Laureato in Storia e critica del cinema, studia Informazione ed Editoria presso l'Università di Genova. Appassionato di tutto ciò che riguarda l'audiovisivo e la parola scritta.

Bright and witty and aware

“Must be lonesome, being bright and witty and aware” scriveva Lenny Bruce nella sua bellissima autobiografia. Quella frase l’avrà pensata pure Filippo Giardina mentre nel 2001, quando era ancora un comico esordiente ma già innovatore, combatteva contro un mondo cabarettistico diviso tra Zelig, Colorado e Maurizio Crozza, un universo chiuso e impermeabile alle novità. C’era bisogno di un’entità comica nuova, che si ponesse come alternativa alla banalità; e chi poteva fondarla se non lui? Così nel 2009 nasceva Satiriasi, progetto di “importazione” della standup comedy d’oltreoceano in Italia. Trascorsi quasi dieci anni, Filippo Giardina ha continuato ad andare avanti ed a togliersi soddisfazioni. Lunedì 5 novembre pubblicherà online gratuitamente il suo penultimo special, Contumelie. Prosperous Network ha avuto la fortuna di poter scambiare qualche parola con lui su temi come comicità, società e politica.

L’Intervista

Nel 2009 nasceva Satiriasi. Dopo quasi 10 anni a che punto è la rivoluzione della comicità italiana?

Già alla prima domanda si apre un mondo, perché da una parte la rivoluzione è compiuta, dall’altra è messa malissimo. Mi spiego meglio, aprendo una premessa: Satiriasi nasce perché dal 2001 facevo monologhi nel contesto sbagliato. Dopo otto anni quindi ho deciso di mettere in piedi un luogo dove ci fosse in primis gente disposta ad ascoltare. Questo perché, con il boom degli anni precedenti da una parte di Zelig e dell’altra della satira impegnata antiberlusconiana, era come se non ci fosse pubblico. La comicità alla Zelig si faceva ovunque, dalle sagre alle convention, la satira antiberlusconiana invece prevedeva un ascolto quasi liturgico-religioso da parte di un pubblico che andava a vedere i comici della contro-informazione. Dunque, che si andasse a sentire “Berlusconi è un bastardo” o un’accozzaglia di banalità su suocere, Ikea o assorbenti con le ali, si era tradito il senso dei live.

La mia idea era di riportare lo spettacolo comico a qualcuno che sale sul palco cercando di dire qualcosa ad un pubblico che ascolta e giudica. Data la difficoltà di esistenza di un’operazione del genere nel contesto italiano, ho condito la creazione di Satiriasi di un contesto epico, quasi in un’operazione di marketing: “portare la standup comedy in Italia” è un equivoco consapevole, con l’obbiettivo di smuovere qualcosa. Satiriasi si chiamava L’Officina della Satira proprio perché quello era semplicemente. Il manifesto di regole artistiche che scrissi, accettato da tutte le persone che hanno partecipato, era soltanto una scusa per esistere in un momento in cui era impossibile farlo. Non c’erano palchi dove uno potesse andare a dire tutto quello che gli andava, per via di un’autocensura dei comici e del sistema comicità stesso: in una sagra non si poteva parlare male di Dio, così come in altri contesti non si poteva criticare neanche lievemente le forme più estremizzate dell’antiberlusconismo.

Questa prima rivoluzione è vinta. Oggi un ragazzo mediamente istruito, che abbia punti di riferimento stranieri come Louis CK o Bill Hicks o abbia visto live qualche italiano, non riderebbe delle cose per cui si rideva vent’anni fa. I tempi di cambiamento della cultura sono ovviamente lenti, ma questa prima missione ha avuto successo. Ciò anche perché insieme alla comicità è cambiata la società: la generazione degli attuali ventenni ha problemi diversi dalla suocera o dal matrimonio, problemi quali non avere pensione o futuro. La comicità si deve adeguare, deve essere uno strumento capace di raccontare i tempi, a volte di anticiparli, non può limitarsi a confermare i luoghi comuni.

