Laureato presso la Cesare Alfieri di Firenze, sono appassionato di Stati Uniti, in particolare di politica, NBA e qualsiasi cosa riguardi Donald Glover.


Qualora capitaste sul sito “Daily Stormer”, in homepage, sulla destra, potrete trovare un grafico che si aggiorna in tempo reale denominato “Demographic countdown”. Il grafico, un piano cartesiano, monitora la percentuale di popolazione bianca all’interno degli Stati Uniti e, secondo modelli di calcolo non meglio specificati, identifica un giorno nel quale i bianchi non saranno più la maggioranza all’interno del paese. A oggi la data è prevista per il 20 settembre 2037.


Il Daily Stormer è un sito gestito da Andrew Anglin, uno dei più noti all’interno della galassia dell’Alt-Right, un insieme eterogeneo e difficilmente circoscrivibile con cui ci si riferisce alla versione più attuale dell’estremismo di destra statunitense. È all’Alt-Right che possiamo attribuire alcuni degli eventi più tragici della storia recente nordamericana; gli attentati commessi da Dylann Roof, Robert Bowers e Patrick Crusius, rispettivamente avvenuti nel 2015, nel 2018 e nel 2019, sono solo tre degli esempi possibili. Che i non bianchi saranno presto maggioranza negli States è un fatto: il 2019 è stato il primo anno nella storia del paese in cui i minori di 16 anni erano a maggioranza non bianca. Sebbene le implicazioni socioeconomiche della pandemia in corso possano aver rallentato il processo, lo stesso sembra rimanere inevitabile. La lettura che l’estrema destra americana dà alla questione è una lettura di tipo razzista: il grafico presentato dal Daily Stormer altro non è che una delle innumerevoli versioni del The Great Replacement.

Secondo questa teoria, ideata dal giornalista francese Renaud Camus, la popolazione occidentale sta venendo progressivamente sostituita dai vari flussi migratori, provenienti da Africa e Medio Oriente nel caso europeo e da Messico e America Latina nel caso nordamericano.

Pare superfluo sottolineare come non sia così, non è poi il fine di questo articolo; vale invece la pena andare a vedere come questo atteggiamento vittimista, posto in essere dall’estrema destra statunitense, stia venendo ripreso a livello mainstream dal Partito Repubblicano. Quest’ultimo, mostratosi incapace di rinnovarsi in un progetto politico distante dal modello imposto da Trump (a sua volta nostalgico di una società più consona agli anni della segregazione che al 2021), combatte una battaglia di retroguardia da un punto di vista culturale, additando questo mancato rinnovamento a concetti poco chiari, fra gli altri la cosiddetta “Cancel Culture”. Ma cos’è la Cancel Culture?

Rifacendosi alla definizione offerta dal dizionario Merriam-Webster, si tratta del richiedere la rimozione di un qualcosa avente un valore socioculturale come un metodo di esprimere il proprio dissenso ed esercitare una pressione. Il termine ha avuto particolare risonanza dopo la scorsa estate, quando all’indomani dell’assassinio del cittadino afroamericano George Floyd, i vari movimenti a favore dell’eguaglianza razziale hanno chiesto la rimozione di monumenti ritenuti inappropriati, poiché raffiguranti individui rappresentativi di un’eredità storica lesiva nei confronti di una parte della società. Il dibattito riguardante le statue è stato molto presente, ed è di una complessità che meriterebbe ben più di un singolo articolo[1].  

È però necessario affermare come i monumenti negli Stati Uniti, in particolar modo nel Sud, abbiano un valore storico-iconoclastico diverso da quello che potrebbero avere, ad esempio, in Europa. Questo perché le statue che rappresentano generali confederati, conclamati schiavisti e via discorrendo, non sono state instaurate nel momento in cui questi soggetti erano vivi o comunque nel pieno del loro sforzo politico; sono bensì postume. Uno studio del 2016 condotto dal Southern Poverty Law Center, intitolato “Whose heritage?” rivela che la maggior parte di monumenti e luoghi pubblici in onore dei confederati risalgono a due decenni in particolare; quello fra 1905 e 1915 e gli anni Sessanta. Non è un caso. Sono anni in cui la tensione relativa alla questione razziale era molto alta; l’inizio del ‘900 è il periodo delle leggi Jim Crow, gli anni Sessanta sono gli anni del Movimento per i diritti civili. È possibile dire come questa iconoclastia confederata non fosse soltanto un omaggio alla memoria dei caduti, ma anche una rivendicazione ideologica, fatta nei momenti in cui le classi dominanti si sentivano più a rischio.

