluto male. La stessa adozione di termini non offensivi nei riguardi di determinate categorie, essendo sancita senza interpellare le categorie stesse, costituisce inequivocabilmente un fattore di discriminazione, poiché risulta sempre essere la figura esterna del “civilizzato occidentale” a decidere.

Di conseguenza, non è rivisitando i classici greci, latini, i romanzi cavallereschi e ottocenteschi, o addirittura le traduzioni di romanzi fantascientifici, in chiave politicamente corretta che si possono riscrivere migliaia di anni di storia occidentale fatta di discriminazioni, segregazione, schiavitù e razzismo. Il “politically correct” è una lavata di coscienza ignorante e pericolosa, che concede contentini alle “minoranze” per non farle indispettire, invece di incoraggiare produzioni di opere che permettano di conoscere altre culture, realtà e società, promuovendo il multiculturalismo e non un adeguamento forzato di quella occidentale.

Solo conoscendo l’altro potremo coglierne la somiglianza, accettarlo e conviverci pacificamente.

Con “1984” George Orwell volle lanciare un avvertimento alle generazioni future, ma anche un messaggio di speranza: la cultura, la conoscenza, l’istruzione e la letteratura sono le uniche armi a nostra disposizione per poter sconfiggere qualsiasi forma di bigottismo, di oppressione o di ingiustizia