Come dicevo inizialmente, l’altro lato della medaglia è rappresentato dalla tragedia di internet, che ha dato a tutti la possibilità di avere un palco. Emblematica è la recente questione legata alla vicenda della maglietta “Auschwitzland” in questo senso. La satira storicamente è sempre stata fatta da poche persone, non c’è mai stata un’esplosione di autori satirici; prima di tutto perché è difficile da fare, poi perché non ha mai incontrato una popolarità larghissima data la sua natura divisiva. L’eccezionalità dell’avvento dei social network ha fatto sì che tantissime persone, armate esclusivamente di narcisismo, si siano autodefinite autori satirici, pur non avendo nessun tipo di confronto diretto con il pubblico pagante. È da qui passa un snodo fondamentale: la satira, in tutte le sue forme, dal monologo al film, presuppone l’acquisto di un biglietto da parte di un interessato. Non è un caso che un giornaletto satirico come Charlie Hebdo, che in Francia era acquistato dagli appassionati, abbia creato scandalo una volta arrivato su Facebook. La satira non può essere gratuita.

Oggi purtroppo tanti giovani comici o aspiranti tali si avvicinano al mestiere con le idee totalmente sbagliate. Alle serate OpenMic mi capita di sentire battute su cose atroci come stupri senza che dietro di esse ci sia un minimo pensiero. In questo senso siamo lontanissimi dalla rivoluzione.

Hai esordito nel 2001 con Scusate ma oggi vomito: in quel momento il comico televisivo di riferimento era Daniele Luttazzi. Oggi, l’unico che riesce ad avere buoni ascolti ogni settimana è Maurizio Crozza. Nel passaggio tra i due non credi si sia perso qualcosa del fare davvero satira in tv?

Assolutamente sì, ma si è perso molto di più della satira nel corso di questi anni in Italia. Luttazzi con Satyricon, una sorta di adattamento del Late Show all’americana, ha dato inizio a tutto. Poi, all’interno di questo stesso show, ha fatto una cosa che non so se sarebbe mai successa da David Letterman: ha intervistato Marco Travaglio in un modo puramente giornalistico, causando lo scompiglio che avrebbe portato all’editto bulgaro. In quel momento è nato un equivoco, un comico è diventato una figura da difendere in nome della contro-informazione, parola senza senso se accostata al nostro mestiere. Come dicevo prima, si è creato un pubblico quasi religioso, che andava a vedere spettacoli per sentirsi dire la verità.

Parallelamente è stato l’inizio della fine del giornalismo, Travaglio è diventato il primo giornalista-soubrette. Quando uno che fa il suo lavoro diventa così famoso c’è qualcosa che non funziona, perché ad esempio il tanto citato Enzo Biagi non era una star, non aveva lo stesso seguito di massa se non per via della sua trasmissione televisiva. Ciò ha creato una serie di problematiche enormi; a mio avviso il Movimento Cinque Stelle nasce anche da qui, da quel 2001. La satira antiberlusconiana e il giornalismo di Travaglio hanno creato un elettorato di gente che crede di avere sempre ragione. Da lì è partito anche quel fenomeno per cui i magistrati, da nemici, sono diventati gli idoli di una certa sinistra…

Il fenomeno dei magistrati-star forse è precedente al 2001, mi riferisco in modo particolare a Di Pietro e ai cori da stadio a suo favore nelle piazze durante il periodo di Tangentopoli.

Certo, però poi, come sempre accade, quando anche la cultura si piega la situazione peggiora. Un giornalista-star è come se in qualche misura manipolasse il suo pubblico; quando il nostro cantante preferito stona non ce ne accorgiamo. E se per i magistrati esiste una struttura istituzionale che limita le possibilità di azione, personaggi come Travaglio possono essere causa di trasmissione e radicamento di un pensiero unico.

Quello che si riscontra nell’elettorato Cinque Stelle, come ti dicevo, è l’assoluta certezza di avere ragione in ogni situazione. Manca totalmente la possibilità di mettersi in discussione, problema che, ricollegandoci, è comune alla satira: se io provassi a fermare un tuo coetaneo deciso a fare una battuta su Desirée, la ragazza recentemente uccisa, per il semplice motivo che questo ragazzo manca totalmente di un pensiero elaborato alla base della vicenda, mi sentirei recriminare che “la satira deve poter ridere di tutto”. Ma questa è una risposta preconfezionata. La satira deve essere uno spunto di riflessione, in primis per l’autore stesso. Oggi paradossalmente abbiamo il problema dei fascisti di sinistra.

Luttazzi nei primi anni 2000 diceva di preferire la televisione ai live perché grazie a Satyricon poteva raggiungere un numero di spettatori infinitamente più grande. Sei d’accordo con questa visione?

