Laureato in filosofia presso l’università degli studi di Genova, dove frequento la magistrale in metodologie filosofiche. Appassionato, ovviamente, di filosofia, soprattutto nel suo versante etico, politico e sociologico.

Da martire ad enfant prodige

Nel 2009 il giovanissimo Xavier Dolan, appena vent’enne, aveva già alle spalle una breve carriera da interprete di spot pubblicitari e di serie TV, intrapresa fin da quando era bambino. Grazie al bellissimo Martyrs (2008) di Pascal Laugier, nel quale interpreta il ruolo di Antoine, viene conosciuto dal grande pubblico. Sempre nello stesso anno inizia la produzione di J’ai tué ma mère, il suo primo lungometraggio, basato su una sceneggiatura semi-autobiografica che Dolan compose all’età di sedici anni. Il film venne presentato al Festival di Cannes 2009 per la Quinzaine des Réalizateurs, dove vinse ben tre premi: Premio Art Cinéma, Premio SACD e Premio Regards Jeunes. Inizia così la carriera dell’enfant prodige del cinema canadese.

Sinossi

Hubert Minel (Xavier Dolan) è un adolescente difficile di sedici anni che vive nella periferia di Montréal con la madre Chantale (Anne Dorval) la quale, dopo aver divorziato dal marito, il padre di Hubert, si ritrova a dover affrontare i turbamenti e le inquietudini del figlio, atteggiamenti tipici di questa “stagione della vita”.

Hubert nasconde la propria omosessualità alla madre e ammette di odiarla, la accusa di non amarlo abbastanza e la critica in ogni decisione. Una mattina, dopo una profonda lite tra i due, Hubert finge con la propria insegnante, la signora Cloutier (Suzanne Clément), che sua madre sia morta. A partire da questa affermazione cresce la conflittualità tra i due, alimentata inoltre dal momento in cui Chantale viene a conoscenza della relazione del figlio con Antonin (François Arnaud), quello che fino a quel momento aveva considerato un semplice amico.

La difficoltà di essere sé stessi

Il conflitto tra madre e figlio è, almeno a partire dal novecento, grazie agli studi intrapresi dalla psicoanalisi freudiana, oggetto di grande fascino e di diverse interpretazioni. Tuttavia, discostandosi dal determinismo psicoanalitico, Dolan sembra più interessato ad un altro periodo della vita, ovvero all’adolescenza, quel percorso esistenziale complesso che segna il passaggio dall’immagine di sé al concetto di sé, e quindi a quel processo di desatellizzazione rispetto alle figure genitoriali e di urgente autoaffermazione del proprio nel mondo.

Non a caso la camera di Hubert è circondata da poster di James Dean e di River Phoenix, simboli di quella ribellione bella e dannata che aveva messo in crisi i valori della famiglia tradizionale, e dei quali il nostro protagonista sembra sentirsi erede legittimo, tanto da “uccidere la propria madre”. Hubert si chiede se sia “paradossale avere una madre e non amarla” e come mai non “possa essere come tutti gli altri che dicono di avere madri pallose, però le amano”. Troppe domande a cui (forse) non è possibile trovare una risposta.

Hubert trova quindi consolazione in figure a lui vicine, ed in particolare ottiene comprensione dalla signora Cloutier, una donna sensibile e profondamente sola, afflitta da un pessimo rapporto con il padre che non vede da anni. Affascinata dalla sensibilità del ragazzo, decide di aiutarlo a dare forma ai propri sentimenti contrastanti.

La figura di Chantale è indubbiamente la più affascinante del film, grazie ad una interpretazione straordinaria di Anne Dorval, la quale riesce a caricare il suo personaggio di diverse sfumature emotive. Chantale è infatti una madre con un matrimonio fallito alle spalle, un figlio cresciuto da sola ed un’infanzia segnata da un rapporto difficile con i genitori. Forse consapevole di non essere una madre abbastanza comprensiva, reprime il proprio dolore di un passato difficile e di un presente segnato dal pessimo rapporto con i figlio. Repressione che esploderà nel climax finale in cui, in seguito alla fuga di Hubert dal collegio, litiga con il direttore che suggerisce nella famiglia una figura di riferimento maschile per il ragazzo.

Dolan si dimostra abilissimo a penetrare nella psicologia dei suoi protagonisti, con l’intento di conoscere a fondo i loro sentimenti più nascosti e, attraverso l’immagine, a farli emergere.

Una profonda urgenza creativa

Se da un punto di vista tematico prevale quell’esigenza di autoaffermazione del proprio nel mondo, lo stesso si può dire analizzando l’opera da un punto di vista stilistico. Ciò che si percepisce, sin dalle primissime inquadrature, in cui si alternano décadrages, primissimi piani, dettagli, effetti rallenty e lunghi piani sequenza, è una profonda urgenza creativa. La lezione che arriva direttamente dalla Nouvelle Vague, dalla quale Dolan attingerà anche nelle successive opere (la sequenza finale di Mommy non ricorda forse quella de I Quattrocento Colpi di Trauffaut?), è sinonimo di un regista dalla marcata autorialità e che oggi, a dieci anni dalla sua opera prima, abbiamo imparato a conoscere, senza mai smettere di provare stupore.