Lunedì 5 aprile le autorità turche hanno emesso alcuni mandati d’arresto nei confronti di 10 ammiragli in pensione con l’accusa di “utilizzo della forza e violenza per minare l’ordine costituzionale”. L’accusa è “basata” su un documento aperto, firmato da 104 ex-ufficiali della Marina turca e pubblicato il giorno precedente, in cui veniva criticata la posizione governativa durante la discussione di uno dei tanti mega-progetti voluti da Erdoğan: il Canale di Istanbul. Più che una critica al progetto in sé – un canale artificiale che dovrebbe connettere il Mar Nero al Mar di Marmara – il documento esprimeva preoccupazione per il fatto che all’interno della discussione su tale progetto si fosse lasciato spazio e sia stata presa in considerazione la possibilità per Ankara di ritirarsi dalla Convenzione di Montreux. Le prime critiche sono infatti emerse il 24 marzo scorso, quando lo speaker dell’Assemblea parlamentare turca, Mustafa Șentop, rispondendo a un quesito sull’autorità del Presidente in materia di trattati internazionali – alla luce del ritiro dalla Convenzione di Istanbul del 20 marzo scorso tramite decreto presidenziale – ha confermato la possibilità e i poteri del Presidente nel ritirarsi dalla Convenzione sugli Stretti del 1936 (sottolineando però la differenza tra possibilità e probabilità).

Tale decisione, l’ultima di una lunga e discutibile campagna di repressione e incarcerazioni tra la società civile e i corpi armati del paese, va inquadrata, oltre che nel contesto di centralizzazione dei poteri e asservimento della magistratura da parte del Presidente Recep Tayyip Erdoğan, all’interno della complessa evoluzione delle relazioni tra autorità civili e forze armate nella recente storia della Turchia repubblicana. Solo in questo modo è possibile comprendere appieno, non certo legittimare, il largo supporto popolare di cui gode il governo per l’implementazione di tali scelte; nonché il diffuso timore, se non vera e propria avversione, di gran parte della popolazione turca verso la tradizionale tendenza delle Forze Armate ad inserirsi all’interno del dibattito politico a colpi di “memorandum”, rievocando un buio passato nella storia repubblicana turca.

Il potere militare in Turchia

Il ruolo dei militari nel Paese è radicato profondamente nella storia, società e cultura turca, sebbene a partire dal nuovo millennio abbia conosciuto un sostanziale ridimensionamento e mutamento nel suo rapporto con il potere civile. Non a caso ciò è avvenuto in concomitanza all’altrettanto incisiva trasformazione del tessuto sociale e identitario turco avvenuto sotto la leadership dell’AKP di Erdoğan.

In numerose occasioni della storia repubblicana l’instabilità politico-economica ha portato il Paese della Mezzaluna vicino al collasso. In tali situazioni il potere militare, con un certo grado di legittimità popolare, è intervenuto direttamente o ha esercitato pressioni sulle élite politiche con l’obiettivo di ripristinare un certo grado di stabilità e ordine nel Paese. Tuttavia, l’interventismo militare nell’agone politico turco è sempre stato confinato ad un ruolo regolativo e di protezione dall’instabilità e dei ‘principi costituzionali kemalisti’, non sconfinando mai nell’appropriazione della sfera politica tout court. Essi hanno sempre preferito, per quanto possibile, rimanere estranei alla gestione diretta del potere politico quotidiano. Anche in quei casi (1960;1971;1980) in cui hanno effettivamente esautorato i governi democraticamente eletti per dare vita a governi misti o prettamente militari, lo hanno sempre fatto con l’obiettivo ultimo, dichiarato e poi rispettato, di cedere successivamente il potere a nuovi governi civili. Proprio tale modalità di intervento viene caratterizzata da Eric Nordlinger come tipica dei Regimi moderatori o Regimi Guardiani. Assieme a questa peculiarità, ciò che rende il caso turco un unicum rispetto alle numerose altre esperienze latinoamericane, africane o mediorientali è il fatto che le Forze Armate di Ankara hanno sempre visto loro stesse come detentrici del sacro dovere di proteggere l’ideologia su cui la Repubblica fu fondata e forgiata: il Kemalismo. È stata propria questa dimensione ideologica a determinare il peculiare ruolo dei militari turchi estendendolo al di là del mero ordine pubblico o degli interessi politici ed economici del Paese, andando a includere la difesa e protezione della stessa “eredità kemalista”. Questo proprio perché il processo stesso di formazione dello Stato turco ha determinato lo sviluppo di un concetto di sicurezza caratterizzato da una miscela di idee strettamente connesse all’identità dello stato e alla sua stessa esistenza. La legge 2945 del novembre 1983 definisce infatti la Sicurezza Nazionale come il “difendere e proteggere l’ordine costituzionale, l’esistenza della Nazione, la sua unità e integrità e tutti i suoi interessi, inclusi quelli politici, sociali, culturali ed economici, a livello internazionale contro ogni minaccia interna ed esterna”.  

