Laureato in Giurisprudenza, corsista di Europrogettazione e Internazionalizzazione d'Impresa presso SIOI, Roma. Da sempre interessato di storia, politica e economia.

Lo scorso 15 febbraio il Parlamento Europeo ha approvato il testo definitivo del Comprehensive Economic and Trade Agreement (CETA) tra Canada e Unione Europea. Le vicende del CETA sono note ai più non tanto per l’effettivo contenuto del trattato e le scelte di politica economica ad esse sottostanti, quanto piuttosto per la scia di polemiche, proteste e paure che tale trattato ha suscitato in Europa.


Secondo l’opinione di chi scrive
, è opportuno affrontare l’argomento partendo da un’analisi della natura del CETA, e di quali sono i punti più rilevanti, nonché del contesto politico ed economico in cui esso è venuto a svilupparsi.

Innanzitutto, il CETA è un trattato internazionale, un nuovo “gioiello” a livello giuridico e diplomatico in quanto definisce in modo onnicomprensivo e dettagliato i rapporti economici tra due stati (o meglio, in questo caso sarebbe opportuno dire tra ventotto e uno). E’ un cosiddetto “trattato di nuova generazione”, in quanto regola sia le barriere al commercio, che i FDI (foreign direct investments), ossia gli investimenti esteri tra i due stati. E’ noto come questo tipo di trattati sia venuto a svilupparsi nel primo decennio del ventunesimo secolo, una sorta di “reazione” da parte dei principali attori economici a livello internazionale a due cortocircuiti sistemici nel diritto internazionale dell’economia.

Da un lato infatti, è una risposta all’immobilità della WTO (World Trade Organization) di coordinare ulteriori negoziazioni di abbattimento alle barriere commerciali, dal momento che il Doha Round (i Round sono periodi di negoziazioni tra stati) ristagna da ormai più di 15 anni, forse per l’inconciliabilità delle posizioni di nuove superpotenze economiche, come la Cina, con la tradizionale egemonia occidentale nel WTO.

Dall’altro lato, è un trattato che crea regole nuove e innovative per la protezione degli investitori stranieri nel territorio dello stato ospite: ciò consentirà una tutela più efficace e chiara sia degli investimenti in entrata nel territorio dello stato ospite, che degli investimenti in uscita. Ciò è possibile accordando agli investitori stranieri diversi e più estesi meccanismi di protezione.

In aggiunta a ciò, il CETA è un trattato profondamente innovativo anche dal punto di vista della tutela giurisdizionale dei diritti fissati dal trattato. La storia del diritto degli investimenti (pilastro giuridico della globalizzazione) è stata plasmata anche da decisioni di alcuni tribunali arbitrali permanenti, che dirimono le controversie nascenti dall’applicazione di questi trattati. Primo tra tutti l’ICSID (International Center for Settlement of Disputes, organo creatosi in seno alla World Bank) ha svolto un ruolo di “tribunale degli investimenti” sin dagli anni ’60. Le critiche mosse a questo tipo di tribunali sono varie, tra cui soprattutto l’incertezza del diritto applicabile, l’assenza di regole stabili, l’arbitrarietà e la trasparenza delle decisioni. Problemi che allo stesso modo affliggono l’organo di risoluzione delle controversie del WTO. Ebbene, il CETA dispone la creazione di organi di risoluzione delle controversie indipendenti da quelli sopracitati, dettando regole all’art.23 per la creazione di un Multilateral Tribunal per gli investimenti e all’art.29 per la creazione di un Panel indipendente per le dispute commerciali.

Ultimo punto di innovazione, la possibilità accordata agli investitori di ciascuno stato di partecipare alle gare d’appalto dello stato ospite alle stesse condizioni degli investitori nazionali (o europei).

Dopo questa dovuta premessa sulle basilari coordinate giuridiche sulle quali il trattato si colloca, occorre ora capire quali sono i punti su cui la maggior parte delle polemiche che hanno accompagnato (le ultime) fasi di contrattazione e l’approvazione si rivolgono, e sono riassumibili così:

  • Il rischio di un ammorbidimento sugli standard di qualità dei prodotti, che con la liberalizzazione dei commerci potrebbe verificarsi.
  • Il rischio di una retrocessione a livello di tutela ambientale.
  • Il rischio della perdita di competitività delle imprese europee in materia di appalti e grosse forniture.
  • Il rischio dell’accesso di imprese statunitensi con filiali incorporate in Canada ai benefici del CETA.
  • Il rischio di decisioni arbitrarie e schizofreniche degli organi di risoluzione delle controversie, sbilanciati a favore degli investitori più dotati di mezzi finanziari e legali per questo tipo di dispute.

