Articolo di Bruno della Sala


Il 9 agosto scorso ci sono state probabilmente le più importanti elezioni nella storia della Bielorussia; per comprenderle a fondo bisogna fare però un attimo un passo indietro.

Il Presidente uscente è Aljaksandr Lukashenko. Governa ininterrottamente il Paese dal 1994, quando vinse le (uniche) elezioni libere e democratiche della sua storia. La vittoria fu a sorpresa, perché Lukashenko apparteneva alla vecchia classe dirigente sovietica, che aveva perso forza fino quasi a scomparire in tutta la parte occidentale dell’ex Unione Sovietica. In particolare, nel secondo turno ottenne oltre l’80% dei voti, sfruttando in particolare la sua fama come uomo integro e contro la corruzione. Nel giro di due anni, l’ex deputato del Soviet Supremo della Bielorussia rivoluzionò lo Stato, prendendo il controllo dei media, del sistema giudiziario e dei servizi segreti, annullando progressivamente il potere del Parlamento, reintroducendo i simboli dell’era sovietica nel Paese e lanciando due referendum per convalidare le sue decisioni nel 1995 e nel 1996. Entrambe le consultazioni vennero bollate come illegittime da opposizione, da organizzazioni internazionali come l’OSCE e dai governi occidentali. Basti pensare che in quello del 1995, il Parlamento aveva autorizzato solo uno dei cinque quesiti e due di essi andavano esplicitamente contro le regole costituzionali. A seguito nel 1996 dell’esautoramento totale del parlamento ed il suo trasformamento in una camera composta esclusivamente da fedeli di Lukashenko, si concluse definitivamente la (breve) esperienza democratica bielorussa.

Lukashenko giura sulla costituzione nel 1994

Dal momento della presa della carica, il Presidente bielorusso ha adottato una politica di avvicinamento ed integrazione con la Russia. La lingua russa è infatti equiparata a quella bielorussa, mentre economia e politica sono intrecciate dall’appartenenza sia all’Unione di Russia e Bielorussia che punterebbe ad una futura unificazione (mai avvenuta) sia alla recente Unione Economica Eurasiatica. Negli anni 2000, Lukashenko, dopo aver rimosso il numero massimo di rielezioni per candidato, vinse le presidenziali altre 4 volte (2001, 2006, 2010, 2015) con ampi margini, sempre però accusato di intimidazioni contro i candidati avversari, controllo dei media, modifica dei risultati e altre forme di broglio elettorale. Con queste motivazioni, viene spesso definito da politici e media occidentali come “l’ultimo dittatore d’Europa”. I suoi sostenitori invece, sia esteri che interni, hanno sempre giustificato la repressione con il presunto supporto popolare, la crescita economica ben più spinta di altri Stati ex-sovietici e il mantenimento dell’indipendenza del Paese. La vicinanza tra Putin e Lukashenko ha infatti aiutato non poco la Bielorussia, fornendogli le materie prime di cui il Paese è privo a prezzi stracciati e facendo da volano alla propria economia, al costo però di una pericolosa dipendenza.

Dal 2014 però, con l’occupazione russa della Crimea, la situazione è iniziata progressivamente a cambiare. Lukashenko ha difatti criticato la mossa di Mosca, definendola “un pericoloso precedente”. Questo cambio di atteggiamento è probabilmente dovuto alla paura per un’annessione formale al gigante russo, con conseguente perdita di potere. Il Presidente ha quindi iniziato a cercare una politica più conciliante con l’Occidente, sia per diminuire la dipendenza da Mosca che per assicurarsi una garanzia contro una possibile invasione. Il risultato però non è stato eccellente, con gli occidentali generalmente freddi nei suoi confronti e Putin sempre più indispettito. Inoltre, la stagnazione economica causata dalle sanzioni contro la Russia, il crescente impegno di Mosca su vari teatri in politica estera (tra cui spiccano Ucraina e Siria) ed il sopracitato raffreddamento dei rapporti hanno spinto il Cremlino a sospendere il rifornimento quasi gratuito di risorse a Minsk, causando un sostanziale peggioramento delle condizioni economiche del Paese.

