Studentessa di Lettere moderne all’Alma Mater Studiorum, vivo divisa tra Prato e Bologna. Nell’attesa (e nella speranza) di diventare un giorno giornalista, mi dedico alla letteratura e alla politica. Nel tempo libero scrivo, vado in palestra, scrivo.

Il 21 non dev’essere un numero particolarmente fortunato per la sinistra italiana. Nei primi tre mesi del 2021, infatti, si sono susseguite liti, dimissioni e mezze scissioni nel campo del centrosinistra. Da «il re è nudo» di Matteo Renzi, che ha tirato giù il governo Conte bis, all’addio a sorpresa di Nicola Zingaretti, logorato dallo «stillicidio» delle correnti del PD. E poi ancora l’implosione di +Europa con le dimissioni di Emma Bonino e Benedetto Della Vedova. Ma un secolo fa, nel 1921, è andata pure peggio.

Gennaio 1921, il caos socialista

Nel gennaio del 1921 il Partito socialista italiano organizzò il suo congresso a Livorno. La discussione era particolarmente accesa perché da Mosca era arrivata l’ingiunzione ai partiti socialisti europei di trasformarsi in partiti comunisti, cambiando il loro nome ed espellendo tutti i “riformisti”, ovvero coloro che credevano nel socialismo ma non nella rivoluzione. Queste erano le condizioni per restare all’interno dell’Internazionale.

Nel partito socialista italiano i riformisti erano numerosi, ma gli equilibri del partito erano ancora più complessi. Nel mondo socialista, infatti, non convergevano solo riformisti e comunisti, ma tra questi due estremi proliferavano molti altri gruppi. C’erano, ad esempio, i “massimalisti”, che formalmente credevano nella rivoluzione ma di fatto spingevano per mantenere l’unità del partito. Poi ancora socialisti rivoluzionari, “centristi”, sindacalisti. Un caos di correnti divise da sottigliezze ideologiche nemmeno sempre chiare.

A Livorno andò in scena una vera e propria guerra tra fazioni che portò alla scissione del partito. Di fronte al rifiuto dei massimalisti di espellere i riformisti, i comunisti guidati da Antonio Gramsci e Amedeo Bordiga lasciarono il congresso e si riunirono separatamente, fondando il Partito comunista italiano.      

Tante opposizioni, nessuna opposizione

La scissione di Livorno di fatto aprì un’autostrada ‒ termine anacronistico per l’epoca, ma che rende bene l’idea ‒ al fascismo. Da quel momento in poi, infatti, i socialisti si dimostrarono completamente incapaci di risolvere i loro drammi interni per opporsi all’avanzata di Benito Mussolini. Nemmeno alle elezioni del 1923, quando il fascismo era diventato ormai una pericolosa realtà, i socialisti riuscirono a ricompattarsi: si presentarono con 21 liste diverse contro un unico listone fascista. Il risultato? «Tante opposizioni, nessuna opposizione» (A.Scurati, M. Il figlio del secolo).

Il tracollo del socialismo si consumò nel giro di una manciata di anni, proprio quando il contesto sembrava favorevole. Tra il 1919 e il 1920 i socialisti avevano ottenuto risultati senza precedenti alle elezioni, mentre in tutta Italia infiammava il biennio rosso; c’era pure un leader della rivoluzione in pectore, Nicola Bombacci detto «il Lenin di Romagna», ma la rivoluzione non arrivò mai e la sinistra finì uccisa dal «demone del suicidio» (A.Scurati, M. Il figlio del secolo).   

La sinistra italiana cento anni dopo 

A un secolo di distanza dai fatti di Livorno, la sinistra italiana non sembra aver imparato la lezione.

Nelle formazioni di centrosinistra presenti in parlamento, infatti, si nota una notevole frammentazione. Il PD è il partito più corposo, ma a questo si aggiungono le formazioni minori di Liberi e Uguali, Azione, +Europa, i Verdi e Italia Viva, molte delle quali nate da ex esponenti dello stesso PD. Al contrario, il centrodestra appare più strutturato: tre partiti che reggono la coalizione – Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia ‒ e due “gambe” ‒ Cambiamo! e Noi con l’Italia.

Ma la vera debolezza della sinistra sono le divisioni interne. Alle sei formazioni elencate sopra, infatti, bisognerebbe aggiungere numerose correnti: Liberi e Uguali è nato dall’aggregazione di tre forze diverse (Sinistra Italiana, Articolo Uno e Possibile), il PD ha tre correnti principali (Base Riformista degli ex renziani Lorenzo Guerini e Luca Lotti, Area Dem di Dario Franceschini e Dems di Andrea Orlando) e varie altre, tra cui i Giovani turchi di Matteo Orfini e un variegato “partito dei sindaci”. Se poi si allarga il centrosinistra al nuovo Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte, reduce da una mini-scissione che ha dato origine al gruppo autonomo “L’alternativa c’è”, divisioni e mal di pancia aumentano ancora.

Tutto ciò esiste solo in minima parte nel centrodestra. Non a caso non capita spesso di leggere sui giornali di correnti della Lega in lotta tra loro. Capita di sentir parlare di un certo dissenso interno, ma non è lo stesso. Le correnti sono una caratteristica del centrosinistra, a volte difese per quello che vorrebbero essere ‒ segno di un vivace pluralismo interno ‒ ma più spesso criticate per quello che rischiano di diventare, ovvero un nuovo «demone del suicidio» che spiana la strada a una futura vittoria della destra.

Eppure, il contesto potrebbe essere favorevole al PD. L’agenda di Mario Draghi, incentrata su europeismo e ambientalismo, è molto più vicina ai dem che alla Lega di Matteo Salvini, il quale ha dovuto fare qualche capriola per far dimenticare il suo passato da euroscettico. Ma il PD litiga, la Lega no.