Disoccupato ed ex alcolizzato, Joe (Peter Mullan) vive di sussidi e si occupa dei giovani di un quartiere di Glasgow. Questi ragazzi sono ex drogati, disoccupati e delinquenti che formano la squadra di calcio di cui ne è l’allenatore. Un giorno Joe incontra Sarah (Louise Goodall), un’assistente sociale che fa il suo stesso lavoro, ma all’interno delle istituzioni. Inizialmente Sarah si rifiuta di relazionarsi sentimentalmente con un ex alcolizzato e disoccupato come Joe, ma finirà con l’innamorarsi di lui. Purtroppo la vita di Joe si complicherà dal momento che dovrà occuparsi di Liam (David McKay), un giovane tossicodipendente del quartiere, che il protagonista ha preso sotto la propria ala protettrice, nella speranza di aiutarlo a disintossicarsi. Liam vive con Maggie (Lorraine McIntosh), anch’essa tossicodipendente, ed insieme cercano di allevare il loro bambino. Inoltre, Liam deve del denaro a McGowan (David Hayman), spacciatore e padrone del pub locale, il quale minaccia il giovane di spezzargli le gambe se non salderà il debito.
Joe, per salvare Liam, accetta di svolgere un lavoro sporco affidatogli da McGowan e partire da questo momento la tragedia affonderà l’esistenza del protagonista.
My name is Joe è il secondo film sceneggiato da Paul Laverty (già sceneggiatore de La canzone di Carla), che a partire da questo momento diventerà fedele collaboratore di Ken Loach. Non è una novità che il credo del regista inglese si fondi sul realismo: il suo cinema è, da sempre, una profonda inchiesta sociale dove la fiction non può che passare in secondo piano.
Questo è testimoniato anche dal fatto che tutti i membri della squadra di calcio di Joe (compreso Liam) non avevano precedenti esperienze cinematografiche, ma sono stati quasi tutti reclutati dal regista tra i residenti del quartiere di Glasgow dove l’azione si svolge. Inoltre, alcuni di essi, ebbero effettivamente problemi con la droga.
Se, a prima impressione l’opera di Loach potrebbe sembrare una commedia romantica, ben presto si tramuterà in tragedia. Lo stile scarno e minimale, privo di virtuosismi, si concentra sui volti e sui gesti degli attori, poiché nei quartieri proletari di Glasgow non può esserci alcuno spazio per qualsivoglia forma di spettacolarità. Non a caso l’ambientazione è quella proletaria, tipica del realismo socialista di cui il regista si avvale per indagare le vite degli sfruttati e degli umiliati, di coloro che sono stati sconfitti dalla vita stessa e dalla società. Tuttavia, non manca nei protagonisti una profonda voglia di vivere, quello slancio vitale che permette loro di guardare (e sperare) in una realtà migliore, in cui la scelta diventa possibile, e non solo una semplice illusione.
Per Loach, questa situazione tragica si collega direttamente al tema della scelta: per alcuni è facile e normale compiere (e poter compiere) la scelta giusta, per altri meno.
Coloro che non possono compierla sono gli emarginati stessi (di cui Joe, per certi versi, ne è l’(anti)eroe tragico), quelli che non stanno più dentro la società, abbandonati proprio nel momento di massimo bisogno. Lo stesso Joe, rivolgendosi a Sarah, giustificherà la sua decisione di compiere il lavoro affidatogli da McGowan: “Non tutti possono andare alla polizia. Non tutti ottengono prestiti in banca. Non tutti possono partire e andarsene affanculo da un’altra parte. Non tutti possono scegliere. Io non ho avuto scelta.”
Joe, che con Liam sembra avere un atteggiamento paterno, non può abbandonarlo, proprio perché Liam stesso è il fantasma del passato del protagonista. La scelta è solo, quindi, una realtà apparente, una possibilità che resta in potenza, ma che difficilmente potrà tramutarsi in atto.
Loach pone allora un’altra domanda fondamentale: è giusto compiere il male pur di salvare la vita di un amico? Il male può essere la strada per compiere il bene?
La razionalità e la riflessività di cui Sarah è portatrice, non possono far altro che rispondere negativamente alle domande. Non a caso lei lascerà Joe proprio nel momento che, una volta incinta, non accetterà la “scelta” di Joe di trasportare in macchina la droga per volontà di McGowan. Il male ed il crimine non possono trovare giustificazione, cedere alla tentazione del male stesso è già una sconfitta.
Tuttavia, Loach è consapevole che la realtà non è mai così semplice come sembra, poiché al di sopra di codici etici e morali (e filosofici, se vogliamo), oltre il giusto e lo sbagliato, esistono gli esseri umani con le loro debolezze, le loro angosce, il loro passato, le loro emozioni ed il loro pensiero. Ecco allora che la prospettiva viene ribaltata: Loach non può condannare chi compie il male con le migliori intenzioni, poiché l’oppressione non permette loro di scegliere, mentre il vero problema sociale deriva da coloro che compiono il male consapevolmente.
Joe viene in questo modo “perdonato” dal regista, anche se la sua azione ha scaturito inevitabilmente il dramma (Liam si suiciderà), consapevole che la libertà di scelta del protagonista è solo apparente, figlia di uno dei tanti volti con cui l’oppressione sociale possa manifestarsi.
L’interpretazione mimetica di Peter Mullan (che gli è valsa la Palma d’Oro a Cannes come miglior attore) carica il suo personaggio di un’amara disillusione, ma allo stesso tempo di un profondo desiderio di riscatto, rappresentato proprio da Sarah, anche se tra i due vi è un significativo divario sociale e culturale. Il nostro protagonista sa che solo dal fondo si può risalire davvero.
Quell’impercettibile e sfumato riavvicinamento, nell’inquadratura finale, di Joe e Sarah sembra lasciare aperte le domande, quasi come se lo spettatore si trovasse, nuovamente, di fronte ad un dilemma dove ogni giustificazione razionale rischierebbe di diventare banale. Forse, quell’ultima inquadratura, dolorosamente umana, rappresenta la speranza che, come direbbe James Joyce, “domani sarò ciò che ho scelto di essere”.