Agli inizi del 2020, con la Bielorussia già in difficoltà, l’arrivo della pandemia di coronavirus ha sensibilmente peggiorato la situazione. Lukashenko è stato tra i (pochi) leader a rifiutarsi di riconoscere la gravità dell’infezione, sostenendo che ai bielorussi sarebbe bastato bere vodka per salvarsi dal malanno. L’acuirsi della trasmissione del virus, con lo stesso Lukashenko contagiato, ha causato un ulteriore calo di popolarità per il Presidente alle soglie delle elezioni (posticipate ad agosto per via della pandemia). Sfruttando il momento, ben tre differenti candidati hanno annunciato di voler partecipare: il blogger Tikhanovsky, l’ex-banchiere Babariko e l’ex-ambasciatore presso gli Stati Uniti Tsepkalo. La reazione di Lukashenko non si è fatta attendere, facendo arrestare con dubbie accuse i primi due e con il terzo che si è visto invalidare la maggioranza delle firme raccolte ed è poi scappato all’estero temendo altre ripercussioni. L’unica candidata che è riuscita a presentarsi è stata la moglie di Tikhanovsky, Svetlana Tikhanovskaya, la cui candidatura è stata sorprendentemente accettata dal Comitato Elettorale Centrale (CEC). A mio avviso, Lukashenko ha giudicato una donna non all’altezza della competizione, sospetto rafforzato da diverse dichiarazioni misogine durante la campagna. A Svetlana (uso il nome di battesimo sia perché più facile da scrivere sia perché usato dai suoi stessi sostenitori) si sono subito dopo unite Veronika Tsepkalo e Maria Kolesnikova (manager della campagna di Babariko), di fatto unendo le campagne delle tre candidate e creando un trio femminile per rovesciare il governo di Lukashenko.

Le tre candidate dell’opposizione

Il programma di Svetlana, insegnante di lingue estranea alla politica, è molto semplice: ripristino della costituzione del 1994, liberazione dei prigionieri politici e nuove elezioni libere e democratiche. Durante la campagna, le manifestazioni a sostegno di Svetlana sono state sistematicamente oggetto di intimidazioni e arresti arbitrari da parte della polizia. Svetlana è stata costretta a trasferire i figli in Lituania, per paura di rappresaglie. I sondaggi clandestini (quelli formali sono illegali in Bielorussia) davano l’opposizione di parecchio avanti. Lukashenko quindi cerca in tutti i modi di delegittimare l’avversaria, prima accusandola di non essere adatta a governare e poi arrestando dei cittadini russi a Minsk, dicendo che erano stati mandati per destabilizzare il Paese dopo le elezioni.

In questa situazione si arriva al 9 agosto. Lukashenko fa blindare la città. Già prima del voto, gli elettori via posta salgono in maniera vertiginosa rispetto alle tornate precedenti, facendo salire il sospetto che ci sia un enorme numero di schede truccate. Parziale blocco di internet sin dalla mattina. Intimidazioni da parte della polizia ai seggi. La maggioranza dei giornalisti stranieri si vedono l’accredito negato e chi si presenta rischia deportazione e messa al bando per dieci anni. Agli osservatori internazionali viene impedito l’accesso ai seggi e molti vengono arrestati. Alla chiusura i risultati sono impietosi: secondo gli exit polls Lukashenko ha sfiorato l’80% dei voti.

Prima di proseguire la narrazione degli avvenimenti successivi, bisogna un attimo discutere di questo risultato. Sembra abbastanza palese che questo sia infatti stato truccato dalle autorità. Lukashenko infatti, controlla il CEC, rendendo di fatto quest’organo non credibile. L’assenza di osservatori indipendenti rende ancora più dubbio il risultato annunciato. Dopo le elezioni, in circa una ventina di seggi, i presidenti “ribelli” hanno pubblicato in modo indipendente i risultati del proprio seggio, che davano l’opposizione nettamente avanti (con circa il 70% dei voti). Allo stesso modo, alcune ambasciate hanno diramato i dati esteri, anch’essi riportanti Svetlana in vantaggio. C’è quindi una buona probabilità (ma non certezza) che Svetlana Tikhanovskaya sia la Presidenteeletta di Bielorussia e come tale è stata riconosciuta da diversi governi occidentali. Russia, Cina e altri hanno invece riconosciuto Lukashenko come vincitore.

