Anthony Huber è un ragazzo bianco di ventisei anni, originario del Wisconsin, più precisamente della cittadina di Kenosha.
Kalief Browder è anch’egli un giovane, ventiduenne afroamericano nativo del Bronx, uno dei cinque quartieri di New York.
Le vite dei due non si sono incrociate, né lo faranno mai. Ad accomunarli è una cosa sola: il suprematismo bianco, motivo del loro decesso. Entrambi sono infatti morti a causa di manifestazioni diverse di uno dei maggiori problemi degli Stati Uniti; una episodica, che coinvolge Anthony Huber, ed una sistemica, riguardante Kalief Browder.
Huber è stato ucciso durante le manifestazioni dell’agosto 2020, tenutesi nella sua città, Kenosha appunto. Il 23 agosto 2020, Jacob Blake, cittadino afroamericano della stessa città, è stato vittima di quattro colpi di pistola sparatigli da un agente della polizia. L’agente ha premuto il grilletto dopo che Blake, disarmato, ha aperto la porta della propria automobile.
L’accaduto ha fatto sì che anche Kenosha diventasse luogo di proteste capitanate dal movimento Black Lives Matter, organizzazione centrale nelle varie manifestazioni che hanno caratterizzato il 2020, dando voce a una parte di States che esige maggior equità razziale. Nella notte fra il 25 ed il 26 agosto, sostenitori del Black Lives Matter e contromanifestanti di estrema destra sono stati protagonisti di scontri violenti; in particolare Kyle Rittenhouse, giovane dell’Illinois vicino al suprematismo bianco, ha sparato diversi colpi verso i manifestanti, colpendo fra gli altri Huber.
Quest’ultimo è stato ucciso mentre provava a disarmare Rittenhouse, raggiunto da un proiettile nel tentativo di strappare il fucile automatico dalle mani dell’assassino. Rittenhouse è solo l’espressione più recente di un fenomeno comune: cittadini statunitensi, dichiaratamente vicini alle frange più eversive della destra americana, che sono protagonisti di atti violenti.
Basti pensare che, nel 2019, rifacendosi a dati forniti dalla Anti-Defamation League (associazione non governativa statunitense, fondata con lo scopo di combattere le varie forme di discriminazione presenti nel paese), 38 persone sono rimaste uccise per mano di omicidi commessi da soggetti collegati all’estrema destra. Rittenhouse, arrestato il 26 agosto, è stato recentemente rilasciato dal carcere in cui si trovava, dietro il pagamento di una cauzione di 2 milioni di dollari; somma raggiunta attraverso donazioni volontarie provenienti da tutti gli Stati Uniti, motivate da un supporto forte nelle azioni di Rittenhouse, il quale ora aspetta di essere processato.
Agli occhi di molti il giovane non è un assassino, bensì un patriota che, mentre difendeva la propria nazione, ha difeso sé stesso; poco importa se nel farlo sono morte delle persone, poco importa se Rittenhouse ha deciso di partecipare armato a delle manifestazioni situate in uno stato diverso dal proprio.
Chiamato ad esprimersi sulla vicenda, il Presidente uscente Trump si è fatto rappresentante di questa parte della società americana, tanto veloce a perdonare cittadini bianchi, quanto a condannare quelli facenti parte di minoranze etniche, in particolar modo se neri. Queste le sue parole: “Avete visto lo stesso video che ho visto io: stava provando a scappare dai manifestanti, è caduto e lo hanno aggredito […] Immagino fosse in grave pericolo, probabilmente sarebbe stato ucciso (se non avesse sparato, n.d.r.)”.
È qui che vale la pena citare la storia di Kalief Browder, cittadino afroamericano, morto suicida il 6 giugno 2015, dopo aver trascorso circa tre anni in prigione fra il 2010 e il 2013, due dei quali in isolamento.
Il 15 maggio 2010, Browder, assieme a un amico, è stato fermato dalla polizia, la quale lo informava del fatto che un uomo messicano, di nome Roberto Bautista, li accusava di averlo derubato.
Nonostante non ci fossero prove del reato, le forze dell’ordine decisero comunque di arrestarli, in quanto la presunta vittima affermava di essere stato derubato non il 15 maggio, ma due settimane prima. Anche questo episodio non è, ovviamente, sporadico, ma parte di una tendenza consolidata; i pregiudizi razziali della polizia statunitense sono presenti nel dibattito pubblico americano da ben prima del 2020.
Sebbene sia corretto ricordare la massima secondo cui correlazione non corrisponda a causazione, già nel 2018, il testo “Suspect Citiziens”, di Frank R. Baumgartner, Derek A. Epp e Kelsey Shoub ha raccolto indizi preoccupanti. Basandosi sull’analisi di più di 20 milioni di controlli stradali, risulta che i cittadini afroamericani siano mediamente fermati quasi il doppio delle volte rispetto a cittadini bianchi, così come siano sottoposti a perquisizioni del veicolo quattro volte di più. Considerato che, il 97% delle volte in cui un cittadino viene sottoposto a controlli da parte di agenti di polizia mentre è alla guida non si hanno conseguenze legali, il pregiudizio sembra essere evidente.
