“Parlo di Andrea Caffi come dell’uomo migliore, e inoltre il più savio e il più giusto che nel mio tempo io abbia conosciuto. […] alla sua amicizia devo quel che di meglio posso aver acquistato nel corso della mia vita” (Nicola Chiaromonte)
Andrea Caffi è stata una delle figure più affascinanti del movimento socialista italiano ed europeo del Novecento. Egli era un politico, un giornalista, un filosofo la cui attività intellettuale risulta tutt’oggi fortemente innovativa e attuale.
Nato a San Pietroburgo nel 1887 da genitori di origine italiana, ancora giovanissimo aderì al socialismo militando nella corrente menscevica e prese parte alla Rivoluzione russa del 1905.
Per il suo impegno antizarista, rimase in carcere fino al 1908, per poi rimanere in esilio per tutta la sua vita. Caffi studiò a Filosofia a Berlino, dove fu allievo di Georg Simmel. Successivamente entrò in contatto con le avanguardie artistiche e letterarie nella Parigi di inizio secolo.
In quegli anni viaggiò anche in Italia, soggiornando a Firenze dove divenne amico di Giuseppe Prezzolini e frequentò il gruppo della rivista “La Voce”. Fece visita a Petr Kropotkin (che considerava, allora, “lo spirito più puro del movimento rivoluzionario russo”), all’epoca esule a Rapallo.
Nel 1914 partecipò alla Prima Guerra Mondiale prima arruolandosi con la legione garibaldina in Francia, poi arruolandosi con l’Italia, ma in entrambe le esperienze fu ferito e dovette abbandonare il combattimento.
Inviato nell’estate del 1919 dal “Corriere della Sera” a Costantinopoli come corrispondente, verso la fine dello stesso anno Caffi ne approfittò per ritornare in Russia attraversando clandestinamente il confine. In un primo momento sembrò nutrire speranze nella rivoluzione bolscevica, ma gli bastò poco tempo per rendersi conto della natura sempre più illiberale e dispotica del regime sovietico.
Nel maggio 1925 fu tra i firmatari e sostenitori del Manifesto degli intellettuali antifascisti promosso da Benedetto Croce. Nel 1926 collaborò con la rivista “Il Quarto Stato” di Pietro Nenni e Carlo Rosselli, occupandosi di politica estera. Grazie a questa esperienza, Caffi ampliò la sua passione e le sue conoscenze storiografiche extraeuropee.
Nel 1927 scappò dall’Italia per evitare l’arresto e si rifugiò in Francia. Fu lì che Caffi iniziò a frequentare artisti e scrittori del calibro di Paul Valéry, Fernand Léger, Valéry Larbaud e Jean Paulhan.
Verso la fine del 1930, si trasferì presso amici nel sud della Francia, poi a Parigi. Si legò al movimento antifascista dei fuorusciti, in particolare a “Giustizia e Libertà”, frequentando anche anarchici italiani e gli ambienti dell’emigrazione russa.
Fu nel 1932 che Caffi conobbe – negli ambienti di Giustizia e Libertà – Nicola Chiaromonte, che poi divenne suo grande amico e corrispondente.
Successivamente divenne amico di Albert Camus e grazie a lui trovò lavoro presso l’editore Gallimard. Pubblicò articoli in “Politics”, rivista della sinistra radicale anticonformista statunitense diretta a New York da Dwight Macdonald, in cui scrivevano anche Chiaromonte, Hannah Arendt, Mary McCarthy, Paul Goodman. (Landi)
Autori di diversa provenienza ma accomunati da uno spirito ribelle, capace di riflettere con profondità intellettuale su questioni centrali come il socialismo, la società dei consumi, la minaccia atomica e i limiti della democrazia rappresentativa.
Caffi fu un intellettuale unico nel suo genere, più colto di molti accademici famosi della sua epoca, in grado di padroneggiare conoscenze, lingue e culture provenienti dalle più svariate periferie del pianeta. Un grande intellettuale che ha vissuto esperienze centrali della storia europea e extraeuropea, ma che ancora oggi risulta sconosciuto.
Dei suoi scritti sono rimasti articoli, lettere e carteggi, ma non esiste invece un’opera strutturata che descriva per filo e per segno il pensiero politico-culturale di Caffi.
Per capire alcune caratteristiche chiave del Caffi intellettuale mi affido ad un’intervista realizzata dalla rivista “Una Città” allo storico Marco Bresciani, professore di Storia della Globalizzazione e Storia d’Europa all’Università di Firenze. Bresciani è il più grande biografo italiano di Andrea caffi, nel 2009 ha pubblicato il libro “La rivoluzione perduta. Andrea Caffi nell’Europa del Novecento” edito da Il Mulino.
“Sì, è vero, Caffi è un personaggio interessante, affascinante, ma sconosciuto; appartiene a quel genere di intellettuale appartato e riservato che, come altri nel suo tempo, rimase sempre ai margini della vita pubblica e culturale dell’Europa tra ‘800 e ‘900, nonostante avesse stabilito, durante un’esistenza molto avventurosa, contatti e relazioni con i personaggi più diversi, soprattutto non appartenenti alla sfera politica. Ebbe una vita errabonda che lo portò ad attraversare tutte le vicende del secolo, dalla Grande Guerra alla rivoluzione russa, alle tirannie degli anni ‘20-’30 (fascismo, nazismo e stalinismo) fino alla Seconda Guerra Mondiale”. (Marco Bresciani)
Un tema centrale nel pensiero politico di Caffi è stata la nonviolenza. Egli sosteneva: «Se il socialismo ha da essere una vera liberazione dell’uomo, dobbiamo cominciare col respingere come la maggiore delle assurdità ogni nozione di guerra fatta dai socialisti, o da uno Stato diretto in nome dei socialisti».
Lo scrisse in un testo del 1946, dal titolo “Contro la guerra. Violenza e liberazione”, dalla cui lettura possiamo comprendere la potenza culturale di un grande intellettuale del ‘900.
“L’approdo alla non violenza parte da una riflessione estremamente acuta (che tra l’altro è stata ripresa dalle acquisizioni più recenti della storiografia), che prende forma alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la prima vera e propria guerra totale, che egli identificò soprattutto nei simboli di Auschwitz e Hiroshima.
Caffi si era reso conto che quegli eventi altro non erano che l’esito ultimo di quella modernità che aveva iniziato a dispiegarsi fin dall’estate del 1914, e identificava il XX secolo come età della violenza totale.
Ecco, di fronte a questo scenario, Caffi decise di assumere una posizione di rifiuto radicale della violenza, anche qualora fosse una violenza giusta. Da qui discende, e diventa comprensibile, il suo atteggiamento di non totale adesione alla Resistenza, soprattutto al suo approccio in chiave retorica e a tutto quello che rappresentò nel dopoguerra in termini di monumentalizzazione di quella esperienza, di retorica dell’eroe, di elogio della violenza giusta, e via dicendo. Caffi ne prese le distanze con una posizione in qualche modo astorica, che aderiva pienamente all’ideale etico della non violenza -da qui il suo rapporto con Capitini e con alcune espressioni del movimento pacifista- ben attento, però, a distinguersi dal movimento per la pace filocomunista.” (Marco Bresciani)
Fonti:
- G. Landi, Politica e cultura nel pensiero di Andrea Caffi, rivista socialismo libertario.
- U. Perolino, Socialità e mito negli scritti di Andrea Caffi
- https://www.unacitta.it/newsite/intervista.asp?id=1251#
- Marco Bresciani, La rivoluzione perduta: Andrea Caffi nell’Europa del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 310.