Studentessa di Lettere moderne all’Alma Mater Studiorum, vivo divisa tra Prato e Bologna. Nell’attesa (e nella speranza) di diventare un giorno giornalista, mi dedico alla letteratura e alla politica. Nel tempo libero scrivo, vado in palestra, scrivo.


Dodici donne uccise in poco più di due mesi. Una ogni cinque giorni. È questo il triste esordio del 2021 sul fronte della violenza di genere. Una scia di femminicidi che ha riportato l’attenzione su quello che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, intervenuto in occasione della giornata internazionale della donna, ha definito un «fenomeno impressionante».

Femminicidi: dati e tendenze

Stando ai dati Eures riportati da il Sole 24 Ore, tra gennaio e ottobre 2020 sono state uccise 81 donne (91, quasi una ogni tre giorni, se si aggiungono dieci donne uccise in contesti di criminalità comune o vicinato). Il presidente Mattarella, invece, ha parlato di 73 donne. Si è sbagliato? No, l’incertezza dei numeri è dovuta al fatto che non è sempre facile decidere se la morte di una donna rientri in questa categoria. Il femminicidio, infatti, non è un semplice omicidio. Un femminicido è l’uccisione di una donna in quanto tale, «in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità» (Devoto-Oli, 2009). 

Essendo un fenomeno a sé, il femminicidio non segue l’andamento statistico degli omicidi. Dagli anni Novanta a oggi, infatti, gli omicidi sono diminuiti sensibilmente, ma a trainare il calo è stato il crollo degli assassinii con vittime di sesso maschile (da quasi 4 per 100mila abitanti a meno di 1, secondo l’Istat). I crimini con vittime di sesso femminile, invece, sono rimasti pressoché stabili (intorno a 0,50 per 100mila abitanti), segno che le cause di questi delitti sono diverse e più difficili da estirpare.

Patriarcato e femminicidio: un rapporto di causa-effetto

La causa profonda del femminicidio si trova già nella sua definizione, in quella «sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale» che confina le donne in una posizione di subalternità nei confronti di un uomo (il padre, il marito o il fratello) che può disporre di loro come vuole. Anche uccidendole, se tentano di sfuggire al suo controllo.

Ma che cos’è, esattamente, il patriarcato? Sulla base di un testo diventato ormai un classico del pensiero politico ‒ Il contratto sessuale (1997) di Carole Pateman ‒ si può definire il patriarcato come una struttura di dominio degli uomini sulle donne che attraversa le epoche storiche. Era patriarcale la Roma antica, che attribuiva al pater familias il diritto di vita e di morte su moglie e figli, ed era patriarcale l’Italia fascista, circa duemila anni dopo.

Il patriarcato non è sempre uguale a se stesso, ma si adegua al contesto storico, politico e culturale delle varie età. Quello che però resta immutato è la natura gerarchica del rapporto uomo-donna. Non a caso il patriarcato ha a lungo trovato terreno fertile nel pensiero conservatore, che da sempre ha tra i suoi elementi fondamentali proprio la gerarchia e l’ordine.

La teoria dell’irrazionalità femminile

Ma come nasce la gerarchia uomo-donna? Perché le donne sono state a lungo alla mercé degli uomini? Sulla questione si sono interrogati filosofi del calibro di Thomas Hobbes (1588-1679) e John Locke (1632-1704), giungendo a conclusioni anche molto distanti tra loro.

Per Hobbes le donne sono state sottomesse perché hanno perso una guerra. Nello stato di natura hobbesiano tutti gli esseri umani sono liberi e uguali, quindi la subordinazione femminile non è una questione naturale ma politica. Per Locke, al contrario, le donne dipendono dagli uomini perché sono per natura irrazionali, e dunque inferiori. Tra le due posizioni, è stata quella di Locke a prevalere e ad essere usata, fino almeno ai primi decenni del Novecento, come argomentazione per privare le donne di importanti diritti: può una donna votare, se è irrazionale? Può una donna gestire un’eredità, se è preda dei suoi impulsi? Può una donna decidere per sé?

Carole Pateman ha introdotto un punto di vista ulteriore, che individua il momento cruciale nel matrimonio, interpretato come un “contratto sessuale” in cui la donna accetta di sottomettersi al marito. Contestualmente, la donna accetta anche una divisione sessuata del lavoro. Tutto ciò genera una struttura gerarchica, a lungo non contestata dalle donne stesse, che pone l’uomo in una posizione di potere e controllo sulle donne della sua famiglia.

È la fine del patriarcato? 

Il patriarcato non è scomparso con la fine della seconda guerra mondiale e l’avvento della democrazia in Europa. Anzi. L’Italia degli anni Cinquanta continuava a essere pienamente patriarcale, nonostante la Costituzione italiana (1948) sancisse la parità di tutti i cittadini «senza distinzione di sesso» (art.3).

Una prima, forte scossa al patriarcato è arrivata tra gli anni Sessanta e Settanta, quando le donne hanno iniziato a rifiutare quel “contratto sessuale” che lasciava a loro il lavoro domestico. Da allora le donne hanno conquistato molti diritti, ma la situazione resta complessa.

Alcuni sostengono che, nonostante i molti attacchi, l’impalcatura patriarcale sia ancora in piedi, come dimostrerebbero i molti femminicidi. Altri invece interpretano i femminicidi come il colpo di coda di un patriarcato ormai alla fine dei suoi giorni. Quello che è certo è che le donne continuano a morire perché donne. Le vittime di femminicidio non hanno altra colpa. Una donna non muore «perché l’ha lasciato», un uomo non uccide «perché era geloso». Questi elementi (fuorvianti) sono solo la punta di un iceberg chiamato patriarcato, che forse si sta sciogliendo ma non abbastanza in fretta.           

Fonti dei dati:

  • Istat, Omicidi di donne, 2019
  • Istat, Le vittime di omicidio, 2018
  • Il Sole 24 Ore, Eures: stabile il numero dei femminicidi nel 2020, effetto lockdown sulle vittime conviventi (+10,2%), 25 novembre 2020