Le Forze Armate turche hanno goduto per gran parte del XX secolo di ottima reputazione in madrepatria, nonostante il fatto che, nell’intento di ripristinare l’ordine durante gli anni al potere, si siano rese più volte autrici di efferati crimini e repressioni. Questo, sia perché hanno rappresentato a lungo la più efficiente istituzione del Paese, evitando (in parte) di lasciarsi coinvolgere in attività e scandali di corruzione – a differenza della politica, percepita come venale, incompetente, priva di principi morali e individualista sia perché, raccogliendo l’eredità del Padre fondatore della Repubblica, hanno impersonificato le più alte virtù della nazione.

Il lento declino del Kemalismo e la “Sintesi Turco-Islamica”

A partire dagli anni Ottanta i primi processi di globalizzazione portarono a uno sviluppo e modernizzazione del Paese che, parallelamente ai processi di inurbamento interno, determinarono l’ingresso nei settori burocratici, economici e politici di un numero sempre maggiore di giovani e ambiziosi cittadini turchi, prevalentemente sunniti, provenienti spesso dalle città dell’Anatolia più profonda. Essi, cresciuti al di fuori delle grandi città cosmopolite ed “europeizzate del Paese, erano fortemente inseriti in network culturali, sociali e religiosi di stampo rurale e comunitario. Per questa crescente classe sociale l’enfasi posta dal Kemalismo su un rigido secolarismo appariva estraneo e anacronistico. Fu proprio la giunta militare (1980-’83) sotto la guida del Generale Evren ad aprire la strada a una rielaborazione del concetto e principio kemalista in una nuova dottrina: la Sintesi Turco-Islamica. Tale dottrina lasciava intatti i principi Kemalisti di reverenza nei confronti dell’autorità e dello Stato, così come l’ossessione verso il concetto di sicurezza nazionale e l’idolatria della figura di Mustafa Kemal. Ma ad essi affiancava una forte enfasi sul carattere islamico della società turca, ritenendo di poter così incanalare e dirigere l’aspetto religioso nell’interesse dello stato, utilizzandolo per contrastare e togliere spazio ai movimenti della sinistra in funzione anticomunista. Sotto la guida dei generali una Turchia formalmente secolare divenne informalmente islamicosunnita: tale passaggio culminerà nel completo sgretolamento del secolarismo del Paese nei due decenni del nuovo millennio, grazie alle indiscusse abilità di Recep Tayyip Erdoğan nello sfruttare il contesto interno e internazionale.