Ci sono da fare delle distinzioni: un conto è voler avere pubblico per via di quel sano (o malsano) narcisismo dell’artista intenzionato ad arrivare a più gente possibile, un altro è la necessità di trovare persone. Nel mio caso, se non avessi aperto la mia pagina Facebook tre anni fa, avrei fatto sinceramente fatica a lavorare. Una cosa è il desiderio di allargare, un’altra è la necessità di esistere insomma. Se avessi una mailing list di cinquantamila persone chiuderei sia Facebook che Instagram e mi sentirei una persona migliore, un uomo più libero.

Visto che come dicevo il mondo culturale sta collassando, lunedì pubblicherò gratis online il mio penultimo spettacolo. All’estero quando l’uscita di uno speciale comico ha una certa importanza, qui non frega un cazzo a nessuno. La realtà culturale è seriamente complessa, forse non solo la nostra, basti vedere chi ha vinto le elezioni in Brasile o chi governa negli USA. Ho sempre collegato questa fascistizzazione del mondo all’avvento dei social network, a tal proposito ha fatto un approfondimento interessante la puntata di Presa Diretta “Iperconnessi”.

Ti racconto un aneddoto: da circa due anni propongo un programma chiamato Sesto Potere, un’inchiesta satirica a puntate. Chiamo un delegato televisivo che conoscevo, parlandogli della cosa come un prodotto a metà tra Louis CK e Michael Moore. La risposta di questo personaggio importante per la televisione italiana è stata: “Tra Moore e CK? Quindi è una cosa seria? Ci metti il demenziale dei tuoi monologhi?”.

Quando gli interlocutori sono così impreparati è una lotta continua perfino per la sola esistenza artistica.

In Lo ha già detto Gesù, il tuo ultimo live, racconti di come la trasgressione insita nei tuoi pezzi sia stato uno dei motivi per cui sei stato prima richiesto dalla trasmissione Rai Sbandati e poi parzialmente rifiutato…

No, non direi rifiutato. Ero stato chiamato per fare monologhi di argomento televisivo. Nonostante le mie perplessità (non guardo molta televisione), sono stato rassicurato. Mi è stato anzi anche chiesto di fare l’autore di questo programma. A pochi giorni dall’inizio delle riprese mi è stato tolto lo spazio di monologhista, ma non quello di autore e “opinionista”, se così si può dire.

Devo dire che però in questa situazione è stata anche un po’ colpa mia; avendo iniziato nel 2001 ho raggiunto un livello di libertà espressiva molto alto che mal si sposa con un certo tipo di televisione. D’altra parte non credo che sia un problema dell’Italia, non penso che negli altri paesi si possa andare in onda in prima serata a dire atrocità. Da questo punto di vista l’America è molto più bigotta del nostro paese, lì semplicemente ci sono canali tematici che garantiscono un altro tipo di libertà. Anche qui si torna ad un punto precedente: la satira va scelta, non imposta.

Quello che intendevo è che trovo la vecchia televisione sia contemporaneamente impaurita e affascinata da questo nuovo tipo di comicità. Secondo te come mai? Mi ha stupito da questo punto di vista il trattamento riservato da Le Iene a Giorgio Montanini, chiamato per tre puntata e poi sostituito.

Credo sia normale la fascinazione verso il cambiamento. Negli Anni Ottanta è arrivata la televisione a colori e insieme ad essa Drive-In. Ci si sarebbe potuti opporre a questa novità, ma si intuiva che il mondo sarebbe andato in quella direzione.  Oggi sta accadendo un fenomeno simile. Attualmente se si volesse fare un programma comico (e difatti non se ne fanno) sarebbe necessario andare a pescare in una certa area di interesse, anche per cercare di catturare l’attenzione dei giovani.

Per quanto riguarda Montanini, ma più in generale i molti che hanno avuto opportunità sul piccolo schermo, mi sembra che un esame di coscienza sia necessario, quantomeno per capire cosa davvero hanno portato in televisione. Perché altrimenti parlare di censura o lamentarsi dei produttori tv che vogliono la merda diventa molto auto-assolutorio. Se fossero stati portati prodotti qualitativamente migliori la situazione sarebbe a sua volta migliorata.

Nel manifesto di Satiriasi ci sono un insieme di regole che servono a differenziare voi dal resto della comicità italiana. Negli Stati Uniti però la concezione di standup comedian è larghissima; basti pensare che comici come Dana Carvey, Adam Sandler o Jimmy Fallon sono considerati esponenti della categoria. La posizione aggressiva di voi comedians è ancora necessaria?

