Mentre gli Stati Uniti e il Regno Unito, pionieri del libero scambio, si ritirano lentamente dal loro impegno nella globalizzazione, la Cina propone il suo progetto per stimolare e ridare slancio all’industria e il commercio globale: One Belt, One Road.
L’obbiettivo è di ricostituire una Nuova Via della Seta, un’articolata rete di infrastrutture, ferrovie, strade e linee marittime che collegherebbe l’Asia Centrale con Medio Oriente, Africa ed Europa in un network commerciale di dimensioni mai viste prima.
Secondo la società internazionale di consulenza strategica McKinsey, sarebbero coinvolte da OBOR fino a 65 nazioni: più della metà della popolazione mondiale, tre quarti delle riserve energetiche e un terzo del prodotto interno lordo globale.
Per gli analisti di Fortune, OBOR rappresenterebbe il più grande progetto di investimento mai compiuto prima, superando, al netto dell’inflazione odierna, di almeno 12 volte l’European Recovery Program, il celebre Piano Marshall.
Il progetto è costituito dalla creazione e sviluppo commerciale parallelo di una cintura terrestre (Silk Road Economic Belt) e una rotta marittima (21st Century Maritime Silk Road)
La prima collegherà la Cina (1) all’Europa del Nord attraverso l’Asia Centrale e la Russia, (2) al Medioriente attraverso l’Asia Centrale e (3) unirà in una rete infrastrutturale l’Asia pressocché nel suo complesso.
La seconda invece collegherà i porti cinesi (4) a quelli dell’Europa del Sud attraverso il Mare Cinese del Sud e l’Oceano Indiano; (5) con il Sud dell’Oceano Pacifico attraverso il Mare Cinese del Sud.
L’Italia sarebbe direttamente coinvolta nel progetto, offrendo l’ultimo porto del Mediterraneo prima del transito delle merci verso il Nord Europa.
Le proposte del Bel Paese sono Venezia, Trieste e Genova, come ha spiegato il Premier Paolo Gentiloni durante l’OBOR Summit a Pechino.
Più grande il progetto, più grande il conto.
Dando un rapido sguardo al progetto si potrebbe quasi pensare che sia la logica conseguenza di una volontà politica unilaterale del governo Cinese ma, andando più a fondo, troviamo un riscontro anche da parte europea, la quale da anni cerca di trovare un modo per stimolare la domanda e più in generale il mercato. Sul sito ufficiale del fondo, è presente la notizia di un incontro recente (2 Giugno 2017) tra il Premier Cinese Li Keqiang, il Presidente della Commissione Europea Juncker e il Presidente del Consiglio Europeo Tusk.
La conclusione del suddetto incontro è stata un’intesa circa la volontà di uno sforzo comune nel finanziamento della sovrastruttura: il Silk Road Fund da parte della Cina e lo European Investment Fund impiegheranno le risorse agendo come un’unica entità (che prenderà il nome di China-EU Co-Investment Fund) pur rimanendo enti separati. Il flusso di denaro è volto al finanziamento di piccole e medie imprese che svilupperanno relazioni di tipo commerciale con il “Sol Levante”, con la previsione di un sostentamento nel breve, e uno sviluppo sostenuto nel medio periodo, tramite il coinvolgimento nella costruzione di questa immensa rete di comunicazione.
Un Mondo di Capitali
Il fondo attualmente sta operando in collaborazione con molte altre entità economico finanziarie, private e pubbliche, pur non coinvolgendo minimamente il fondo per gli investimenti statali cinesi (che negli ultimi anni è stato famoso per l’ingente affluenza di disponibilità e per l’ambizione nei target d’investimento).
Il governo ha esteso l’invito a partecipare a qualunque entità pubblica o privata nel mondo che abbia interesse nel prendere parte a questo sogno. Ciò significa che qualunque stato (anche quelli non coinvolti direttamente), fondo d’investimento, ente, o semplicemente chiunque abbia una somma da investire, può entrare a far parte della rosa dei finanziatori e prendere parte a quella che sembra essere, almeno in potenza, la più grande rete di comunicazione economico-commerciale e ricevere un compenso proporzionale al capitale investito nel medio-lungo periodo.
Storicamente chiunque detenga il controllo delle vie di comunicazione, ha diretto accesso e parte del profitto del gettito economico del transito merci, e il fatto che i paesi direttamente coinvolti nella struttura fisica siano paesi in via di sviluppo, fornisce ulteriore incentivo nel ponderare un investimento. I paesi in via di sviluppo sono ben conosciuti per essere l’ideale (quando mirato e ben pianificato) target di investimento, sia per un favorevole tasso di cambio, sia per un ritorno economico più che proporzionale ove il mercato dovesse rivelarsi responsivo e crescere.
OBOR è un investimento che sul piano teorico genera ricchezza di per se, aiuterebbe i paesi ospitanti la struttura fisica nello stimolare i mercati locali, generando più domanda e quindi stimolando l’afflusso di capitali, che potrebbe a causa di questo trend, essere più che proporzionale.
