Laureato in Studi Politici presso la Cesare Alfieri di Firenze, attualmente studente magistrale di Strategie della comunicazione pubblica e politica presso l'Università di Firenze. Appassionato di storia militare e giornalismo di guerra.


L’uomo desidera la pace, ma forse ama la guerra.

Non vi sarebbe altrimenti altra spiegazione al fatto che sin da tempi remoti, l’individuo non sia mai stato capace di vivere in armonia con il proprio simile, venendo sempre a creare conflitti di potere e di possesso.

L’essere umano per sua natura è spinto alla supremazia, e al tempo stesso, al voler dimostrare di essere sempre il migliore ed il più forte. Per fare ciò, non esita a calpestare la vita e gli altrui diritti. Nello scontro che viene a crearsi, l’individuo andrà a perdere ogni aspetto tipico del razionalismo umano, ed attuerà una belligeranza priva di etica e morale.

La guerra è un “gioco” senza regole e limiti, dove tutto è concesso.

In questa corsa senza limiti, volta a creare strumenti di offesa sempre più perfetti ed efficaci, si è arrivati persino a considerare, un aspetto particolare, che esula dalle mere e classiche tecniche di battaglia: l’ambiente. Si è infatti capito che anche l’elemento esterno alle parti, e cioè il luogo teatro della belligeranza, potesse avere un ruolo determinante. L’ambiente naturale, che in ogni periodo storico ha costituito uno dei fattori fondamentali nel campo della strategia e nella conduzione delle operazioni militari, è diventato esso stesso, con il passare del tempo, uno strumento bellico dalle elevate potenzialità distruttive.

Gli sviluppi in campo tecnico, scientifico e militare, hanno permesso all’essere umano di piegare al proprio volere la forza della natura, consentendogli, dopo migliaia di anni di “schiavitù” e di paure nei confronti di essa, di poterla domare e usare per propri fini.

L’uomo, considerando l’ambiente un elemento in grado di intervenire a proprio favore nelle sorti di un conflitto, ha pertanto guardato con notevole interesse allo sfruttamento delle sue potenzialità.

Le possibilità offerte da un utilizzo strumentale del territorio, vanno invero ben oltre le comuni tattiche della strategia militare. Dal prosciugare corsi d’acqua per assetare il nemico, alla dispersione del petrolio usato per arrestare una possibile avanzata nemica, le occasioni sono molteplici.

In campo militare, occorre partire dal presupposto che molte condizioni ambientali non sono influenzabili, ma determinate da eventi naturali.

Ne deriva che, nella maggior parte dei casi, una decisione strategica, anche giusta, può risultare compromessa dalla sorte e dal luogo dove si svolgono gli eventi stessi. Una forte ed improvvisa pioggia torrenziale, può ad esempio bloccare uomini ed impantanare mezzi di trasporto, un’area completamente scoperta e senza ripari naturali, rende più problematico l’avanzamento dei soldati. Ed ancora, un violento terremoto, può rendere inutilizzabili infrastrutture civili e militari.

Queste sopra elencate, sono conseguenze dettate da fenomeni naturali e casuali, in cui, fin da tempi remoti, nessuno è mai riuscito a comandare. Tuttavia, quando le condizioni ambientali e climatiche possono essere determinate volontariamente dall’uomo, ciò assume un altro rilievo.

Possiamo prendere come esempio ciò che successe durante il conflitto in Viet Nam, in occasione del quale, gli americani utilizzarono tecniche di inseminazione delle nuvole (“cloud seeding”) per prolungare il periodo monsonico di circa quarantacinque giorni. Lo scopo era quello di fare straripare i fiumi e rendere impraticabile il famoso sentiero di Ho Chi Minh, ovvero la più importante arteria di rifornimento per i Viet Cong. (SEYMOUR M. HERSH, Rainmaking Is Used As Weapon by U.S., «New York Times», 3 luglio 1972).

Un caso molto simile si verificò anche durante il secondo conflitto sino-giapponese, in occasione del quale le truppe cinesidistrussero volontariamente gli argini del Fiume Giallo con l’intento di creare un’alluvione, e rallentare l’avanzata delle truppe nipponiche. (RUDOLPH J. RUMMEL, Stati assassini. La violenza omicida dei governi, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2005).

Dal secondo conflitto sino-giapponese, passando per la Guerra del Viet Nam, la storia è pertanto piena di riferimenti di questo tipo, nei quali, l’ambiente naturale è stato utilizzato come vera e propria arma, e non più solo come teatro dello scontro.

Gli eventi così caratterizzati, sono oggi vietati dalla normativa internazionale, che tramite l’operato dell’Organizzazione delle Nazione Unite, ha cercato di porre un freno alla strumentalizzazione bellica dell’ambiente, con la stipula di una specifica Convenzione.

Il Trattato, firmato il 18 maggio 1977 a Ginevra e entrato in vigore il 5 ottobre 1978, si pone infatti come obiettivo principale quello di vietare l’uso di tecniche di modifica dell’ambiente a fini militari. (UNITED NATIONS, Convenzione sul divieto dell’uso di tecniche di modifica dell’ambiente a fini militari e ad ogni altro scopo ostile, Ginevra, 1977).

Gli accordi internazionali di questo tipo, purtroppo, risultano poco efficaci in quanto presentano molte deroghe e criticità. La debolezza del diritto internazionale, risulta essere uno dei principali motivi, per cui l’ambiente naturale, continua ad essere oggetto di devastazione e distruzione, da parte dell’essere umano. Se non verranno poste delle serie limitazioni, il nostro pianeta subirà danni irreversibili, che coinvolgeranno con i loro effetti negativi, anche noi esseri umani.

Procediamo con un semplice sillogismo.

Immaginiamo che due pescatori si trovino su di una barca e che uno di loro intenda affondare il natante per affogare l’altro passeggero ed impossessarsi di tutto il pescato. Il risultato sarà prima di tutto la perdita dell’imbarcazione e del pesce. Poi la possibilità tutt’altro che remota che affoghi anche l’autore del gesto. E così è oggigiorno per il conflitto armato: esso può assumere una valenza così elevata, che siamo tutti sulla “nave Terra” e qualunque distruzione architettata, finirebbe inevitabilmente per distruggere anche noi stessi.