Assolutamente no. Come ti ho detto all’inizio quello del manifesto è stato un escamotage di marketing e devo dire che ha prodotto i suoi risultati. Sostenere di “portare la standup comedy in Italia” non significa niente. “Standup comedian” è la traduzione di “Cabarettista”, la differenza la fa solo la qualità e l’ambito di quest’ultimo. Hai detto bene, Adam Sandler fa parte della categoria. Il mio aver associato il termine ad un certo tipo di comicità satirica vicina a Hicks e Carlin è stata un’assurdità funzionale allo scopo.

L’unico vero problema della comicità italiana è la mancanza di gente capace. Nove volte su dieci il pubblico non si diverte. Gli esordienti sono più interessati a scrivere il post su Facebook dopo la serata che all’esibizione in sé. Quando ho cominciato io c’era un rispetto e una dedizione per il mestiere che oggi è assente; senza ciò manca una parte fondamentale del lavoro, non rimpiazzabile con il solo talento. Questi comici, invece di lanciarsi in patetiche discussioni sulla differenziazione tra cabaret e standup, dovrebbero interrogarsi sulla qualità e sull’originalità del loro materiale.

Un comico come Sacha Baron Coen, ad esempio, non si può mettere in discussione solo perché nel manifesto di Satiriasi si sostiene il rifiuto di nomi falsi e le parrucche. Nel 2009 però, periodo di massimo successo di Zelig e Colorado, ho dovuta forzare le apparenze per darci la possibilità di fare anche altro. Ma in quelle serate eravamo tutti diversi tra di noi, proprio perché ho sempre voluto preservare le peculiarità di ciascuno. Non eravamo un collettivo (una delle idee sbagliate su Satiriasi): i collettivi prendono le decisioni insieme, lì ho deciso quasi sempre tutto io, nel bene e nel male. Le mie scelte però hanno fatto sì che Francesco De Carlo potesse fare gli animali sul palco, una proposta comica con nulla di satirico ma molto originale, surreale.

Tornando alla tua domanda: oggi c’è semplicemente bisogno di comici che facciano ridere. Poi per gusto personale se questi hanno una proposta satirica originale ancora meglio. Specialmente nella vostra generazione Il pubblico disposto c’è e questo mi inorgoglisce. Per errori fatti da tanti che hanno avuto occasioni però questo pubblico rischia di disaffezionarsi e il nostro ruolo di diventare da sfigati.

Ad oggi l’unico spettacolo comico prodotto da Netflix Italia è Grillo vs Grillo. Ancora dieci giorni fa il leader spirituale del M5S faceva battute sull’autismo sul palco di Italia 5 Stelle. Prendendo in esame anche la figura di Matteo Salvini, non ti sembra che la sempre minor distanza tra politici ed entertainer sia pericolosa?

Ovviamente sì. Anche questo caso però la cosa più pericolosa, osservando i casi di Salvini e Di Maio (non cito Renzi semplicemente perché non è al loro livello), sono i social network. Ai politici dovrebbe essere vietato l’utilizzo dei social, sono uno strumento di manipolazione troppo forte. La gente purtroppo crede a tutto, il livello medio di attenzione delle persone dietro ai computer non è abbastanza alto. Le Fake News esistono soltanto perché c’è gente che le condivide. Un rimedio serio a questa situazione sarebbe la rimozione del tasto “condividi” da Facebook: ogni utente rimarebbe libero di scrivere quello che vuole, ma non potrebbe affermare, condividendo, cosa abbia detto Salvini, cosa Conte e via dicendo. I contenuti, firmati con nome e cognome, sarebbero esclusivamente espressione del pensiero della persona. L’ignorante che condivide i post di Salvini a quel punto non riuscirebbe mai ad avere seguito.

I social oggi sono mitra in mano ad imbecilli. La mia non è, come qualcuno afferma, contrarietà alla modernità, quanto una semplice analisi della società contemporanea. In nome del progresso non si torna mai indietro, bisogna però capire quanto effettivamente si vada avanti. Quando in Europa si è provato a regolamentare, almeno parzialmente, il mondo internet c’è stata una levata di scudi da parte degli utenti.

Faccio una divagazione: essendo la nostra una società che ha ceduto al narcisismo patologico, tutte le persone che dovrebbero mettere in guardia dalle storture della situazione attuale, sono le stesse che avrebbero da perdere se la situazione cambiasse. Roberto Saviano dovrebbe, a costo di rimetterci il settanta percento del suo seguito, chiudere le sue pagine social e aprirsi un blog privato. Travaglio, Scanzi e tutte le persone in vista dovrebbero consapevolmente tirarsi fuori da un ambiente così pregno d’odio. Ma chi lo farebbe? Chi accetterebbe di ridurre la sua popolarità? Nessuno. D’altra parte se io mi cancellassi dai social non esisterei più. Vivo questo dramma per cui so benissimo che qualsiasi cosa faccia porterò al peggioramento l’ambiente Italia rimanendo sui social. Però sto zitto, semplicemente perché devo poter avere pubblico.

