Studente romano di scienze politiche, appassionato di economia, serie TV, politica, soprattutto statunitense, e scrittura. La fusione delle ultime due ha portato alla collaborazione con il Prosperous Network.

L’8 Aprile 2020, Bernie Sanders ha annunciato la sospensione della sua campagna elettorale. A partire da quel momento, dunque, l’ex Vicepresidente Joe Biden è diventato il candidato presidenziale de-facto del Partito Democratico. La Convention – che doveva tenersi a Milwaukee dal 17 al 20 Agosto, ma potrebbe essere annullata a causa del Coronavirus – certificherà ufficialmente, dunque, una situazione che è già stata definita. Esattamente come nel 2016, l’ex senatore del Vermont conclude in seconda posizione la sua corsa alla nomination democratica. Nonostante la doppia sconfitta – e nonostante il fatto che, questa volta, i risultati siano stati inferiori rispetto a quelli della precedente tornata elettorale – l’impatto di Sanders non può essere in alcun modo sottostimato. Solo cinque anni fa, infatti, egli era un senatore non particolarmente conosciuto, e con idee che differivano di molto dai classici punti di riferimento della sua stessa area politica. Oggi, invece, è una delle figure più influenti dell’arena politica statunitense, ha contribuito in modo rilevante a spostare a sinistra il Partito Democratico su molti temi ed è riuscito a stimolare una forte mobilitazione politica dal basso, soprattutto tra le generazioni più giovani. Per di più, in questi anni ha preso forma un movimento composto da varie organizzazioni che si ispirano alle sue idee,ma hanno un obiettivo più di lungo termine, vale a dire rivoluzionare lo schieramento democratico e, di conseguenza, l’intera sistema politico. Non è detto che questo proposito si realizzi; in ogni caso, a Sanders va riconosciuto il merito di aver sdoganato temi e politiche che, per un lunghissimo periodo di tempo, erano quasi del tutto assenti dal dibattito politico a stelle e strisce.

Joe Biden e Bernie Sanders

Le primarie del 2020

Immaginiamo che questo articolo venga letto da una persona che ha seguito solo le prime due primarie, in Iowa e New Hampshire. Per questa persona, leggere che Joe Biden abbia vinto la nomination democratica – per di più con un vantaggio, al momento del ritiro di Sanders, di 311 superdelegati – potrebbe apparire alquanto strano. L’ex Vicepresidente, infatti, aveva concluso in quarta posizione in Iowa e in quinta posizione in New Hampshire. A un primo sguardo, sembrava che, ancora una volta, la campagna di Biden si sarebbe interrotta presto.
Dopo i primi due appuntamenti, però, la situazione ha iniziato a cambiare: in Nevada, infatti, Biden arriva in seconda posizione. Al tempo stesso, però, Sanders vince ottenendo più del doppio dei voti. Dal South Carolina in poi, però, non ci sarà più storia: Biden inizia a vincere in modo convincente anche in Stati dove era dato per sfavorito (si pensi al Massachusetts e al Minnesota), Sanders non riesce più a tenere il passo. Ovviamente, l’emergenza Coronavirus e la conseguente impossibilità di fare comizi e altre attività elettorali hanno contribuito a spingere Sanders a gettare la spugna con due mesi in anticipo rispetto al 2016. In ogni caso, però, egli non avrebbe potuto rimontare e diventare il candidato presidenziale, anzi: numeri alla mano, infatti, si può affermare che – in diverse occasioni – la sua campagna abbia ottenuto risultati inferiori rispetto a quelli del 2016.