Torniamo quindi a oggi. Perché tanto scalpore nella decisione di rimuovere delle statue di personaggi simboleggianti un passato razzista? Perché a essere rimossa è la posizione di supremazia di una cultura bianca, borghese, che negli Stati Uniti ha utilizzato il razzismo per affermare la propria posizione. Criticare il passato confederato equivale quindi a criticare parte del presente.  Così si riassume l’utilizzo che viene fatto in politica del termine Cancel Culture; chi la invoca con fare vittimista combatte una battaglia culturale volta a preservare il dominio di una parte della popolazione nei confronti di un’altra.

Secondo varie testate di analisi politica statunitensi, il G.O.P. farà dell’attacco ad una presunta Cancel Culture obiettivo principale del proprio manifesto politico, per più motivi. Innanzitutto, rappresenta una continuità con parte della tradizione politica repubblicana; lo storico Thomas Zimmer, rilasciando un commento al sito FiveThirtyEight, ha detto come il dibattito relativo alla Cancel Culture non sia altro che una versione attuale del “Politically Correct”, altra locuzione tanto discussa in politica statunitense durante gli anni Ottanta e Novanta. Questa continuità è sinonimo di unità, un qualcosa che in questo momento i Repubblicani vantano nei confronti dei Democratici. Il partito di Joe Biden è oggi più diviso di quanto non possa sembrare; la “new wave” composta dalle varie Alexandra Ocasio-Cortez, Rashid Tlaib e Ayanna Presley si scontra spesso con una establishment conservatrice, il cui esempio più recente è offerto da Joe Manchin, senatore della Virginia Occidentale di stampo centrista, classe 1947, noto per aver costretto i Democratici a ritrattare parte delle proprie proposte relative al “Refund Bill”, il piano di aiuti economici proposto da Biden, in risposta alla pandemia. Al contrario, i Repubblicani sembrano particolarmente uniti; salvo mosche bianche rappresentate da personaggi come Liz Chaney, parlamentare del Wyoming, il partito si riunisce attorno alle stesse idee, senza divisioni interne degne di nota. Infine, come scritto da Perry Bacon jr, senior writer presso FiveThirtyEight, questa strategia permette ai Repubblicani di giustificare comportamenti estremisti sia passati che futuri.

Già oggi, il partito sta provando a far passare una narrativa secondo cui la rimozione degli account Facebook e Twitter di Donald Trump rappresenta una censura ingiusta, operata da “liberal tech companies”, nei confronti di un rispettabile conservatore, invece che il modo attraverso cui le suddette piattaforme si tutelano dall’incitamento alla violenza fatto dallo stesso Trump.

In conclusione, il vittimismo tipico dell’estrema destra sembra star prendendo sempre più spazio nell’agenda del conservatorismo istituzionale, ossia il G.O.P., che schermandosi con artifici retorici come la Cancel Culture, strizza l’occhio alle parti più estreme del proprio elettorato.

E beninteso, la battaglia del partito Repubblicano è una “Culture War” combattuta su svariati fronti; si pensi all’opposizione esercitata da Trump nei confronti del 1619 Project, un’iniziativa del New York Times, partita nell’agosto del 2019, che ha l’intento di ricalibrare il ruolo della schiavitù all’interno della storia statunitense; il nome stesso del progetto è un riferimento all’anno in cui i primi africani vennero venduti come schiavi sul suolo nordamericano.

Che poi, cos’è che non si potrebbe più dire? Quale sarebbe l’opera di censura applicata nei confronti della società occidentale? Uscendo dalle varie bolle social, la Georgia ha appena approvato una legge che limita drasticamente il diritto di voto, andando a danneggiare le minoranze. Ventotto Stati stanno prendendo in considerazione leggi apertamente transfobiche, andando a minare le possibilità per le ragazze e donne trans di partecipare ad attività sportive (in quanto danneggerebbero le possibilità di vittoria delle partecipanti cisgender), così come discutono di limitare loro l’accesso all’assistenza sanitaria. Anche se l’approvazione delle proposte è improbabile, solo il fatto vengano fatte dovrebbe essere eloquente; di censure, al di fuori di torri d’avorio ovattate, non ce ne sono. A meno che la censura in questione sia quella del buon senso; se la censura è il rifiuto (e la condanna conseguente) della misoginia, della transfobia, del razzismo e in generale di qualsiasi azione che vada a ledere la libertà altrui, allora sì, viva la censura, anzi, che la si rivendichi. Togliere la libertà di propagandare idee xenofobe a intellettuali da salotto (se qualcuno pensasse a J. K. Rowling, you’re spot on!) val bene la possibilità di una società in cui le minoranze possano sentirsi meno oppresse.


[1] Un interessantissimo documento riguardante la questione delle statue confederate negli Stati Uniti è il saggio di Alessandra Lorini e Paolo Ceri, intitolato “La costruzione del nemico, Istigazione all’odio in Occidente”, edito da Rosenberg&Selllier, pubblicato nel 2019.