Nella tua prima risposta hai affermato che la satira non deve essere gratuita. Essendone consapevole, quanto è stato difficile scegliere di pubblicare Contumelie, il tuo penultimo spettacolo, online gratuitamente?

Io ho le spalle abbastanza larghe, è tutta la vita che mi accusano di ogni tipo di cosa. La possibilità di ricevere insulti per questa pubblicazione non mi spaventa. Da un altro punto di vista la mia scelta è causata dal tentativo di difendere ed evidenziare un cambiamento che dal mio punto di vista c’è stato, altrimenti se non ci sono termini di paragone la gente penserà che esistano solo i Pintus e i Crozza.

È stata anche una sorta di risposta alla scelta di Netflix di produrre e distribuire Natale a 5 Stelle, suo primo cinepanettone. Paradossalmente sembra che la mediocrità italiana sia più forte della dittatura del capitalismo. Quando avevo otto anni mio padre si lamentava con me della stupidità degli americani, colpevoli di andare in giro con macchina di cinque/seimila di cilindrata, ridendone. I SUV poi però sono arrivati in tutto il mondo occidentale. In Italia siamo così banali e inutili da essere impermeabili anche ad un certo tipo di produzione audiovisiva. Ci dovremmo rendere conto che siamo peggio delle altre popolazioni, ci dovremmo rifondare. L’unica possibilità siete voi giovani.

Come ti ho detto sono orgoglioso di avere un pubblico perlopiù di ventenni, di ragazzi che studiano, hanno viaggiato e parlano più lingue. Non so come, ma dovrete fare qualcosa voi.

Mi sembri molto accondiscendente verso la mia generazione.

No, non accondiscendente. Semplicemente siete l’unica speranza. Sono sicuro che tu mi porrai l’antitesi dei tuoi coetanei lobotomizzati da Instagram, i selfie e Chiara Ferragni, ma non ci sono solo loro. Avete bisogno di un pizzico di nichilismo in meno e un po’ di speranza in più.

Non credi che si possa fare lo stesso ragionamento per la tua generazione?

No. Io sono cresciuto senza persone di colore in classe (pur essendo nato alla Magliana) e non conoscevo omossessuali dichiarati fino ai venticinque anni. Per la mia generazione era molto più difficile essere di larghe vedute. Era necessario inventarsi un’apertura verso l’altro. Voi avete molti meno alibi, nella contemporaneità per essere omofobi bisogna essere ridicoli.

A voi basta aprire gli occhi per vedere tutto.

Ti preoccupa che, da Trump a Salvini, la libertà di parola contro il politically correct stia diventando un valore della destra?

Sì, ma è una questione spinosa. Torniamo a prima, è libertà di espressione, non obbligo. Essendosi la nostra società spostata verso l’obbligo, un universo di sinistra, che non ha decifrato nulla di quello che sta accadendo, si è barricato dietro al “questo non si può dire”. Il politicamente corretto è essenzialmente un anestetico nei confronti dell’elaborazione: riguardo ad ogni tema si sa già cosa è giusto dire. La destra, un minimo più scaltra, si è fatta baluardo contrario a questa concezione eleggendo come paladini della libera parola personaggi improbabili come Fusaro o Belpietro.

La sinistra può adottare qualche rimedio?

La sinistra deve essere l’alternativa rispetto a chi grida. Il futuro, mio avviso, non prevedrà più la divisione tra destra e sinistra, quanto tra chi urla e chi ascolta. Si deve riscoprire la bellezza di essere pubblico. Chi lavora per otto ore, fa l’amore, ha impegni familiari eccetera, deve assorbire il concetto di delega. È normale che non si sappia tutto, è invece necessario trovare un giornalista che ci informi, così come un comico che ci faccia ridere. L’unica possibilità è che la gente faccia un passo indietro.

Tutto parte da un problema psicologico dilagante: in Lo ha già detto Gesù parlo di come il narcisismo non sia più ufficialmente considerato una patologia in quanto troppo diffuso. Tutti pensano di saper fare tutto, dall’economia alla politica, ed è un problema. La politica è tramite, compromesso, non è mai onesta o bella. Se si incominciasse a capire questo si farebbe un primo passo avanti.

