Laureato in Giurisprudenza, corsista di Europrogettazione e Internazionalizzazione d'Impresa presso SIOI, Roma. Da sempre interessato di storia, politica e economia.

Il rapporto tra il Regno Unito e l’Unione Europea è stato connotato, nei tempi recenti, da una sorta di insofferenza e malcontento, specie oltremanica, circa gli effettivi benefici di una permanenza del Regno Britannico in una compagine economica/politica/sociale dalle sorti sempre più traballanti, incerte e contraddittorie della storia recente.
Sin dagli inizi del processo di integrazione europea, il Regno Unito si trovò a dover rapportare e confrontare le sue scelte politiche rispetto all’integrazione comunitaria. Tradizionalmente, era il partito Laburista ad osteggiare un’ipotetica entrata del Regno Unito nelle allora Comunità Europee. Il rischio temuto dai leader del Labour era di veder la classe operaia inglese perdere il suo potere contrattuale, di fronte ad un allargamento dei mercati senza precedenti.
Fu infatti il governo Conservatore di Edward Heath a traghettare il Regno Unito nelle comunità Europee nel 1973. E fu invece il Partito Laburista a promuovere il primo referendum sulla permanenza del Regno nelle Comunità, nel 1974, referendum che vide nettamente prevalere la permanenza.

Il cambio di approccio alle politiche europee nel partito conservatore si ebbe con Margaret Tatcher. Inizialmente favorevole al progetto europeo, nell’ottica di una sempre maggiore liberalizzazione dei mercati, la Lady di Ferro cambiò radicalmente atteggiamento durante tutto il periodo del suo governo, specie nei confronti dei progetti di integrazione politica e sociale delle allora Comunità, viste come intralcio al progetto neoliberista di smantellamento degli apparati statali, e della sottrazione del controllo dello Stato sul sistema economico. La paura della creazione di un Super-Stato europeo impegnò la Tatcher a far naufragare qualsiasi progetto di integrazione che non fosse conveniente per l’economia britannica.

Gli anni del new labour videro una tiepida partecipazione alle politiche di integrazione europea da perte del Regno, che preferì adottare una politica di “wait and see” nei maggiori temi (ad esempio, l’Euro).

Con l’avvento della nuova maggioranza e del nuovo governo conservatore guidato da David Cameron, in combinazione con i terremoti nei mercati finanziari e gli anni di politiche di austerity  imposte dell’Unione ad essi susseguitesi, viene reintrodotto in maniera roboante nel dibattito pubblico britannico il tema sulla permanenza o meno del Regno nell Unione Europea. Il crescente sentimento anti europeista trova la sua rappresentanza politica nel successo elettorale dello UKIP (United Kingdom Independence Party) alle elezioni europee del 2014, che trionfa sia su labour che su tories prendendo il 27% dei voti, circa 4 milioni e trecentomila voti.

A questo punto, occorre precisare che l’antieuropeismo contemporaneo non è un fenomeno britannico né originatosi nel Regno Unito. E’ un sentimento, e non un vero progetto politico, che tende ad individuare la causa di problemi economici, politici o sociali di un determinato Stato nelle condizioni di permanenza di questo nell’Unione Europea, e individua la soluzione di tali problemi nella rinegoziazione o nel recesso da determinati trattati, o tutti, che sanciscono gli obblighi di uno Stato nei confronti dell’Unione e viceversa.

Nel caso del Regno Unito, l’antieuropeismo si tinge di queste caratteristiche di base:

  • Non considera il progetto politico dell’Unione, la pace nel continente garantita da questa. Vede l’integrazione politica come una romantica “perdita di identità nazionale” del regno, con la convinzione di poter essere autosufficienti sia a livello diplomatico che militare.
  • Non considera i benefici garantiti dall’UE a livello commerciale fondamentali per il buon andamento dell’economia britannica. Sostiene che le perdite di mercato dovute all’uscita dal mercato unico potrebbero essere compensate attraverso una serie di FTA (free trade agreements) con Stati extraeuropei.
  • Considera la libera circolazione delle persone, pilastro delle politiche di integrazione europea, come una zavorra per il sistema di welfare britannico. Le risorse andrebbero utilizzate per garantire i servizi essenziali solo ai sudditi della Regina. In questo, le tasse pagate all’Unione costituiscono un ulteriore motivo carenza di fondi per il welfare.

