Laureato in Storia e critica del cinema, studia Informazione ed Editoria presso l'Università di Genova. Appassionato di tutto ciò che riguarda l'audiovisivo e la parola scritta.

Di Stefano Ciapini e Matteo Abrami

Todo Modo

Poco prima del compromesso storico, poco prima del rapimento Moro, poco prima del ritrovamento del cadavere dell’allora Presidente della DC in una Renault 4 in via Caetani, nelle sale italiane veniva accolto tiepidamente il decimo lavoro di Elio Petri, Todo Modo, un’accusa durissima e spietata al potere della Chiesa e della Democrazia Cristiana.

A seguito della successione dei fatti sopracitati, il film fu considerato moralmente e politicamente impresentabile; venne ritirato dalle sale e la pellicola originale venne trovata bruciata negli studi di Cinecittà.

Ma facciamo un passo indietro; nel fervore politico degli Anni Settanta, in Italia, era davvero il momento di realizzare che, come disse Leonardo Sciascia (autore del romanzo da cui Todo Modo è tratto), «esiste una sola Democrazia Cristiana con la quale il popolo italiano deve decidersi a fare definitivamente e radicalmente i conti»?

Il Contesto

Moro, il Simbolo e il Politico

È chiaro: a partire dal 16 marzo 1978 l’opinione pubblica italiana viene scossa da un terremoto. La notizia del rapimento di Moro è stata uno spartiacque nella storia nazionale e nella considerazione dei cittadini della politica. È come se un sentimento di ritrovata unità nazionale avesse stretto in un abbraccio una Repubblica traballante, colpita al cuore dai brigatisti che di lì a poco si sarebbero disfatti del Presidente DC.

L’efferato omicidio ha reso Aldo Moro una sorta di “martire laico“, celebrato ininterrottamente sino ad oggi. Questo fatto non deve far pensare ad una celebrità postuma sproporzionata rispetto a ciò che Aldo Moro è stato in vita; si può notare come negli anni precedenti alla sua morte fosse già una figura che riusciva a farsi benvolere dalla maggioranza degli Italiani. Certo, non che tutti lo osannassero, anzi, ma Moro era già un simbolo d’unità, vuoi per il fatto che riusciva ad amalgamare le varie correnti interne al partito, vuoi perché da tempo si stava spendendo per costruire un dialogo con i rivali storici del PCI.

Moro sapeva bene che “Per fare le cose, occorre tutto il tempo che occorre”, tant’è che aveva investito un’infinità di tempo per far sì che l’intesa con Berlinguer divenisse qualcosa di politicamente concreto. Gli Italiani coglievano la grandezza di questo personaggio e sui giornali in quegli anni se ne parlava con toni addirittura celebrativi; scriveva ad esempio Gianfranco Piazzesi sul Corriere: “In certi momenti Aldo Moro, più che presidente della DC, sembra diventare il supremo moderatore di tutti i partiti italiani. La poltrona del Quirinale sembra spettargli di diritto. Quasi sicuramente sarà lui il principale artefice, o il maggior responsabile, dei nostri destini”. Moro è stato dunque sì elevato a mito repubblicano dopo l’omicidio, ma senza dubbio le basi per rimanere nella storia c’erano già tutte.

La DC prima e dopo Moro

Cercando di analizzare la DC pre e post ’78, è necessario sottolineare nuovamente che l’omicidio Moro ha toccato una figura che tagliava trasversalmente il favore della popolazione, la quale al di là dell’affetto provato per Moro continuava ad essere in parte democristiana, in parte comunista e così via. Questo per chiarire come mai il ’78 non abbia assolutamente inciso nei risultati elettorali della DC, che si riportano qui di seguito:

1963: 38.2%  –  1968: 39.1%  –  1972: 38.6%  –  1976: 38.7%  –  1979: 38.3%  – 1983: 32.9%

La Democrazia Cristiana non ha mutato radicalmente il proprio volto di fronte agli elettori a seguito del caso Moro. Possiamo dire però che da un punto di vista politico la DC precedente all’omicidio è sicuramente diversa da quella che avremo successivamente. Gli anni precedenti ai fatti di via Caetani avevano visto l’apertura della DC al PCI grazie all’operato di Aldo Moro ed Enrico Berlinguer; i Democristiani stavano affrontando, al pari dei Comunisti, un mutamento profondo, si stava passando cioè da una politica autoreferenziale ad una politica di apertura al dialogo verso la seconda forza del Paese. L’opinione pubblica era cosciente di questo cambio di passo, che però si sgretolerà proprio a seguito della morte di Moro. Il 1978 restituisce dunque una DC politicamente regredita, nuovamente arroccata su sé stessa e sui piccoli partiti attigui.

Fatto sta che la DC, per quanto concerne il punto di vista analizzato nel film Todo Modo, ovvero il malcostume e la presunta corruzione dei vertici del partito, è rimasta sempre uguale a sé stessa. Dal gioco delle correnti, che Dio solo sa quante losche manovre abbia comportato, sino ad arrivare alla palese realtà dei fatti con lo scandalo di Tangentopoli degli anni ’90, lo “sporco” della politica ha rappresentato il minimo comune denominatore della storia democristiana e, in generale, della storia primorepubblicana. In un ambiente in cui tutti erano chiamati a sporcarsi le mani non ci è dato sapere se lo stesso Aldo Moro potesse essere invischiato in cose del genere, anche se ormai probabilmente non ce ne interesserebbe neanche: nulla potrà mai scalfire questo immenso simbolo repubblicano.