Il sostegno tra le minoranze

Come affermato in precedenza, le primarie sono iniziate con i caucus in Iowa, come da tradizione. Ora, in questa sede non c’è la possibilità di riassumere e analizzare tutte le controversie che hanno circondato quell’appuntamento elettorale. Basti sapere che, secondo i dati (fortemente contestati da molti candidati e analisti) forniti dall’Iowa Democratic Party, Sanders ha vinto il voto popolare, ma ha ottenuto due superdelegati in meno rispetto all’ex sindaco di South Bend (Indiana), Pete Buttigieg. Nonostante questa sconfitta di misura – dal punto di vista dei delegati da mandare alla Convention – sembravano esserci ragioni di ottimismo. In particolare, Sanders ha ottenuto ottimi risultati nei satellite caucuses, ossia un esperimento particolare, pensato per chi non può prendere parte ai classici caucus (ad esempio, perché non parlano inglese, o perché lavorano di notte, dato che di solito l’orario di apertura dei caucus in Iowa è alle 19.00). Tra i molti candidati che si sono presentati in Iowa, Sanders ha svolto il lavoro più capillare di volantinaggio e coinvolgimento dei gruppi che solitamente non prendono parte a queste ricorrenze elettorali, in particolare lavoratori di recente immigrazione (come, ad esempio, le comunità etiopi e bhutanesi).

Nel paragrafo precedente, si è posto l’accento su alcuni gruppi di migranti perché, secondo molti analisti, uno degli handicap della campagna di Sanders del 2016 era rappresentato dallo scarso appeal nei confronti delle minoranze. Indubbiamente, in questa nuova campagna, il senatore del Vermont ha cercato estensivamente di risolvere questo problema, e sembrava poterci riuscire, almeno in parte. Oltre al targeting specifico – come avvenuto in Iowa – Sanders poteva contare sul supporto di congressiste come Alexandria Ocasio-Cortez (D – NY), la quale l’ha accompagnato in molti comizi.

Alexandria Ocasio-Cortez e Bernie Sanders durante un comizio

Tra le varie minoranze che – in misura sempre maggiore – caratterizzano la società americana, Sanders poteva fare affidamento soprattutto sulla comunità latinoamericana (anche se non nella sua interezza, si pensi ad alcune parti della comunità cubana). Effettivamente, i dati sembrano aver confermato questa tendenza: in Nevada e California ha vinto il 50% del voto ispanico, mentre in Texas il 39%. Inoltre, i dati sono ancora più netti se divisi per fasce di età, con le generazioni più giovani che hanno scelto di gran lunga il senatore del Vermont. Questo supporto è molto importante, soprattutto perché – a differenza dei bianchi e degli afroamericani – l’elettorato ispanico tende a essere particolarmente giovane: secondo i dati di FiveThirtyEight, la metà degli elettori latinoamericani in queste primarie aveva meno di 45 anni (tra i bianchi e gli afroamericani questo numero scende, rispettivamente, al 33% e 29%).

Il poco appeal nella comunità afroamericana

Purtroppo per lui, però, il successo ottenuto con gli ispanici – non scontato, dato che questo gruppo nel 2016 aveva preferito Hillary Clinton – non è stato replicato anche con gli afroamericani. Qui, la prima differenza è quella (sopracitata) dell’età: Joe Biden, infatti, è più popolare tra le fasce di età più avanzate, e l’età media piuttosto alta degli afroamericani che hanno votato in queste primarie lo ha certamente avvantaggiato. In ogni caso, l’ex Vicepresidente ha vinto in tutte le fasce di età di elettori afroamericani, tranne che in quelli sotto i 30 anni. Quindi, l’età è un fattore, ma non spiega tutto. Per capire la differenza tra latinoamericani e afroamericani, bisogna considerare anche altri elementi. Innanzitutto – e questo è ovvio – Biden è stato il vice di Barack Obama per otto anni, il che ovviamente lo aiuta (peraltro, l’aver fatto parte dell’amministrazione Obama può averlo danneggiato tra alcuni gruppi ispanici, data la politica di espulsioni e deportazioni attuata dal 2009 al 2016. Questo sembrerebbe confermato dalle varie proteste inscenate da gruppi come il Movimiento Cosecha durante i dibattiti presidenziali).
Inoltre, gli afroamericani – rispetto a bianchi e ispanici – sono più propensi a supportare candidati dell’establishment e meno propensi a definirsi liberal. Entrambi i fattori aiutano Biden e danneggiano Sanders (che è stato iscritto al Partito Democratico solo durante le due campagne presidenziali). Il sostegno ai membri dell’establishment è connesso con la storia della comunità: innanzitutto, molti leader della comunità afroamericana sono parte dell’establishment del Partito Democratico. Inoltre, considerando le politiche spesso adottate dal Partito Repubblicano, gli afroamericani hanno visto nel Partito Democratico l’unico mezzo attraverso il quale far valere i loro diritti e le loro aspirazioni. Un altro elemento da considerare è che, rispetto a molti altri gruppi, gli elettori afroamericani si sono spesso distinti per il loro pragmatismo: dal loro punto di vista, la rielezione di Donald Trump è un evento particolarmente dannoso. Per questo motivo, il loro focus è sull’evitare che questo accada, e ritengono che Joe Biden sia la scelta più sicura. Ciò contribuisce a spiegare il dilemma secondo il quale la comunità che più beneficerebbe del Medicare for All abbia deciso di sostenere un candidato più moderato.