Erdoğan, l’Unione Europea e il declino del prestigio dei Militari

Nelle elezioni del novembre 2002 l’83% dei voti fu raccolto da partiti con una chiara agenda pro-UE e, di conseguenza, Erdoğan non esitò a incanalare tali consensi perseguendo un chiaro cammino verso il raggiungimento dei parametri per l’accesso all’Unione. Tra il 2002 e il 2007, stando agli indicatori internazionali, le libertà civili e politiche nel Paese conobbero un sostanziale approfondimento, raccogliendo così il plauso degli osservatori (occidentali) esterni. L’agenda di democratizzazione erdoğaniana avanzò di pari passo con l’obiettivo di contenere il potere politico (formale) dell’apparato militare, presentando ciò come un necessario step richiesto dai criteri di accesso all’Unione Europea. Appoggiato e legittimato tanto dall’esterno quanto dal proprio mandato pro-europeo, Erdoğan riuscì a implementare fin da subito, parallelamente alle riforme civili e sociali, anche una serie di ristrutturazioni istituzionali atte a ridimensionare l’influenza politica dei militari formalizzata dalla Costituzione del 1980. Il passo successivo, inevitabilmente, fu quello di ridimensionarne anche il potere informale; per far ciò, tuttavia, Erdoğan era conscio di non poter (ancora) sfidare apertamente il c.d. Stato Profondo turco (Derin Devlet). Una prima prova di forza si manifestò tuttavia durante la crisi politico-istituzionale del 2007, quando il partito di governo AKP nominò Abdullah Gül, tra i fondatori del partito islamico e che in precedenza aveva criticato il divieto di portare l’hijab in pubblico, per la carica di Presidente della Repubblica. A tale nomina le Forze Armate Turche risposero rilasciando un comunicato stampa online (il c.d. “e-memorandum”) con cui rivendicarono il proprio ruolo di guardiani del secolarismo e minacciarono “certi gruppi” che stavano lavorando per minare i principi secolari della Repubblica. Ovvero, essi fecero ricorso alla tradizionale pratica del minacciare l’intervento diretto come strategia di compellenza e/o coercizione verso i partiti politici. Tuttavia, mentre nei precedenti storici del “golpe del memorandum” (1971) e del “colpo di stato post-moderno” (1997) i secondi cedettero alle pressioni e minacce dei primi[1], nel 2007 Erdoğan, conscio dell’ampio supporto popolare e ben più scaltro e abile politicamente, decise di ‘chiamare il bluff’ dei militari rifiutandosi di ritirare il supporto a Gül. La conseguente inazione di questi ultimi ne screditò l’autorità e il prestigio, segnando l’inizio della fine del dominio delle Forze Armate sul Paese, confermando invece un 47% al leader turco alle elezioni generali del luglio 2007.

Il vero terreno di confronto-scontro tra l’AKP e l’establishment politico-militare si svolse tuttavia a colpi serrati nell’arena giudiziaria e si ridefinì alla luce di intrighi e complotti che condussero a importanti arresti tra i più alti vertici militari: le implicazioni dell’esercito nel «caso Ergenekon» contribuiscono in modo decisivo a legittimare un intervento del governo in decisioni da sempre appannaggio delle autorità militari. L’affaire Ergenekon si apre quando, nell’ambito di un’operazione antiterroristica, avviene il ritrovamento di un deposito di bombe a mano in una proprietà di un alto ufficiale dell’esercito in pensione. A partire dalle prime inchieste emergono man mano nuovi tasselli fino a far emergere un’enigmatica e controversa organizzazione ultranazionalista (Ergenekon, appunto) con ramificazioni profonde nella struttura politico-militare del paese e coinvolta in omicidi, attentati e operazioni violente nel passato recente del Paese. L’Organizzazione viene accusata di numerose operazioni aventi l’obiettivo di delegittimare il governo e creare una situazione di tensione e caos tale da spianare il terreno all’attuazione di un colpo di stato. Il caso Ergenekon sollevò tuttavia anche molti dubbi e sospetti, specie perché esso ebbe luogo in concomitanza di una valutazione della Corte Costituzionale turca circa la costituzionalità del partito islamico AKP, ponendo questo a rischio di interdizione dalla politica. L’AKP, da parte sua – grazie al movimento gülenista, in questa fase suo alleato e ben radicato all’interno degli apparati giudiziari e della stampa – trasformò il caso Ergenekon in una “mani pulite” turca contro un indefinito ma sovra-percepito Deep State. L’avvenuto ribaltamento dei “rapporti di forza” tra AKP e Forze Armate emerse chiaramente nel luglio del 2011 quando i comandanti di Esercito, Marina e Aeronautica consegnarono le proprie dimissioni in segno di protesta contro le decine di incarcerazioni che continuavano ad accumularsi come strascichi del caso Ergenekon.  A differenza del passato, dove ad una manifestazione di dissenso dei militari i governi civili turchi si dimettevano, adesso erano le alte cariche delle Forze Armate a dimettersi.  