Cavalcando l’ondata euroscettica, e preoccupato di vedersi sottratti voti domestici da parte dell’UKIP, David Cameron guidò la campagna elettorale del 2015 assumendo toni euroscettici, arrivando a promettere un nuovo referendum sulla permanenza del Regno nell’Unione.

Ed è a questo punto, che si verifica una commistione tra le istanze euroscettiche più o meno forti del Partito Conservatore e l’antieuropeismo dell’UKIP.

Le frange più di destra del partito Conservatore e lo UKIP guidarono l’iniziativa referendaria, nonostante la palese opposizione di David Cameron a tale iniziativa. Cameron stesso, nella convinzione di riuscire a sventare la vittoria dei “leave” al referendum, riuscì ad ottenere un accordo vantaggioso in sede UE, che limitava i benefici sociali agli immigrati europei in UK e sollevava il Regno da obblighi di integrazione successivi.

Questo ci fa capire come, politicamente, la Brexit sia stata un idea neoconservatrice, che ha sfruttato in campagna elettorale un miscuglio di istanze antieuropeiste o euroscettiche, in base all’elettorato da convincere.

Ciò, ovviamente, il 23 giugno non è bastato.

Il LEAVE ha vinto con il 52% di maggioranza, collocandosi maggiormente in Inghilterra e Galles. Dopo la vittoria del “leave”, e le dimissioni di Cameron, il nuovo governo guidato da Theresa May ha temporeggiato per mesi, sostenendo di avere un piano per a brexit, e di voler attivare la procedura di uscita entro Marzo 2017.Dopo questa carrellata di eventi, si arriva al dato odierno: il discorso di Theresa May di martedì 16 gennaio ci può fornire un’idea più dettagliata circa il tipo di brexit disegnata dall’attuale governo inglese, e tale discorso può essere riassumibile in questi punti:

  • La via sarà quella della “Hard Brexit”. Concretamente, ciò significa che il Regno Unito rinuncerà al mercato unico e a qualsiasi partecipazione collaterale all’integrazione europea. Non cercherà nemmeno di ottenere uno status simile a quello della Norvegia o della Svizzera. Tale scelta sembra essere motivata dal fatto che il governo Britannico non è disposto ad accettare uno dei vincoli principali del mercato unico: quello della libera circolazione delle persone. Allo stesso tempo, contrasta con il sopra descritto “nuovo nazionalismo Britannico” il fatto che tale partecipazione vincolerebbe il Regno alle scelte dell’UE senza però averne il diritto di voto.
  • Come conseguenza, Theresa May sembra già “mettere le mani avanti”: innegabilmente il Regno Unito dovrà commerciare con l’Unione Europea, ma altrettanto innegabilmente il Regno soffrirà dei danni economici, inizialmente dal procedimento di uscita in blocco dal mercato unico, e successivamente dalla stipulazione di un trattato commerciale con l’UE. La May sembra sostenere che condizioni troppo ineguali o sbilanciate a favore dell’UE in questo nuovo trattato saranno unicamente causa dell’”antipatia” e dell’”inimicizia” della stessa Unione.

La brillante soluzione per sventare un’apocalisse economica sembra duplice:

A) Creare una serie di trattati bilaterali con altri stati extraeuropei, che garantirebbero l’apertura di nuovi orizzonti di mercato, e bilancerebbero le perdite subite dai procedimenti di Brexit.

B) Nello stesso tempo, proporre ulteriori liberalizzazioni a livello fiscale e sociale, abbassando tasse e uccidendo il poco welfare e tutela del lavoro rimasta in UK.