La sconfitta di Sanders tra gli afroamericani, dunque, si può spiegare combinando i sopracitati fattori. A questo proposito, l’esempio del South Carolina è particolarmente propizio. In questo stato, infatti, la parola del Rappresentante del Congresso Jim Clyburn ha un peso particolare, soprattutto nella comunità afroamericana. Per questo motivo, il suo endorsement nei confronti di Joe Biden ha contribuito molto a garantire all’ex Vicepresidente non solo una vittoria, ma un successo con ampio margine. Per di più, si è trattato della prima vittoria in assoluto di Biden in una campagna presidenziale, e ha contribuito molto a rilanciare la sua candidatura, che era messa in discussione non solo da Sanders, ma anche da altri candidati moderati, tra cui Pete Buttigieg, la senatrice del Minnesota Amy Klobuchar e il miliardario ex sindaco di New York, Michael Bloomberg.

Jim Clyburn e Joe Biden

Ovviamente, questo non può essere applicato a tutti e 50 gli Stati, dato che le comunità afroamericane – come è prevedibile immaginare – differiscono in modo sensibile tra di loro. Ad esempio, negli Stati del Sud, il sostegno afroamericano a Biden ha oscillato tra il 58% e il 72%, mentre questo numero è sceso al 33% in aree più liberal come la California e il Massachusetts. In generale, però, il successo di Biden si basa molto su questa comunità: in almeno 9 Stati, infatti, egli ha ottenuto un supporto – in percentuale inferiore tra i bianchi piuttosto che tra gli afroamericani.

Sanders e l’establishment

Un altro elemento della sconfitta di Sanders può essere rintracciato nella sua estraneità al partito, come è stato mostrato dal basso numero di endorsement ricevuti. Inoltre, quando la dirigenza del partito ha capito che era arrivato il momento decisivo, il campo moderato si è immediatamente compattato attorno a Joe Biden: il 3 Marzo era il giorno del Super Tuesday, ossia il giorno in cui si svolgevano le primarie in ben 14 Stati, tra cui Texas e California, che assegnano il maggior numero di superdelegati. Ebbene, il 1 Marzo è arrivato il ritiro di Buttigieg; poco dopo, anche la Klobuchar ha preso la stessa decisione. Immediatamente, entrambi hanno fatto il loro endorsement a Biden e hanno preso parte a un comizio elettorale pre-super Tuesday. Per di più, a loro si è aggiunto anche l’ex rappresentante del Texas Beto O’Rourke, ritiratosi mesi prima. Come conseguenza, Biden ha vinto 10 Stati su 14. Inoltre, dopo il fallimentare risultato nel fatidico appuntamento, il 4 Marzo Bloomberg ha deciso di ritirarsi e ha espresso il sostegno a Biden.