Il Film

Trama

In Italia scoppia una non meglio precisata epidemia infettiva che miete numerose vittime. Nel frattempo, i politici del partito al comando, gli industriali, i banchieri e in generale tutti gli uomini di potere si riuniscono nello Zafer: un albergo gestito da ecclesiastici dove le persone si ritrovano per effettuare i riti spirituali ispirati ad Ignazio Loyola (il titolo del film ricalca appunto una frase dell’ecclesiastico, “todo modo para buscar la voluntad divina”).

Tra i “carcerati” della struttura-prigione vi è “il Presidente (Gian Maria Volonté), personaggio senza nome a capo del partito. Egli ha l’arduo compito di portare a collidere e ragionare le varie correnti del suo organismo politico, che sembra ormai destinato allo sfacelo. Lo Zafer e i suoi esercizi sono gestiti da Don Gaetano (Marcello Mastroianni), un misterioso e minaccioso uomo di chiesa a cui tutti i presenti sottostanno.

Invece che portare ad un vero rinnovamento di partito, primo obbiettivo dell’incontro voluto dal Presidente, gli esercizi spirituali sono accompagnati da liti verbali e fisiche, schermaglie ed invettive.

Poi, durante lo svolgimento dei tanti riti, gli uomini del partito iniziano a morire uno ad uno, assassinati inspiegabilmente.

Inferno

Il male, la corruzione e l’ingordigia dei singoli e dei più; di questo parla Todo Modo.

Nonostante il film, come avrete notato, sia fortemente grottesco e surreale, il contenuto è profondamente radicato nella realtà di allora e di oggi. Petri attraverso le maschere tragicomiche ed espressioniste che ci mostra, mette in evidenza il disfacimento morale e politico di una classe dirigente. I democristiani del regista sono svuotati, scavati nella carne dal digiuno religioso e dalle preghiere affannose e sospirate che recitano quasi emulando rapporti sessuali (vedasi quella pronunciata dal Presidente e consorte nella loro stanza).

Il regista dunque, con una lungimiranza tipica dei grandi intellettuali, tesse le fila della trama fino alla conclusione spietata: l’eliminazione di tutti i politici DC. La morte per assassinio del film altro non è che immagine della morte politica per via di una fame di potere e denaro che ha portato ad una corruzione dilagante tra le alte cariche dello stato e della finanza e quindi ad una esigenza di cambiamento.

Lo stile è post-moderno, metafisico. Le inquadrature interne allo Zafer, struttura grigia e spoglia fuorché per le statue cattoliche di un bianco marmoreo, ricordano quadri di Dalì e di De Chirico. Esse danno a Todo Modo un’aura cupa e tenebrosa, dominata visivamente da chiaroscuri e sprazzi di viola al neon, che da perfettamente un’interpretazione dell’Italia del tempo.

Il Presidente

Il Presidente, interpretato dal più grande attore italiano di sempre, Gian Maria Volonté, è ovviamente modellato sulla figura di Aldo Moro, sebbene alcune frasi ad effetto e movenze ricordino quelle tipiche di Giulio Andreotti. L’immagine ingiuriosa che Petri, pessimista riguardo l’unione tra destra e sinistra, dà del politico ha fatto sì che il film sparisse dalla circolazione per molto tempo.

È interessante leggere uno scritto dello stesso regista che si riferisce allo straordinario lavoro di Volonté:

«Quando girammo Todo Modo, Volonté divenne evanescente, camminava come se fosse sulle nuvole, parlava a bassa voce, non ti guardava negli occhi, tutto preso com’era dal personaggio di Moro. Il suo fu uno sforzo di concentrazione eccezionalmente intenso. […] Per quel personaggio, Volonté ed io ci servimmo molto della moviola. Avevamo radunato molti pezzi di repertorio su Moro. Io, per scrivere il copione, avevo studiato alcuni dei suoi dilaganti discorsi. […] Moro si abbandonava spesso a rituali assai elaborati, nell’incontrare altri uomini politici, o delegazioni straniere, o altri. Ne venivano fuori dei veri balletti. Io credetti fosse meglio puntare su una maschera che simboleggiasse tutti i democristiani, pur partendo dai buffi, esitanti, cinesi rituali di Moro.

I primi due giorni di lavorazione furono cestinati da me, d’accordo col produttore e con lo stesso Volonté, perché la somiglianza di Gian Maria con Moro era nauseante, imbarazzante, prendeva alla bocca dello stomaco. In quell’immagine risultava tutta l’insidiosità, l’astuzia dell’uomo politico».

Il giudizio di Petri dunque è molto aspro; il suo pensiero, per quanto possa essere condiviso o meno, rende l’idea di quanto egli fosse, prima ancora di un grande regista, un artista-intellettuale di rottura, autonomo e con un proprio pensiero politico.

Uno di quelli che oggi mancano terribilmente al nostro bel paese.

Di Stefano Ciapini e Matteo Abrami