Questi i fatti. Regna l’assoluta incertezza in merito a come questo tipo di linee programmatiche troveranno concretamente espressione, e soprattutto, in merito agli effetti di tali scelte politiche, economiche e diplomatiche.

E’ innegabile la circostanza per cui l’opzione della Hard Brexit si potrebbe rivelare un autentico disastro per la Gran Bretagna, sia a livello economico che politico, per diverse ragioni sia di breve che di lungo periodo.

Innanzitutto, i risvolti economici immediati di una relativa uscita dal mercato unico potrebbero essere dannosi in modo incalcolabile: nel 2015 le esportazioni di beni e servizi del Regno Unito in Europa ammontavano a circa 220 miliardi di sterline, pari al 44% dei 510 milioni totali. Un’ uscita netta dal mercato unico farebbe salire le tariffe sulle esportazioni dallo zero attuale a quelle standard stabilite dalla WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio), con perdite incalcolabli, almeno nell’immediato. Inoltre, non è affatto chiaro in che termini e quando il Regno Unito si avvicinerà a contrattare con l’Unione un nuovo accordo, e sulla base di quali presupposti: al di là delle retoriche sulle “punizioni” o meno, sembra inverosimile che l’Unione Europea consenta al Regno Unito di ottenere condizioni più privilegiate rispetto a quello che può offrire. Sicuramente, l’UK è una potenza economica, ma anche qui non è chiaro se lo sia di per sé o in virtù del suo particolare status nell’Unione stessa. Fuori da tale contesto, risulta difficile che l’UE possa trattare l’UK in modo più favorevole di altre economie, quali ad esempio l’India, che rappresentano mercati più ampi, dinamici e in crescita della Gran Bretagna stessa.

Da questa considerazione, consegue che il Regno Unito, nell’intento di stipulare trattati con altri stati extraeuropei, si potrebbe trovare nelle condizioni di dover scendere a compromessi ben più gravosi di quanto ci si possa aspettare. Del resto, la stipulazione di trattati bilaterali di scambi e investimenti (i cosiddetti BIT– Bilateral Investment Treaties- se riguardano solo gli investimenti, o di FTA- Free Trade Agreements- se riguardano sia tariffe che investimenti) si basa sulla forza economica delle parti. Risulta difficile immaginare la Cina o gli Stati Uniti, economie infinitamente più grandi del Regno Unito, contrattare condizioni di favore con uno Stato dall’economia indebolita e quantomeno dall’andamento incerto.

E qui la situazione paradossale: nel caso in cui il Regno Unito si trovi nell’urgenza di attrarre capitali per compensare le perdite della fase di uscita dall’UE, si troverebbe probabilmente nella posizione del debitore bisognoso: stati economicamente forti potranno concordare condizioni privilegiate per loro cittadini e imprese, facendo leva sulla maggiore competitività e peso diplomatico di cui godono. In breve, non è detto, anzi è molto difficile, che l’utopia di una Gran Bretagna globale e neo mercantilista, una sorta di “stato canaglia” tra superopotenze, si riduca ad una Gran Bretagna “colonizzata” ancor di più da imprese straniere.

Dunque, è vero che negli ultimi anni l’UE ha subito un leggero declino a livello commerciale, e che il Mondo è aperto, ma le condizioni di accesso a questo “sogno globale” potrebbero essere più gravose di quanto il governo Britannico si immagini.

E qui potrebbe quantomeno emergere il primo rischio sociale di tale operazione e il controsenso politico che ne sta a monte: se è stato il sentimento antieuropeista e “neonazionalista” a muovere l’elettorato della brexit, i “delusi della globalizzazione”, “the ones who are left behind” eccetera, che senso avrebbe accettare di essere invasi da capitali indiani, cinesi, americani, giapponesi, indonesiani ecc, che dettano le condizioni di lavoro e salario, con la compiacenza di un governo in necessità di attrarre capitali per evitare la catastrofe economica?