Il Controllo dei Flussi
Abbiamo trovato sul sito del fondo un passaggio interessante:
Ora qualcuno potrebbe ribattere che questo altro non è che un invito alla cooperazione e una dichiarazione di “buona fede”, purtroppo però nonostante la nutrita presenza di competentissimi risk managers, la mancanza di un organo preposto al controllo induce a valutare la possibilità di corruzione dilagante nel processo decisionale delle aziende selezionate per la costruzione della rete.
In quest’altro passaggio si legge specificamente la presenza di “supervisori” che tecnicamente dovrebbero ottemperare a questo tipo di funzione, ma non si trova traccia di specificità della cosa se non un “Board of Supervisors” nell’organigramma del fondo. Per quanto possa essere rassicurante un accenno, gli investitori potrebbero sentirsi più sicuri in presenza di una struttura di controllo più articolata, o quantomeno una specifica sulle funzioni e sul meccanismo di controllo dei controlli già esistenti.
Grandezza non significa Solvenza
Sul piano economico finanziario, questo tipo di ambizione ha un costo previsto che si aggira tra i 4 trilioni di dollari e gli 8 trilioni di dollari, una cifra oscenamente grande che non sarebbe neanche presa in considerazione da nessun paese sul pianeta a parte la Cina, la quale può permettersi di fantasticare sulla questione. Il problema si pone comunque poiché nonostante i contratti conclusi e in via di svolgimento per un ammontare di 900 miliardi di dollari, il resto della cifra richiesta non può essere liquidata semplicemente firmando un assegno.
I prestiti non possono essere nominati in renminbi perchè nonostante sia un modo rapido ed efficace per coronare il sogno Cinese di internazionalizzazione dello Yen, sarebbe comunque preoccupante l’improvviso movimento di moneta nazionale a livello internazionale, forzando la Cina a tollerare possibili picchi di inflazione o quantomeno cercare di mantenerla stabile; considerato che lo Yen ha un passato di volatilità consolidato, la questione è praticamente fuori discussione.
L’unica soluzione quindi rimane quella già esplicata dell’apertura ai mercati stranieri e ai finanziatori privati esterni, considerata la grandissima riserva di valuta estera detenuta dal governo cinese che potrebbe quindi sostenere l’impatto del tasso di cambio e contemporaneamente non subire da sola la pressione di uno sforzo economico così immane.
D’altro canto, se il progetto dovesse andare in porto e dovessero i piani andare come sperato, la Cina non solo manterrebbe il suo peso politico internazionale, ma riuscirebbe a mantenere altrettanto peso economico mondiale nonostante siano ormai giunti al termine i tempi del megasviluppo spinto dal PIL a due cifre, trovando nuovi stimoli per mantenere sostenibile la sovrapproduzione. Per gli USA, che gradualmente si defilano dal panorama economico competitivo, potrebbe essere il passaggio del testimone come prima potenza economica mondiale.
L’era del Dragone?
OBOR è annunciato ufficialmente nell’Ottobre 2013 dal neo eletto Presidente Xi Jingping.
Esso appare fin da subito come la risposta del Dragone al tentativo americano di creare macro blocchi commerciali USA-centrici, è infatti la stagione dei grandi trattati di libero scambio promossi dall’amministrazione Obama: Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) e Trans-Pacific Partnership (TPP)
Il secondo in particolare mira a rinforzare la posizione degli Stati Uniti nella regione asiatica, aumentando i legami economici tra le economie “più occidentali” sviluppate della regione, tagliando i dazi e incrementando lo scambio per facilitare la crescita economica.
Con la firma di 12 nazioni nel febbraio 2016, il TPP necessita la ratificazione entro il 2018 di almeno la metà dei firmatari per la sua messa in atto. (puoi leggere il testo integrale QUA)
Il trattato, e l’esclusione dallo stesso della Cina, è percepito da Pechino come l’ennesimo tentativo americano di allungare i tentacoli sull’Oriente e limitare l’espansionismo economico-politico cinese.
Ma l’elezione di Donald J. Trump alla Casa Bianca scombina le carte in tavola, la politica estera del 45esimo Presidente degli States è infatti la più grande ridifinizione degli interessi nazionali dalla Seconda Guerra Mondiale.
Trump infatti dipinge un mondo in cui le relazioni estere americane sono collassate in un gioco a somma zero. Loro vincono, noi perdiamo. «Per molti anni abbiamo arricchito l’industria straniera a spese di quella americana. La ricchezza della nostra classe media è stata strappata dalle case americane e ridistribuita nel mondo […] Da oggi in avanti, sarà ‘America First’»
Con queste parole, pronunciate nel discorso d’inaugurazione della sua presidenza, l’inversione di tendenza nella politica estera americana è incredibile.
Ed è in quest’ottica che si pone l’annuncio del ritiro ufficiale degli USA dal TPP con un ordine esecutivo firmato dal Presidente il suo primo giorno di ufficio.
Xi Jingping non avrebbe potuto sperare presidenza statunitense migliore per lanciare ufficialmente One Belt One Road durante il Summit a Pechino e assicurare il suo impegno nel libero scambio regionale e globale in occasione del World Economic Forum a Davos, Svizzera.