Infine, arrivando al passato più prossimo e ancora vivido nella nostra memoria, Erdoğan completò definitivamente la destrutturazione del potere militare – questa volta accompagnato dall’ex alleato movimento gülenista – all’indomani del fallito colpo di stato del luglio 2016.

Con questa breve, e sicuramente non esaustiva, analisi che ha ripercorso le relazioni tra potere militare e civile nel Paese della Mezzaluna si è cercato di mettere in evidenza gli aspetti di continuità e di rottura. L’affaire Ergenekon, spesso dimenticato nel discorso corrente, ha costituito un caso senza precedenti in cui per la prima volta si è processato un tentativo (supposto) di colpo di Stato e, ancora per la prima volta, sono stati chiamati a risponderne, davanti a una corte civile, militari, generali e ufficiali delle forze armate. Una pratica che è continuata per tutto il decennio successivo e, come dimostrato dai più recenti fatti, continua tutt’oggi in maniera ancor più indiscriminata alla luce dell’accentramento dei poteri e dell’autoritarismo più marcato del Presidente. Tuttavia, ripercorrendo proprio la storia della Turchia repubblicana è possibile riuscire a capire come sia possibile che ciò che ai nostri occhi appare al limite del grottesco (l’accusa di golpe a un centinaio di ufficiali in pensione che manifestano il proprio dissenso verso una determinata politica), sia così preso sul serio e accettato da buona parte del popolo turco. L’immaginario collettivo di questo popolo è fortemente influenzato dalle esperienze storiche che hanno contribuito a innestare, non senza una certa colpa della politica, una mentalità di diffidenza verso attori esterni e interni al Paese al limite del carattere paranoico.


[1] In particolare nel 1997 il National Security Council (organo istituzionale delle Forze Armate) con un comunicato costrinse il governo guidato da Necmettin Erbakan a rassegnare le dimissioni, proprio in virtù del suo orientamento politico-religioso islamico.  


FONTI/BIBLIOGRAFIA

Inci Ozbek and Firat Kozok, “Erdogan Summons Cabinet After Ex-Admirals Challenge Policy”, Bloomberg, 4 aprile 2021

Bolat, Nur (2010), “L’affaire Ergenekon: quel enjeux pour la démocratie turque?”, Politique Etrangére, Vol. 1, p. 42

Calıs, H. Saban (2017), Turkey’s Cold War: Foreign Policy and Western Alignment in the Modern Republic, I.B.Tauris: London/New York

Cagaptay, Soner (2020), The New Sultan: Erdoğan and the crisis of modern Turkey, I.B. Tauris: London/New York, pp. 58-9; p. 117

Jenkins, Gareth (2001), “Context and Circumstance: The Turkish Military and Politicsc”, The Adelphi Papers, Vol. 41, n° 337, p. 7

Nocera, Lea (2011), La Turchia Contemporanea, Carocci, Roma, pp. 123-125

Gul Tuysuz and Sabrina Tavernise, “Top Generals Quit in Group, Stunning Turks”,  New York Times, July 29, 2011