Per fare un esempio concreto di ciò, basta vedere l’opinione del neoeletto Presidente americano in merito al TTIP: non era d’accordo ad un tale tipo di trattato in quanto esso avrebbe portato le imprese europee a competere alle stesse condizioni di mercato con quelle americane, temendone i risvolti. Questo perché il peso contrattuale dell’UE avrebbe consentito all’unione di modellare l’accordo anche a vantaggio delle sue imprese. Allora come mai invece, al di là della propaganda, si troverebbe ben disposto a stipulare un BIT o FTA con il Regno Unito? Una risposta potrebbe prendersi da quanto descritto sopra: la bilancia di spostamento di capitali sarebbe nettamente favorevole alle imprese americane.

Secondo l’opinione di chi scrive, questa conformazione economica/sociale descritta e sognata dall’attuale governo conservatore è null’altro che un delirio neoliberistico. Il governo britannico cerca di porre rimedio ad un problema riguardante la globalizzazione con più globalizzazione. E il prezzo di questo delirio neoliberistico sarà pagato dai sudditi della Regina, in termini di disuguaglianza sociale e impoverimento relativo.

Questa serie a cascata di problemi a livello economico, porta con sé delle conseguenze a livello politico.

Innanzitutto, non si capisce come una “Britannia Globale” possa conciliarsi con le tanto care politiche anti immigrazione, né tantomeno come un paese percepito come xenofobo possa essere considerato attrattivo, o quantomeno più attrattivo della vicina Irlanda o della Germania.

Il secondo enorme problema a livello politico, e piuttosto immediato, riguarda la Scozia. La Scozia ha votato in larga maggioranza per rimanere nell’UE. I motivi sono chiari: le attività di pesca in Scozia sono un pilastro dell’economia nazionale, assieme alle esportazioni di greggio. La possibilità di vendere petrolio senza dazio nel mercato unico, combinato con le politiche Europee a sostegno della Pesca, rendono l’UE un ente irrinunciabile per il buon andamento dell’economia Scozzese. Il Primo Ministro del Governo Scozzese, Nicola Sturgeon, dopo aver preso atto del risultato del referendum si era detta preoccupata per la protezione degli interessi scozzesi nel futuro Regno Unito. Nei mesi successivi, la Premier Scozzese aveva ipotizzato la “Soluzione norvegese” per la Brexit, o uno status speciale per la Scozia. Opzioni bocciate dall’Ultimo discorso di Theresa May. A questo punto, la possibilità che la Scozia si muova per un nuovo referendum sulla sua Indipendenza sembra la più verosimile delle opzioni. Ciò è consentito dall’Accordo di Edimburgo del 2012, per il quale i governi Scozzese e Britannico sono vincolati ad accettare qualsiasi risultato di un ipotetico referendum.

Il Regno Unito si troverebbe anche politicamente mutilato, aggravando ulteriormente la sua posizione in un’ipotetica prospettiva di attrattività internazionale, con conseguenti e inevitabili tensioni sociali.

In conclusione, alla follia di un referendum sull’uscita del Regno Unito dall’UE, si è aggiunta la follia di questo governo conservatore, che invece di consultare nuovamente la popolazione britannica su che tipo di Brexit avrebbero voluto, ha deciso di intraprendere una via di guerre diplomatiche e globalizzazione spinta, in un periodo di incertezza sia politica che dei mercati che non accenna ad attenuarsi.

Al di là dei dati e dei numeri che potranno quantificare la Brexit, sia in termini positivi che negativi, appare inverosimile che la conformazione economica prospettata possa portare ad un aumento del benessere generale e dell’uguaglianza sociale del cittadino Britannico medio, diciamo extra Londinese. Anzi, sono molto più palesi i rischi che si verifichi l’opposto.

 

Articolo di Matteo Piasentini

Immagine di Gatis Sluka