Lionel Essrog (Edward Norton) è un detective che lavora, insieme ai suoi colleghi Gilbert Coney (Ethan Suplee), Danny Fantl (Dallas Roberts) e Tony Vermonte (Bobby Cannavale), presso l’agenzia investigativa di Frank Minna (Bruce Willis), suo capo e mentore. Lionel è dotato di una grande memoria, ma allo stesso tempo è affetto dalla sindrome di Tourette che, spesso, gli impedisce di controllare i propri pensieri. Dopo la morte di Frank, il protagonista comincia ad indagare sul suo omicidio, immergendosi così nei bassifondi di New York, nei Jazz Club del quartiere di Harlem, fino ad arrivare alle alte sfere del potere. Lionel conoscerà Laura (Gugu Mbatha-Raw), un’attivista che combatte per i diritti della comunità afroamericana, che lo aiuterà in questo vertiginoso labirinto, che vedrà protagonisti anche il responsabile dello sviluppo della città Moses Randolph (Alec Baldwin) ed il fratello Paul (Willem Dafoe), un ingegnere caduto in disgrazia.
Probabilmente quando Norton ha iniziato a scrivere e a dirigere Motherless Brooklyn era consapevole di avere a che fare con un progetto ambizioso, capace di nascondere insidie sul piano narrativo e su quello strettamente cinematografico. La materia narrativa da cui è tratto il film, ovvero l’omonimo romanzo di Jonathan Lethem, poteva annullare l’autorialità del regista, rendendo l’opera una semplice trasposizione. Inoltre, l’attore e regista americano decide di cimentarsi con la grande tradizione del cinema noir, una prova non di certo facile.
Motherless Brooklyn non è un film che si pone l’obiettivo di analizzare gli abusi del potere, così come non vuole entrare nelle dinamiche delle discriminazioni sociali. Tutto questo fa da contorno alle molteplici prospettive che nascono dalla testa di Lionel, perché al centro dell’opera ci sono i pensieri, i gesti, i suoni e le parole del protagonista. Il film è molto dialogato ed è poco rilevante il fatto che la razionalità sia spesso minacciata da quel “vetro dentro il cervello” di Lionel, perché il dialogo costante è tra il protagonista e la sua testa, tra i suoi pensieri e le sue parole. Non a caso è la voce-off di Lionel ad immergere lo spettatore in medias res all’interno della sfera diegetica. La seconda voce, quella che abita nella mente di Lionel, è da lui descritta quasi come un’entità che vive una vita propria, capace quindi di sdoppiare, piegare e frammentare i punti di vista del protagonista. Anche la stessa New York non è altro che una moltitudine frammentata che si rilette sulla pozzanghera.
A causa della sindrome da cui è affetto, il personaggio di Essrog è un uomo solo, strappato da un orfanotrofio proprio da Frank Minna, che si rivela una vera e propria figura paterna, capace di valorizzare Lionel come se fosse un figlio.Non a caso uno dei momenti più intensi è proprio quando il protagonista piange la morte di Frank, accompagnato dalla funzione empatica che svolge la canzone “Daily battles”, cantata da Thom Yorke e Flea, scritta appositamente per il film.
Sono chiari i rimandi cinematografici a cui Norton attinge, da Chinatown a Il lungo addio, passando per La 25°ora. Il detective dalla mente tormentata, la protagonista femminile in pericolo e la corruzione politica rimandano esplicitamente alla grande tradizione del cinema classico poliziesco, ai quali Norton non si vergogna di attingere. L’atmosfera fosca e cupa che emerge dal lavoro sulla fotografia di Dick Pope, rimanda all’oscurità del potere, così come le musiche di Daniel Pemberton sembrano rievocare le note di Miles Davis. Ancor più esplicita è la decisione di Norton di spostare l’ambientazione del romanzo dal 1999 agli anni 50’, proprio per rievocare le atmosfere dei grandi classici del cinema noir.
I punti di forza del film risiedono proprio nella colonna sonora, nell’ambientazione, nell’analisi introspettiva del protagonista e nella bravura degli attori. Sia Alec Baldwin, nella parte del ricco, perfido e spregiudicato uomo politico, sia Willem Dafoe nel ruolo del fratello ingegnere caduto in disgrazia, sono in grande forma. Così come lo stesso Edward Norton che, nella parte di Lionel alterna momenti di ironia e di forte drammaticità, capaci di ben delineare le tormentata psiche di Lionel.
La lunghezza eccessiva (144 minuti) la mancanza di una vera originalità rendono Motherless Brooklyn un buon film che non riesce totalmente a soddisfare i presupposti da cui era partito. Tuttavia, questo non condanna un’opera ambiziosa e conferma il talento di Edward Norton, non più solo come attore, ma anche come regista.