Per via di questa boria patologica stiamo disintegrando ogni microcosmo, dalla politica con i Cinque Stelle alla musica con X-Factor, secondo il principio malsano del Grande Fratello: “il protagonista sei sempre tu”.

Nel nostro paese si è parlato molto di standup comedy a proposito della situazione #MeToo – Louis CK: credi che un comico possa riemergere dopo rivelazioni così pesanti sulla propria persona?

Credo che giustizia e scelta della gente siano due cose separate. Lui non ha commesso un reato, è stato solo un mezzo matto. Se si pensa che provava piacere nel farsi le pippe davanti a delle donne nel suo camerino si capisce che fosse un po’ spostato. La dittatura di un certo tipo di etica da quattro soldi che stiamo vivendo oggi è spaventosa e quando si supera un certo limite non si torna più indietro. In questa situazione chiunque può essere pubblicamente disintegrato in un nanosecondo. Il primo esempio italiano è quello di Massimo Di Cataldo, cantautore melodico la cui ex-ragazza pubblicò su Facebook una foto della propria faccia coperta di sangue accusandolo di averla picchiata. È stato assolto da tutto, ma la sua carriera è finita ugualmente.

Una delle cazzate del movimento #MeToo è la mancanza assoluta di dialogo (a tal proposito ho girato da poco un documentario per cui ho intervistato sessantatré donne, chiedendo loro di chiarire tutte le mie curiosità da uomo sul mondo femminile). Ad un certo punto sarà comunque necessario mettersi ad un tavolino a discutere del da farsi, perché gli uomini violenti non sono stati cresciuti dai loro padri, ma piuttosto dalle madri. Con le semplici accuse non si risolve nulla, è un problema difficile perché il maschilismo è profondamente radicato nella nostra società.

Tornando a CK: sacrificare sull’altare della giustizia carriere mi sembra sbagliato. Pur sapendo che Pasolini pagava dei ragazzi per avere rapporti sessuali con loro è impensabile mettere in discussione la sua opera. Come al solito è tutto fatto troppo in fretta, vedremo cosa succederà nei prossimi anni. Se Louis volesse tornare ad essere uno dei numeri uno non può esimersi dal parlarne, per quanto sia difficile deve trovare un modo di raccontarlo. Lui è sempre stato fenomenale nel narrare dei suoi fallimenti, questo forse altro non è che uno di essi.

Vorrei chiudere con una domanda più filosofica, per darmi un tono: Lenny Bruce sosteneva che la risata fosse il mezzo, non il fine. Stephen Colbert, a mio avviso il migliore late show host contemporaneo, nonostante l’estrema politicizzazione della sua trasmissione dice l’esatto opposto. Per Filippo Giardina cosa è la risata?

“La risata è il mezzo, non il fine” è il primo punto del manifesto di Satiriasi. L’anno scorso poi ho scoperto che questa frase si trova all’interno della prefazione di Daniele Luttazzi all’autobiografia di Lenny Bruce Come parlare sporco e influenzare la gente. Non ne ero cosciente, sarà rimasta inconsapevolmente nella mia testa dalla lettura del libro. Come ho scritto nove anni fa dunque, per me è assolutamente il mezzo. Questo perché ho approcciato la comicità con un dolore esistenziale così grande che essa era l’unico tramite possibile per parlarne. Qualsiasi disciplina artistica è sempre trasmissione di un’interiorità.

D’altra parte viviamo in un’epoca dove gli uomini più potenti del mondo sono psicopatici nerd e quindi il nostro è il tempo della tecnica, del virtuosismo. Molta della gente che difende Colbert difende un tipo di approccio privo di qualsiasi tipo di romanticismo. D’altronde tutti i Late Show non sono altro che una divertente catena di montaggio che poco hanno a che fare con l’arte. Tutti, da Letterman in poi, sono bravi ed onesti professionisti che però non hanno nulla da spartire con Lenny Bruce, uno che per le sue battaglie è morto. La pericolosità della frase di Colbert si riversa sui ventenni, attenti esclusivamente alla tecnica delle battute e non alla sostanza.

In special modo nell’Italia di oggi è necessario farsi qualche domanda, trasmettere un pensiero. Credo che le persone felici non dovrebbero mai salire su un palco. Le storie belle non interessano a nessuno.

Grazie mille della chiacchierata!

Figurati, grazie a voi.