«Dobbiamo opporci al protezionismo. Perseguire il protezionismo è come chiudersi dentro una stanza buia. Vento e pioggia possono pure restare fuori, ma resteranno fuori anche la luce e l’aria. Nessuno uscirebbe vincitore da una guerra commerciale. […] Piaccia o no, l’economia globale è un enorme oceano dal quale nessuno può tirarsi fuori completamente»
Una delle sfide più impegnative del nostro tempo è il cambiamento climatico, ed in merito a questo punto Pechino ha dimostrato di prendere sul serio l’impegno preso in occasione degli Accordi di Parigi, a differenza della Casa Bianca di Donald Trump. La scelta del ritiro degli States dai trattati sul clima, sempre in ottica di primarietà assoluta degli interessi nazionali americani, è emblematica del graduale declino di credibilità internazionale che ha caratterizzato questi primi mesi di presidenza Trump.
Così Donald Tusk si esprime in una conferenza stampa congiunta con il PM Li Keqiang: «Mentre Cina e UE si impegnano per le future generazioni, gli USA commettono un grave errore storico»
La stoccata retorica e fattuale della Cina al vento protezionista spirante dal Nord America è completa, il Segretario Generale del Partito Comunista Cinese, difende la globalizzazione mostrando al mondo occidentale la propria responsabilità di fronte alle sfide future.
Washington non sembra avere progetti a lungo termine in Asia in risposta alle carte giocate dal Dragone, ad eccezione della proposta del Senatore John McCain: Asia-Pacific Stability Initiative, un investimento di 7.5 miliardi di dollari che «renderebbe gli USA in una posizione strategica regionale avanzata, flessibile, resistente e formidabile» secondo un portavoce di McCain.
L’obbiettivo sarebbe quello di intensificare l’influenza militare statunitense nell’area e rafforzare la collaborazione con i partner regionali.
Ma l’aumento del budget militare non può essere l’unico strumento degli USA per mantenere la propria influenza nell’area, nel lungo periodo infatti, gli investimenti strutturali e l’articolata rete commerciale condurrà la Cina ad una guida stabile dell’Asia.
La regione però non è priva di tensioni militari, a partire dalla disputa delle isole Senkaku alla questione coreana, della quale è impossibile non aver letto qualcosa sui quotidiani globali in merito ai recenti sviluppi.
Pyongyang infatti nell’ultimo anno ha intensificato i celebri test missilistici, irritando le potenze regionali adiacenti, come Giappone, Sud Corea, Australia e CINA.
Nonostante infatti tra i due paesi vi sia un forte legame storico e una stretta partnership economica (Pechino è il più grande collaboratore commerciale della Nord Corea) questo genere di azioni ha suscitato l’ira del Dragone che già nel 2007, in occasione del primo test nucleare, aveva espresso il suo parere contrario al proseguo di tali test.
Un editoriale del Global Times, agenzia di stampa governativa, afferma che «se la Corea del Nord continuerà in questa direzione riceverà una dura risposta da Pechino, […] Dobbiamo essere pronti ad azioni non amichevoli da parte di Pyongyang»
Il Consiglio di Sicurezza ONU il 3 Giugno 2017 ha approvato l’imposizione di nuove sanzioni contro la Nord Corea, con il benestare cinese.
In questo delicato rapporto diplomatico tra i due paesi, mai stato in crisi come adesso, vanno interpretare le dichiarazioni del Presidente degli Stati Uniti sulla questione, che negli ultimi mesi ha sottolineato su twitter come gli sforzi di Pechino di tenere a bada il proprio alleato siano stati vani:
While I greatly appreciate the efforts of President Xi & China to help with North Korea, it has not worked out. At least I know China tried!
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) 20 giugno 2017
L’amministrazione Trump ha pressato molto su Pechino per la risoluzione della questione coreana in modo pacifico, ma ad oggi, Pyongyang non sembra avere intenzione di cambiare obbiettivi e comportamento a livello internazionale.
La credibilità cinese sarà saggiata anche dagli sviluppi della “Tensione Coreana”, Pechino dovrà dimostrare anche di essere in grado di poter gestire Kim Jong-Un, se vuole aspirare a contendere il ruolo di leader globale.
Gli interessi cinesi però non sono rilegati, come abbiamo visto, solo all’Asia; con questo ambizioso progetto Pechino mira a conquistare l’influenza politica di molti partner influenti di tutto il Mondo, specialmente Europa e Medio Oriente, riequilibrando così lo scacchiere strategico delle relazioni internazionali in una condizione più favorevole per l’Oriente.
La strategia geopolitica sottesa tra le maglie di One Belt, One Road infatti è quella di vincolare alla Cina, attraverso debito ed infrastrutture, interessi economico politici di più Stati, in un futuro sempre più Asia-centrico.
articolo di Matteo Manera e Alessandro Nicotra
per la stesura di questo articolo abbiamo consultato molte fonti diverse, se vuoi puoi consultarle qua