Va detto che tali rischi non sono assolutamente infondati, e tale convinzioni si basano sulla “vaghezza” di alcune disposizioni del trattato, che non risolvono nodi cruciali.

A tali rischi, tuttavia, si accompagnano enormi possibilità di sviluppo ed integrazione sociale tra il Canada e gli Stati Europei. Come è semplice intuire, né il CETA né qualsiasi altro accordo a livello economico potranno risolvere da principio i dubbi e i problemi emergenti in fase di applicazione. Va tuttavia sottolineato il fatto che, già in prima battuta, si possono dare delle risposte in merito alle varie ipotesi di rischi:

  • Innanzitutto, se per certi aspetti il trattato può sembrare vago, è in realtà un elenco dettagliatissimo di abbassamenti su dazi e tariffe, molto più di altri trattati in materia economica di ampio respiro.
  • La tutela ambientale è una materia nuova nel diritto internazionale, come del resto anche nel diritto Europeo. Il CETA come altri trattati è dotato di un buon apparato di clausole di salvaguardia ambientale, che lasciano agli Stati ampi margini di manovra nei confronti della tutela ambientale contro le attività degli investitori.
  • La materia degli appalti in UE lascia già aperti dei grossi interrogativi: nell’Unione stessa esistono Stati con economie e imprese infinitamente più grandi di altre (la Germania da sola è più grande del Canada a livello economico e demografico), per cui potrà esistere un assestamento, ma non una vera e propria sudditanza economica. Senza contare le contingenti difficoltà ad inserirsi in gare d’appalto in realtà amministrative complesse e non facili (come quella italiana).
  • Il CETA potrà essere forse un “grimaldello” per le imprese americane? Molto probabilmente. Sicuramente si può individuare una sorta di “strategia” nord americana a livello di stipulazione di questi trattati, in cui il Canada gioca il ruolo di apripista per il gigante USA (sta succedendo anche dall’altra parte del Pacifico, con il Canada-China Free Trade Agreement, di portata e conseguenze forse ancora più grandi del CETA). Va detto però che potranno esistere anche casi di reciprocità: ossia l’investitore Europeo con filiale in Canada che sfrutta i benefici del NAFTA (North American Free Trade Agreement) per accedere al mercato USA.
  • La fiducia nei tribunali arbitrali è giustamente attaccata, per lo scarso bilanciamento delle decisioni, di frequente orientate a favore dell’investitore straniero. Va detto però che tale fenomeno ha raggiunto i suoi eccessi quando la disputa sorgeva tra investitore di uno stato sviluppato e un paese in via di sviluppo. Di certo è stato un bruttissimo e vergognoso retaggio della colonizzazione, e una sofisticazione dei mezzi di controllo economico/politico degli stati sviluppati sui più deboli per anni. Ma in questo caso, le cose stanno diversamente, e forse, mettendola su un piano puramente di “peso politico-economico”, forse il Canada si trova in svantaggio. Senza contare che, assieme ai problemi, la creazione di tribunali indipendenti (e dunque diversi) da quelli tradizionali crea enormi opportunità per fissare regole comuni in un contesto win-to-win, in cui il peso economico di ciascuna parte fa da garanzia della sensatezza delle decisioni.

Ragionando dall’ottica europea, quasi sicuramente il CETA provocherà dei mutamenti in alcuni ambiti economici, ma mutamenti non così gravi ed irreversibili. Nell’opinione di chi scrive, occorre maggiore sensibilità ed informazione delle classi dirigenti dinnanzi a questi temi, e una politica estera comune (o quantomeno coordinata) a livello europeo, che sappia monitorare e vigilare sullo sviluppo di tale vicenda e sugli impatti delle nuove regole, capace di agire con fermezza ma allo stesso tempo anche come motore di collaborazione.

Ragionando in un’ottica di politica economica globale, il CETA è un altro tassello dell’enorme mosaico di trattati in materia economica che distruggono una politica commerciale e di investimenti  globale, la quale invece si sta sempre più organizzando in macro-aree regionali. Prevedere gli effetti a lungo termine di tali scelte è una sfida difficile se non impossibile. Può invece avanzarsi qualche ipotesi sul perché di tale scelta. Siglare grossi trattati regionali è, paradossalmente, una scelta di globalizzazione à la càrte, forse una reazione a ipotetici maggiori squilibri e perdite di benessere e competitività che una politica globale può comportare. E forse, anche la rinuncia alla creazione di un benessere mondiale che, nonostante gli sforzi, è ancora al di là da venire.