Il 20 e 21 settembre gli italiani saranno chiamati, per la quarta volta nella storia della Repubblica, a esprimersi su una riforma costituzionale. La modifica, fortemente voluta dal Movimento 5 Stelle (M5S), riguarda gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione e riduce di circa un terzo il numero dei parlamentari, portando i deputati da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200.
Originariamente programmato per il 29 marzo ma rimandato causa Covid-19, il referendum sembrava destinato a fare da sfondo alle elezioni regionali. A giugno la partita pareva già chiusa, ma nelle ultime settimane il No, pur senza l’appoggio dei grandi partiti, ha guadagnato terreno. L’ultimo sondaggio di Swg per La7 ha infatti evidenziato che se il 26 giugno il No si attestava al massimo al 18%, il 4 settembre questa percentuale era salita fino al 32%. La partita, dunque, sembra riaperta ed è lecito chiedersi che cosa succederà il 22 settembre, a scrutinio delle schede concluso. La vittoria del Sì e quella del No aprirebbero infatti due scenari diversi.
Scenario 1: vittoria del Sì
Questo resta lo scenario più probabile, vista anche l’impossibilità (per legge) di diffondere nuovi sondaggi nelle due settimane che precedono il voto.
La vittoria del Sì consentirebbe al governo di tirare un sospiro di sollievo, ma non per molto. Il referendum ha infatti dilaniato il PD, che si è schierato per il Sì in ritardo e con poca convinzione, e il segretario Nicola Zingaretti avrebbe appena il tempo di godersi la vittoria prima di dover accelerare sulle richieste dei dem. Dovrà dimostrare di saper fare la voce grossa e portare a casa qualcosa in cambio dell’endorsement alla riforma-bandiera del M5S. Per “qualcosa” si intende i famosi correttivi al taglio, primo tra tutti una nuova legge elettorale proporzionale, e la possibilità per i diciottenni di votare i senatori. Lo spauracchio di un voltafaccia dell’alleato al fotofinish ha spinto i grillini ad accelerare su questi due provvedimenti che, in caso di vittoria del Sì, il PD vorrà vedere definitivamente approvati in tempi brevi.
Quale destino per il Senato?
Il risultato complessivo del taglio e delle successive riforme sarebbe un Parlamento con un Senato ridotto a 200 persone e di fatto specchio della Camera dei deputati. A differenziare le due Camere italiane, infatti, è soltanto una questione anagrafica: per il Senato oggi possono votare gli elettori che hanno superato i 25 anni e possono essere eletti coloro che ne hanno più di 40. Per sua stessa definizione il Senato, che deve il suo nome al latino senex cioè “vecchio”, è la Camera “anziana”. Se anche i diciottenni potranno votare, il Senato perderà, a livello ideologico, la sua ragione di vita. Rimarrebbe l’anzianità degli eletti, dal momento che l’abbassamento da 40 a 25 anni dell’età per entrare in Senato, fortemente voluto da Italia Viva, è stato bocciato, ma sarebbe un’anzianità ormai zoppa. Il taglio dei parlamentari, dunque, potrebbe innescare un domino di riforme nella direzione della revisione del bicameralismo perfetto. Dove nel 2016 Matteo Renzi ha fallito per eccesso di rottamazione e personalizzazione, potrebbe riuscire il governo giallorosso, provvedimento dopo provvedimento, pur senza avere un progetto organico.
Scenario 2: vittoria del No
Difficile, ma non impossibile. Una vittoria del No sarebbe una doccia fredda per il governo e soprattutto per il Movimento 5 stelle che ha fatto di questa riforma il suo ultimo baluardo.
I mal di pancia del M5S
Da quando si sono insediati al governo, nell’estate del 2018, i grillini sono stati travolti dalle regole della politica e hanno abdicato a molte delle loro battaglie storiche: da No Tap, No Tav e No alleanze con i partiti tradizionali a Sì Tap, Sì Tav e governo con due partiti diversi il passo è stato breve e traumatico. La trasformazione da movimento di protesta a forza di governo ha innescato anche un crollo dei consensi, dimezzati in due anni. Finora il M5S ha ottenuto il reddito di cittadinanza, introdotto dal governo gialloverde, ma questo non è abbastanza. Per sperare di riconquistare la pancia del Paese, serve il taglio dei parlamentari. Un fallimento su questo fronte rischierebbe di causare un terremoto interno, esasperando i già forti mal di pancia di alcuni pentastellati che potrebbero tornare a chiedere gli Stati generali, tante volte evocati ma mai organizzati, e chissà se sarebbe la volta buona.
La segreteria scricchiolante del PD
Anche il PD non uscirebbe indenne dalla vittoria del No. Zingaretti è stato il principale sponsor dem del Sì e un esito avverso, unito a un risultato poco brillante alle regionali, potrebbe decapitare la sua segreteria. Di fronte a un’evidente dissonanza tra la linea ufficiale e la base, non è escluso che il segretario venga sostituito. Da settimane i giornali insinuano che Stefano Bonaccini, governatore dell’Emilia-Romagna, sia pronto a subentrare al suo omologo del Lazio. Anche Bonaccini, però, si è schierato per il Sì.
Il destino del governo giallorosso
E il governo? In questi mesi il premier Giuseppe Conte è stato attento a non personalizzare il referendum, per evitare un’uscita di scena alla Renzi, ma negli ultimi giorni qualcosa sembra muoversi. Giancarlo Giorgetti, braccio destro del leader della Lega Matteo Salvini, nel prendere posizione a favore del No ha dichiarato che il Sì sarebbe «un favore al governo». In questa prospettiva, dunque, il No sarebbe funzionale a far cadere il governo Conte bis. L’attuale maggioranza, tuttavia, ha tutto l’interesse a rimanere tale: i grillini sono consapevoli del fatto che in caso di nuove elezioni, inevitabili se l’esecutivo dovesse cadere, i loro numeri sarebbero dimezzati e il PD non ha intenzione di lasciare che sia una maggioranza di centrodestra a trazione sovranista a disporre dei fondi europei del Recovery Fund e a guidare l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica nel 2022. Del resto, Zingaretti metteva le mani avanti già a giugno: «non ci sono alternative» a questo governo.