Amy Klobuchar durante un comizio di Joe Biden in Texas

La perdita della white working class

Infine, e questo ci permette di ricollegarci all’introduzione, Sanders ha perso parte del sostegno che aveva ricevuto nel 2016. Uno degli esempi più lampanti, da questo punto di vista, è il fatto che in Vermont – il suo Stato – abbia perso ben 30.000 voti rispetto a 4 anni prima. In generale, Sanders non è riuscito a riconfermare la sua popolarità nelle aree rurali e tra la classe lavoratrice bianca. Questo elemento è un duro colpo per la narrativa che il senatore del Vermont ha impostato negli ultimi anni, ossia che l’establishment democratico aveva dimenticato i blue collar e che lui, grazie al suo messaggio, era l’unico in grado di strappare questa classe sociale a Donald Trump. Eppure, i dati mostrano una realtà diversa. Prendiamo in considerazione, ad esempio, il Michigan, uno degli Stati dove questa dinamica sarebbe dovuta essere più evidente. Eppure, Biden non solo ha vinto facilmente, ma ha anche ottenuto un supporto molto maggiore tra i bianchi non laureati. Ad esempio, nella contea di Mackinac, nel 2016 Sanders aveva ottenuto il 55%, mentre nel 2020 ha ottenuto il 35% e perso di 20 punti rispetto a Biden. Nella Contea di Gogebic, dove aveva vinto di 7 punti rispetto a Hillary Clinton, ha perso di 30 punti rispetto a Biden. Il dato della sconfitta diventa ancora più pesante se si considerano, nel complesso, i sei Stati che hanno votato il 10 Marzo: Arizona, Florida, Illinois, Michigan, Mississippi e Missouri. Nel 2016, Sanders aveva vinto la metà delle contee in questi stati. Nel 2020, ne ha vinte solamente 3. Considerando le aree rurali di Illinois e Florida, la differenza rispetto a quattro anni fa è davvero considerevole. Infine, un altro dato rappresenta il calo del supporto nelle aree rurali: nella contea rurale di Lassen (California), nel 2016 aveva ottenuto 1.023 voti; nel 2020 ne ha ottenuti 255, ed è stato sconfitto da Biden.

Immagine presa da FiveThirtyEight

Quali sono le ragioni di questo forte calo di supporto all’interno della comunità bianca rurale? I motivi sono sicuramente molti. Innanzitutto, Joe Biden non è Hillary Clinton. Tecnicamente, entrambi sono membri dell’establishment democratico e sono a Washington da decenni. Nonostante questo, Biden ha come punto di forza – dal punto di vista dell’immagine – la sua affabilità e la sua dichiarata sintonia con l’idealtipo dell’americano medio, con quello che lavora duramente il giorno, ama la sua famiglia, va a Messa la domenica e mangia nei diner. Per questo motivo, egli non è inviso a questo segmento della popolazione come lo era la Clinton, anzi. Inoltre, nel tentativo di ampliare la sua base elettorale, Sanders potrebbe aver veicolato un messaggio meno attraente per i blue collar. Ad esempio, il suo forte sostegno tra gli ispanici riflette – tra gli altri fattori – una politica migratoria progressista, ben poco popolare nelle zone rurali.

L’effetto Sanders

Molto probabilmente, Bernie Sanders non sarà mai Presidente. Si è candidato due volte, e ha perso entrambe le volte, e la seconda volta in modo più netto della prima. Non bisogna, però, commettere l’errore di sottovalutare l’impatto da lui esercitato sul Partito Democratico e sul dibattito politico. Il 23 Marzo 2010 – dopo una durissima battaglia congressuale e mediatica – Barack Obama apponeva la firma sull’Affordable Care Act (noto come Obamacare), rendendo finalmente legge la riforma sanitaria. Il Partito Repubblicano – e, in generale, il mondo conservatore – aveva cercato in tutti i modi di bloccarne l’approvazione, descrivendo la misura come comunista. In realtà, questa riforma non era certamente radicale. Basi pensare che era molto simile alla riforma varata nel 2006 in Massachusetts. Governatore dell’epoca, nonché sostenitore del piano? Mitt Romney. Per di più, il programma di Romney si basava sulle proposte dell’Heritage Foundation, un think-tank conservatore.

Barack Obama pone la firma sull’Affordable Care Act

Oggi, la proposta di Barack Obama sarebbe vista come “a destra” rispetto al mainstream democratico. In generale, inoltre, tutta la piattaforma programmatica dell’ex POTUS può essere considerata più moderata rispetto a quella di tutti i candidati. Lo stesso Joe Biden, oggi, propone un programma di stampo più progressista. Buona parte del merito di un cambio così repentino va attribuita a Sanders e alla sua capacità di rendere mainstream temi che – fino a poco tempo fa- erano ritenuti così radicali da essere sostanzialmente assenti dal dibattito politico.