Ma torniamo a quanto successo a Browder. Egli, al momento dell’arresto si trovava in condizione di libertà vigilata, a causa di un furto commesso l’anno prima: tale condizione ha fatto sì che il giudice responsabile optasse per la detenzione cautelare del giovane afroamericano, con una cauzione fissata a tremila dollari, cifra che i familiari di Browder non potevano permettersi. Iniziò così il sopracitato periodo di detenzione presso il carcere di Rikers Island, dovuto non tanto alle facoltà economiche dei parenti o alle colpe del ragazzo, quanto alle inesattezze di un sistema giudiziario complesso come quello americano.
Molti Stati americani hanno leggi che assicurano processi rapidi, in ottemperanza del Sesto Emendamento: nel caso di New York queste leggi rispondono al nome di “ready rule”, una regola secondo cui i casi di reato penale (fatta eccezione per gli omicidi) devono essere pronti per il processo entro sei mesi dalla denuncia, pena il decadimento delle accuse.
Tuttavia, da un punto di vista pratico questo limite temporale è cangiante, in quanto il suo rispetto cade nelle potestà del procuratore. Quest’ultimo può interrompere, a propria discrezione, il decorrere dei sei mesi. Un paper della Columbia Law School del 2017 è riuscito a tracciare statisticamente quanto la “ready rule” sia stata spesso scavalcata nei cinque quartieri di New York: nel gennaio 2013 il 73% dei processi per reati penali eccedevano il limite dei 180 giorni garantito dalla legge; 800 casi avevano una durata di almeno due anni.
Nel caso di Browder, i ritardi sono stati motivati dalle ragioni più varie, una volta addirittura dalle ferie del procuratore; intanto l’accusa provava ad ottenere un’ammissione di colpevolezza da parte di Kalief, offrendogli più volte sconti rispetto quanto chiesto inizialmente, ossia 15 anni di detenzione. Browder ha sempre rifiutato consapevole, oltre che della propria innocenza, del fatto che gli afroamericani con precedenti penali sono un segmento della popolazione particolarmente marginalizzato a New York.
La marginalizzazione è un fenomeno che Browder ha comunque vissuto a Rikers Island, dove è stato coinvolto più volte in episodi violenti, vittima sia di pestaggi da parte di gang formatesi nel carcere che dal personale di sicurezza. Questa violenza ha fatto sì che Kalief fosse messo in isolamento, dove trascorse la maggior parte del proprio periodo in carcere e dove ha tentato più volte di suicidarsi. Nel febbraio 2012 costruì un rudimentale cappio usando le lenzuola del proprio materasso, provando ad impiccarsi e a mettere fine al proprio periodo a Rikers Island. Curiosamente, la libertà venne ridata a Browder nel maggio del 2013, in modo improvviso: Bautista era rientrato in Messico, diventando non rintracciabile; l’accusa riteneva quindi non fosse più possibile procedere. Browder spese tre anni della propria vita in carcere per un crimine che non solo non ha mai commesso, ma per il quale non è nemmeno mai stato processato.
Ciononostante, il soggiorno a Rikers Island segnò in modo indelebile Browder, che nel novembre 2013 proverà il suicidio ancora una volta, riuscendoci infine nel 2015, in giugno.
Sarebbe pressappochista ridurre la morte di Browder alla sola complessità od inefficienza giudiziaria: Browder è vittima di una società che in modo manifesto applica un doppiopesismo nel proprio agire.
Il peccato di Browder, sin dall’inizio, non è stato il presunto furto quanto l’essere rappresentante delle parti più marginali della gerarchia sociale americana. Il non essere bianco modifica la narrazione, e la conseguente percezione, attorno ai singoli casi particolari: Kalief Browder è poco più che un dato statistico, l’ennesimo afroamericano vittima di un sistema che, noncurante delle proprie imperfezioni, avalla un circolo vizioso, che sabota le possibilità di una comunità di ottenere un accesso equo all’istruzione, all’economia, ad una condizione di vita migliore, all’emancipazione dall’essere l’ennesimo dato statistico protagonista di una tragedia.
Kyle Rittenhouse è invece trattato come una vittima, martire della violenza di coloro che questo sistema provano a cambiarlo. In un disperato quanto comune atteggiamento dell’odierna destra occidentale, una parte degli Stati Uniti elegge Rittenhouse a patriota, una parte una di minoranza in pericolo, gentrificando la condizione di oppresso e mortificando quelle minoranze che lo sono da secoli.
La riforma della giustizia è solo parte di una più grande sfida che la presidenza Biden dovrà affrontare, se vuole tenere fede alle promesse fatte in campagna elettorale. I governi statunitensi si muovono lentamente, impegnano un capitale politico finito e hanno comunque bisogno del supporto delle Camere per riforme di tale portata. La prossima amministrazione dovrà inoltre dare la priorità alla pandemia e al conseguente collasso economico. Tuttavia, Biden non può venire meno alla promessa fatta, quella di cambiare un ordine sociale che divide la popolazione americana, un ordine sociale in cui il crimine non è definito da un atto di per sé, quanto da chi commette l’illecito.