È il quindici luglio del 1975 e un appartamento di Ottensen, un quartiere del distretto di Altona, nella città di Amburgo, prende fuoco. Una macabra sorpresa sorprenderà i pompieri intervenuti per spegnere l’incendio: il corpo di una donna impacchettato in una busta di plastica. Nell’appartamento vive un certo Fritz Honka, il quale verrà arrestato dalla polizia senza esitazione. Egli confessa gli omicidi di ben quattro donne, avvenuti tra il 1970 ed il 1975. Pur ammettendo, successivamente di non ricordare, verrà condannato a quindici anni di ospedale psichiatrico. Le donne venivano adescate in un locale chiamato “Der Goldene Handschuh” (titolo originale del film), un luogo frequentato principalmente da alcolizzati ed emarginati di qualsiasi età. Honka le faceva bere e le conduceva nel proprio appartamento, per poi picchiarle e costringerle a fare sesso con lui. Se opponevano resistenza le strangolava e le faceva a pezzi, nascondendole in uno stanzino.
È questo il materiale da cui parte Fatih Akin per ritrarre la macabra decadenza dei luoghi in cui il killer si muove, osserva, focalizza e poi agisce. Come un animale solitario ed affamato, vaga nello squallore dei quartieri di Amburgo, alla ricerca di alcol e di donne sulle quali sfogare la propria frustrazione. Akin predilige il dettaglio, i primi piani e gli interni, tutti aspetti che non fanno altro che accentuare la mostruosità del protagonista. Ed è in questo modo che, partendo dai primi piani sul deforme volto di Honka (interpretato da un magistrale Jonas Dassler), il regista tedesco sposta l’attenzione negli interni claustrofobici dove vengono adescate (il locale) e poi uccise (l’appartamento) le vittime.
Ogni singolo fotogramma odora di carne in putrefazione, l’immagine diventa riflesso del male che, nella sua banalità, disintegra i corpi (già morenti) di donne deboli, vecchie, obese, ex prostitute ed alcolizzate che già sono state sconfitte dalla vita e ora si trovano ai margini della società, non di certo come le pin up in fotografia che ricoprono le pareti del suo appartamento. Akin è abile nel tratteggiare psicologicamente il suo “mostro”, mettendone in scena le ossessioni e le contraddizioni, muovendosi tra il grottesco e l’orrore, ma senza cadere mai in futili banalità e falsi moralismi, proprio perché l’immagine perde la sua moralità, mostrando in modo nudo e crudo quelle che sono le azioni di Honka senza nessuna pietà.
Akin non sembra chiedersi le cause e le origini che possano spingere un individuo a tanta efferatezza, infatti il passato di Honka resta sfumato in secondo piano, senza mai emergere effettivamente. Forse quello che il regista cerca è una traccia di umanità e di empatia all’interno del processo di degradazione di un uomo, attraverso uno sguardo diverso e complesso capace di sviscerare l’animo umano nella sua solitudine e nella sua perversione. Il film costringe lo spettatore a sedersi vicino a Fritz, tra disgusto, odio, fastidio e disprezzo. Se in questo contesto possa sussistere o meno un seme di pietà resta una domanda la cui risposta viene affidata allo spettatore.
Non manca di certo, così come in ogni opera del regista tedesco, uno sguardo rivolto alla società, in questo caso alla Germania Ovest nella piena fase di ripresa economica, indagandone, almeno nelle intenzioni, gli aspetti più “oscuri”. Sono passati venticinque anni dalla fine della guerra, eppure certi traumi sembrano irrisolti e le ferite ancora aperte. Honka è una vittima della politica e della società oppure un uomo schiavo delle proprie ossessioni? O vittima di entrambi gli aspetti?
È possibile che in una fase di ripresa economica esistano persone che vivono ai margini più totali della società?
Sono questi gli aspetti che Akin, pur nelle sue nobili intenzioni, lascia in sospeso. Essi sono anche il vero punto debole di un film coraggioso, ambizioso e mai banale, ingiustamente sottovalutato.