Laureato in filosofia presso l’università degli studi di Genova, dove frequento la magistrale in metodologie filosofiche. Appassionato, ovviamente, di filosofia, soprattutto nel suo versante etico, politico e sociologico.

Nel 1986 la carriera di David Lynch contava tre lungometraggi (Eraserhead, The Elephant Man, Dune), l’ultimo dei quali si rivelò un clamoroso insuccesso, a tal punto che lo stesso regista affermerà di aver “imparato che cosa sia il fallimento” definendolo come “una bella cosa” perchè “passata la tempesta, non puoi che risalire”. Blue Velvet si presenta quindi come un vero e proprio spartiacque nella produzione cinematografica del regista americano, un’opera capace di tracciare un percorso che raggiungerà la sua massima espressione in Twin Peaks, consacrando Lynch come uno dei più originali cineasti della sua generazione.

Da un punto di vista narrativo il film si discosta dalle tre opere precedenti, è infatti ambientato nell’America contemporanea e segue le vicende di Jeffrey Beaumont (Kyle MacLachlan), un giovane studente che, dopo aver trovato un orecchio umano in un campo, decide di indagare personalmente sul ritrovamento. Le sue indagini, svolte insieme a Sandy Williams (Laura Dern), giovane figlia del commissario della polizia locale, lo condurranno in una spirale di seduzione ed erotismo che coinvolge Dorothy, una cantante di nightclub (Isabella Rossellini) ed un sadico e perverso tossicodipendente, Frank (Dennis Hopper). Ben presto Jeffrey si trova imprigionato nelle loro esistenze depravate, cominciando una vera e propria discesa negli inferi di questa piccola provincia dell’Ovest degli Stati Uniti.

Blue Velvet resta ancora oggi una pellicola indefinibile e di estremo fascino, in cui il cinema di impronta hitchcockiana ed il genere noir vengono decostruiti e rimontati in una forma nuova, capace di scardinare i codici di trasparenza del continuity system hollywoodiano. La narrazione debole ed il lavoro di sottrazione che Lynch applica soppiantano definitivamente i canoni di chiarezza, motivazione e drammatizzazione della grande cinematografia classica, la quale resta solo un paradigma da deformare, per rivelarne (ironicamente) le contraddizioni. Lo stesso contesto temporale in cui si svolge la vicenda risulta offuscato (un po’ sembra ambientato negli anni cinquanta ed un po’ negli anni ottanta) e la logica causale tra gli eventi viene sovvertita drasticamente, tanto da disorientare lo spettatore che si trova di fronte ad una realtà permeata di onirismo, in cui l’elemento perturbante minaccia la normalità. Proprio l’estetica lynchiana del perturbante, ottenuta attraverso l’utilizzo di ottiche grandangolari che suscitano una sensazione di spaesamento e di angoscia, caratterizza l’intero film fin dalle primissime scene, evidenziando come dietro all’apparente normalità si nasconda un mondo crudele e minaccioso, fatto di perversione e di violenza. In altre parole, la superficie delle cose è solo l’inizio della visione.

Non so se sei un detective o un pervertito”, osserva Sandy rivolta a Jeffrey, e mai verrà chiarito effettivamente quale dei due termini sia esatto. Forse Jeffrey è entrambe le cose, ma è anche un ragazzo che si confronta con la vita (quasi come fossimo una favola nera mascherata da romanzo di formazione), e con le difficoltà, i turbamenti e le pulsioni che essa porta con sé. In fondo, nulla in Blue Velvet è effettivamente ciò che appare, ma ogni singola realtà (compresi i protagonisti) presenta un duplice aspetto: da un lato c’è il bene e dall’altro c’è il male. Jeffrey perde l’innocenza e l’ingenuità, scopre l’orrore e la morbosità, diventando un voyeur che non può fare a meno della visione di Dorothy, una donna dolce, ma allo stesso tempo sensuale e seducente. Sandy incarna

invece la purezza e l’innocenza, è una giovane ragazza che scopre l’amore, e risulta quindi il perfetto opposto di Dorothy, la quale rappresenta l’eros e l’oggetto desiderato da un punto di vista esplicitamente sessuale. Frank è invece un gangster drogato e coinvolto in affari sporchi, il quale tiene in ostaggio il marito e il figlio di Dorothy, costringendola a sottostare alle sue perversioni. Anche in questo caso Lynch delinea una figura dalle molteplici sfumature psicolologiche: Frank è infatti capace di degradare verbalmente e stuprare Dorothy, ma allo stesso tempo lo vediamo piangere in due occasioni, prima mentre la ascolta cantare Blue Velvet ed in seguito durante l’esibizione dell’amico Ben che canta In Dreams.

Lo spettatore non è a conoscenza delle ragioni che conducono i protagonisti ad agire in un determinato modo, ma l’esperienza visiva deve limitarsi alla contingenza di ciò che accade. In questa prospettiva, la sfera sensoriale, nei film del grande regista, mette a dura prova le capacità intellettuali dello spettatore.

La carrellata di immagini che accompagnano lo spettatore nella cittadina di Lumberton, dove un pompiere saluta guardando fisso in camera, i bambini attraversano felicemente le strisce pedonali, i fiori rossi e gialli colorano le giornate di sole, non sono altro che una cornice che serve da pretesto per scavare nel sottosuolo marcio, ovvero nell’inconscio umano.

Anche se il mistero verrà svelato ed i pettirossi torneranno a cantare sugli alberi, la conclusione del film, che per i toni ricorda molto una commedia romantica, continuerà a perturbare lo spettatore. Forse proprio perchè la realtà è quel luogo dove i conti non tornano mai.“It’a a strange world, isn’t it?”