Studente presso la facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri” di Firenze, scrittore per il Prosperous Network. Fra fumetti, tecnologia e libri mi appassiono alla politica nostrana.

4 dicembre 2017.

Stiamo vivendo un giorno particolare, perché da oggi parlare di “4 dicembre” non sarà più solo sinonimo del 4 dicembre 2016, fatidica data del referendum costituzionale. Dovremo cominciare a capire tutti, dal più favorevole al più contrario alla riforma, che quell’episodio si sta allontanando. Parlare di “4 dicembre” da oggi significherà parlare di stamattina, e fra una settimana significherà parlare di qualche giorno addietro. Dovremo tutti abbandonarci all’idea che un importante capitolo della Seconda Repubblica è stato lasciato alle spalle così come abbiamo fatto con i referendum costituzionali precedenti. La portata sentimentale di questo episodio però rimane ancora nell’aria con un sapore agrodolce. Sì, perché nel bene e nel male in questo periodo ci tocca fare i conti con ciò che il sistema istituzionale italiano sarebbe potuto essere e ciò che invece è.

Fra occasioni perse e crisi scongiurate.

Sappiamo bene che analizzare l’Italia a un anno dal famoso referendum non possa voler dire prendere in considerazione tutte le promesse elettorali che erano state fatte. Lo sapevamo anche allora, si trattava di promesse, sia sul fronte del No che sul fronte del Sì, che non potevano che farci ridere. Dal tracollo dell’economia alla dittatura di Renzi, persino qualche accademico era caduto nel tranello di una campagna aspra ed illusoria. Ciò che rimane e ciò che si potrebbe rimpiangere non han nulla a che vedere con tutto questo.

La parabola di un leader e di un partito.

Una cosa metterà d’accordo un po’ tutti: il referendum era un progetto oggettivamente ambizioso. Che non piacesse, beh, quello è un altro paio di maniche, è innegabile però che il PD (fatti salvi i “traditori”) ed il suo segretario, Matteo Renzi, avessero messo in gioco tutti loro stessi per portare a termine la riforma costituzionale. E a progetto fallito un castello è letteralmente crollato. È ad osservare Renzi che si capisce bene quanto questa batosta continui ad incidere: un politico votato alla dinamicità ed alla retorica del cambiamento si è trovato del tutto spiazzato ed abbandonato. Il discorso delle dimissioni, strappalacrime anche per gli avversari politici, aveva messo la parola fine ad un’avventura estremamente poetica. Al suo rientro in campo, però, sembra che Renzi si sia fatto sostituire da una fotocopia sbiadita che non riesce ad azzeccarne molte. Parere personale ed abbastanza discutibile questo, è vero, ma in ogni caso un cambiamento c’è stato, innegabilmente.

A disegnare una parabola, stavolta nella fase ascendente, sono state anche le opposizioni di destra. Il M5s non è cambiato quel granchè, e probabilmente su questo aspetto dovremmo fare una riflessione in separata sede, mentre invece Berlusconi, Salvini e compagnia stanno brillando di nuova luce. Ed in questo non può che aver inciso il tramonto di un disegno votato alla competitività partitica ed al maggioritario.

Un sistema politico totalmente ridisegnato.

Vorrei essere l’ultimo Presidente del Consiglio a chiedere la fiducia a quest’aula”. Con queste parole estremamente ambiziose Matteo Renzi si presentava al Senato, il 24 febbraio 2014, e si accingeva ad affrontare il lungo iter di revisione della Costituzione. Diceva questo appunto perché la direzione intrapresa era quella di ridisegnare le istituzioni dando degli strumenti all’Esecutivo che fino ad oggi sono mancati e continuano a mancare, e questo avrebbe comportato anche un cambiamento nel ruolo giocato dal Presidente del Consiglio, che avremmo potuto chiamare finalmente “Premier” o “Primo Ministro”. Di fatto i poteri del Presidente del Consiglio non cambiavano, ma grazie all’assetto fortemente competitivo e maggioritario egli si sarebbe potuto trovare finalmente a capo di una maggioranza ampia, coesa e non frammentata, quasi monocolore. Una cosa mai vista in Italia. Fallito il referendum le cose non sono rimaste le stesse, assolutamente no. Perchè il No al referendum non ha comportato un semplice mantenimento dello status quo, bensì il rifiuto più totale di un sistema votato alla competitività partitica. Un effetto esplosivo che ha fatto sì che il sistema partitico tornasse ad essere estremamente frammentato e che la legge elettorale da cucire addosso a questo nuovo assetto non potesse che essere un proporzionale con qualche correttivo come il Rosatellum, di cui però nessuno sembra essere contento. Ne esce fuori dunque un sistema politico totalmente rimodellato, sì, ma all’opposto di quanto riforma costituzionale + italicum si prefiggevano di fare. Il No alla riforma dunque non ha accontentato, oltre ai sostenitori del Sì, nemmeno coloro che pensavano che il sistema andasse lasciato così come lo si conosceva. L’onda d’urto del fallimento non ha fatto piombare l’Italia nella crisi economica, cosa che una certa propaganda si sarebbe dovuta risparmiare di dire, ma ha comunque comportato l’annullamento dei passi verso la competizione partitica fatti dal 1992 al 2016.

Scenari economici nuovi.

Come si diceva, tutte le nefaste previsioni della propaganda per il Sì non hanno fatto che affossare il Sì stesso. Fortunatamente per l’Italia si trattava di scenari mai avverati. Gli indici macroeconomici per lo più sorridono all’Italia e restituiscono una situazione economica sempre più stabile che, ci si augura, chiunque vada al governo possa sfruttare al meglio per svoltare certe problematiche nazionali. Ma al di là di questo, un’altra riflessione va fatta sulla base dell’economia e di chi ha usato la stabilità economico-finanziaria per far propaganda favorevole alla riforma. È assodato infatti che agli Italiani, ed in generale alle popolazioni europee e occidentali, non interessino affatto le nefaste previsioni finanziarie alla vigilia di un voto, considerate d’ostacolo e poco veritiere, se non addirittura sinonimo di malafede. Questo a prescindere dal fatto che abbiano ragione d’essere, come i pronostici pre-brexit, oppure che si tratti di boiate palesi come le previsioni pre-riforma costituzionale.
Una cosa dunque è da considerare seriamente, ovvero il ruolo che i grandi della finanza e dell’industria debbano o meno giocare nello sponsorizzare un risultato elettorale piuttosto che un altro. Un interrogativo che probabilmente i leader italiani già si stanno ponendo per le politiche alle porte.

Nel bene e nel male si tratta di riflessioni da compiere approfonditamente aspettando una nuova avventura referendaria che forse non arriverà mai. Il cammino istituzionale italiano comincia a volgere verso una Terza Repubblica in senso estremamente proporzionale di cui difficilmente ci libereremo. E intanto dovremo cominciare a dimenticarci, com’è fisiologico che sia, di questo – gioioso o nefasto – 4 dicembre 2016.