Laureato in Studi in comunicazione alla Cesare Alfieri di Firenze. Ora studente di Strategie di Comunicazione Pubblica e Politica dell’Università di Firenze. Appassionato di politica, storia, filosofia, cinema e letteratura.


Lo chiamano Game, i migranti della rotta balcanica che si trovano in Bosnia. Il Game è una speranza: la ricerca costante di attraversare i confini per arrivare nell’Europa più ricca: Italia, Germania, Francia.

Durante il Game ci si sposta di Stato in Stato, camminando per settimane tra boschi, neve e mota. Non sai mai come andrà a finire: puoi essere scoperto e rimandato indietro, fino a tornare da dove sei partito, probabilmente con qualche ematoma in più e qualche giubbotto in meno. È un vero e proprio gioco macabro: fai una fatica immensa, hai già fatto più di metà viaggio, sei alle porte dell’Europa e non sai come andrà a finire. Come nell’ultimo livello di un videogioco, se perdi torni indietro e sei costretto a fare tutto daccapo, ancora e ancora.

C’è chi l’ha già fatto tre volte, chi sette, qualcuno parla di venti ritorni.

È una storia comune a tutti coloro che si accampano vicino al confine croato, nel distretto di Una Sana. In quel territorio si trova anche Lipa, dove il 23 dicembre è andato a fuoco un campo profughi. Una tendopoli priva di elettricità e di acqua, costruita ad aprile dal governo di Sarajevo, per mettere un freno all’epidemia. Dopo l’incendio sono circa 1500 i migranti rimasti senza un posto dove vivere, costretti al ghiaccio e alla neve. I bosniaci li chiamano i fantasmi dei boschi. Alcuni, i più fortunati, si sono spostati a Bihać in una fabbrica abbandonata, un tetto sotto cui ripararsi, pronti a riprovare il Game, pronti a tutto, anche ad essere rispediti indietro.

Pakistani, iracheni e afghani sono i più numerosi nella rotta balcanica. Ci sono anche algerini, tunisini e marocchini, hanno intrapreso un viaggio più lungo con la speranza di scappare alle intemperie del mare, oppure sono stati obbligati da chi ha organizzato i viaggi.

Campo di Lipa – Il Manifesto

L’Italia rispedisce indietro anche coloro che fanno domanda di protezione internazionale, contravvenendo alla Costituzione e ai Trattati internazionali. I migranti raccontano di aver superato il confine, essere arrivati a Trieste e poi rispediti indietro, prima in Slovenia e poi in Croazia, dove spesso vengono maltrattati e derubati dalle autorità, per poi essere riportati oltre il confine, da dove il Game era cominciato. Un circolo vizioso, poco conosciuto, con l’Europa che si volta dall’altra parte.

L’Unione Europea ha accusato Sarajevo di non assistere i profughi come dovrebbe. C’è, invece, chi crede che il problema sia stato creato dalla stessa Unione, che ha predisposto dei Paesi cuscinetto in cui fermarli. La prima è stata la Turchia nel 2015, che ha ricevuto 3 miliardi per raggiungere questo obiettivo. Poi è stata la volta di Macedonia, Serbia e, infine, della Bosnia. A tutti questi paesi sono stati affidati ingenti quantitativi di denaro per costruire delle bolle di contenimento, ma c’è un problema: questi sono Paesi di passaggio, come la Libia nella rotta del Mediterraneo. I migranti, quindi, partono ugualmente. Nelle situazioni di crisi come quelle di Lipa tentano il Game, non desistono.

Tra i vari migranti c’è anche Mahmood, è un cittadino pakistano, fuggito dal Paese di origine per le persecuzioni subite a causa del suo orientamento sessuale. Prima è arrivato in Bosnia. Poi ha raggiunto l’Italia a metà luglio e ha fatto domanda di protezione internazionale. Poche ore dopo è stato rispedito in Slovenia e, a catena, è stato portato in Croazia, per poi essere rimesso nelle mani dell’autorità bosniaca.

Il suo caso, però, non è andato perso. Lo hanno aiutato due associazioni: l’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) e il BVM (Border Violence Monitoring), che hanno fatto ricorso al Tribunale di Roma. Lo scorso 18 gennaio la sentenza: il suo respingimento è stato dichiarato illegittimo.

Il tribunale ha specificato che il respingimento viola l’articolo 10 della Costituzione, che al comma 3 impone alle autorità di accettare l’asilo per coloro che non hanno possibilità di esercitare le libertà democratiche nel proprio Paese. Non solo, viola anche i Trattati internazionali che il nostro Paese ha sottoscritto negli anni: la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu) e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. Questa sentenza mette anche in dubbio la costituzionalità del meccanismo di riammissione tra Italia e Slovenia, accordo siglato tra i due paesi nel 1996 e mai ratificato dal Parlamento.

Le associazioni hanno raggiunto il loro primo obiettivo: scardinare il sistema di respingimento. Non si fermano. Dicono che è il primo passo verso una nuova serie di ricorsi, anche se non è facile, perché servono i documenti in originale. Non sempre si trovano: o perché persi durante il viaggio o perché provvisti solo di copie.

Intanto, la situazione nei Paesi cuscinetto non migliora. La Bosnia ha un problema umanitario e l’Europa guarda, mentre a Sarajevo iniziano i primi scontri tra migranti e autorità, mentre nel distretto di Una Sana, in cui sono situate Lipa e Bihać, l’insofferenza monta. La popolazione autoctona, che in questi tre anni ha spesso aiutato i nuovi arrivati, un po’ perché ricordano gli anni della guerra, un po’ perché condividono la fede nell’Islam, oggi si chiede: perché questi migranti non se li prende l’Europa, se è lì che i fantasmi dei boschi vogliono andare?