#NotMeUs

Inoltre, non va dimenticata la capacità di Sanders di ottenere molto sostegno tra le generazioni più giovani. Persiste, peraltro, il problema di trasformare questo attivismo in partecipazione elettorale, dato che nelle primarie del 2020 il tasso di partecipazione dei giovani è stato inferiore rispetto a quello di quattro anni prima. Tuttavia, la presenza di uno zoccolo duro di supporter è innegabile, ed è una buona base sulla quale costruire un movimento politico (il quale, naturalmente, dovrà cercare di attrarre ancora più persone). Fino a ora, la forza di questo movimento è stata vista nei comizi e sui social (i quali, come mostrato dai risultati di queste primarie, non sono uno specchio fedele della società statunitense). Genericamente, possiamo identificarli con coloro che si riconoscono nel principio di #NotMeUs e in organizzazioni come Democratic Socialists of America e Justice Democrats. Come spesso ripetuto da molte parti – tra cui, ad esempio, lo stratega politico Peter Daou – #NotMeUs non è il movimento di Sanders, ma è un movimento che si riconosce in quegli ideali e sostiene tutti i candidati (tra cui ovviamente Sanders) che li condividono.

Le prospettive del movimento progressista

Quanto affermato alla fine del precedente paragrafo rappresenta la prossima sfida di questo movimento progressista: entrare nelle istituzioni politiche, vale a dire il modo più efficace per dare concreta applicazione ai principi nei quali si riconoscono. Alcuni esempi di congressisti appartenenti a questo mondo sono già presenti, e sono abbastanza famosi: oltre alla citata Alexandria Ocasio-Cortez, possiamo citare Rashida Tlaib (D-MI) e Ilhan Omar (D-MN). Per ora, la strategia sembra quella di sostenere candidati che competono in distretti ampiamente controllati dal Partito Democratico, cercando di scalzare democratici più moderati. I risultati, fino ad ora, sono misti: dei 16 candidati al Congresso sostenuti – nel 2018 – dai Democratic Socialists of America, solo le tre sopracitate Rappresentanti sono state elette. Inoltre, poche settimane fa diversi candidati progressisti non hanno sconfitto – nelle primarie democratiche per il 28° Distretto del Texas – il (molto) moderato Henry Cuellar. D’altro canto, Marie Newman (supportata dall’organizzazione Justice Democrats) ha sconfitto il quasi-conservatore Dan Lipinski nelle primarie per il 3° distretto dell’Illinois.

Manifesto dell’organizzazione Justice Democrats contro Henry Cuellar, il quale è comunque riuscito a vincere le primarie

Dopo essere eletti, lo step successivo è quello di inserirsi con successo nell’arena politica statunitense e riuscire a far affermare alcune delle proprie idee. Per riuscirci, è necessario fare dei compromessi a cooperare con l’ala più istituzionale del proprio partito. Dopo la sua vittoria nel 2018, Alexandria Ocasio-Cortez aveva incoraggiato – assieme a Justice Democrats – i progressisti a sfidare i membri moderati del Partito Democratico. Ora, la situazione sembra cambiata: tra i 6 candidati sostenuti da Justice Democrats, AOC ha supportato solo le due sfidanti di Cuellar e Lipinski, entrambi anti-abortisti. Questa scelta sembra essere coerente con la sua strategia degli ultimi mesi: ha sostituito alcuni membri radicali del suo staff con politici più di esperienza; ha iniziato a cooperare di più con Nancy Pelosi (la quale è molto criticata dagli ambienti progressisti e sarà sfidata, a Novembre, da Shahid Bhuttar, anche se le chance di upset sono ridotte al minimo); si sta concentrando maggiormente sul sostegno a candidati che sfidano un incumbent Repubblicano (anche perché, ora, lei lavora assieme ai democratici che vengono sfidati dai progressisti, e supportare chi li vuole rimuovere comporta dei costi politici).

Ovviamente, non si vuole sostenere che AOC sia diventata un membro dell’establishment. Semplicemente, sta adottando la strategia che ritiene migliore: non andare allo scontro totale, cooperare e cercare di affermare le proprie idee proprio grazie alle dinamiche di cooperazione instaurate. Ricordando, sempre, che l’ascesa della Ocasio-Cortez (e di altri progressisti) è dovuta in gran parte a Bernard Sanders, senatore del Vermont.