Tornando agli eventi del 9 agosto, immediatamente sono iniziate manifestazioni spontanee di protesta. Il governo, come già avvenuto durante altre tornate elettorali, ha immediatamente mandato polizia e forze speciali (che già erano presenti sul territorio) per reprimere le proteste. Questa volta però, nonostante gli attacchi, la situazione non solo non è tornata alla normalità, ma è addirittura peggiorata. Le motivazioni di questo cambiamento sono molteplici. Innanzitutto, Lukashenko ha chiaramente perso il sostegno di molti suoi sostenitori. Il Presidente uscente si era infatti dipinto come garante della crescita e della stabilità del Paese. La stagnazione economica, le tensioni internazionali e la cattiva gestione della pandemia hanno sgretolato questa immagine. A questo si aggiunge la perdita del monopolio sull’informazione. Mentre finora l’unica fonte era la TV ed i giornali di Stato, da qualche tempo, grazie ad internet, si sono diffusi canali d’informazione informali, il più importante dei quali è Nexta su Telegram, che riescono a sfuggire alla censura statale. Questi sono stati cruciali nell’organizzare le manifestazioni e nel diffondere immagini e video di proteste, repressioni e torture. Anche la personalità di Svetlana ha contribuito non poco, specie nelle prime fasi. Una non-politica, non allineata, democratica, con un programma breve e condivisibile da larghe porzioni della popolazione. Questo ha di fatto portato le elezioni ad essere uno scontro autoritarismodemocrazia, in cui i fattori esterni (le fantomatiche intrusioni russe od occidentali) si sono nullificate nell’elettorato. La repressione e la violenza hanno di fatto mostrato il mondo vecchio e spinto le persone a cercare il nuovo.

Una volta realizzato che le manifestazioni non si sarebbero estinte immediatamente, Lukashenko ha giocato una doppia carta il 10 agosto. Dapprima, ha intensificato gli sforzi per reprimere le proteste. Le forze speciali sono state dotate di armamenti più pesanti, con flashbang, granate stordenti e proiettili di gomma. Pestaggi e arresti arbitrari autorizzati dal Ministero degli Interni, con un bilancio finale nei due giorni di almeno 7000 detenuti e 2 morti. Coloro che venivano incarcerati sono andati incontro a giorni senza cibo, poca acqua e torture sia psicologiche che fisiche. Il secondo attacco è stato invece contro Svetlana. Questa, infatti, aveva annunciato che si sarebbe presentata alla CEC per presentare una formale richiesta di riconteggio. La candidata, una volta entrata, è rimasta chiusa per sette ore nell’edificio, senza averne alcuna notizia. Una volta uscita, è scappata in Lituania. Il giorno seguente, 11 agosto, un video, registrato alla CEC, è stato rilasciato dalla stampa di regime, dove Svetlana dichiarava di aver sopravvalutato le proprie forze e invitava i suoi sostenitori a tornare a casa. C’è il forte sospetto che il regime abbia fatto pressione psicologica sulla candidata, minacciando il marito in prigione o i figli (già in Lituania). Chiaramente, l’obiettivo di Lukashenko era quello di tagliare la testa alle proteste, dimostrare di essere in pieno controllo della situazione e liquidare la rivale.

Il risultato però non è stato quello sperato. L’11 agosto le persone sono tornate in piazza in numero ancora maggiore, organizzandosi tramite Telegram. Questa volta hanno cambiato tattica. Nei giorni precedenti, i manifestanti si erano concentrati nelle piazze principali, venendo facilmente raggiunti dalla polizia e dispersi. Progressivamente, hanno quindi iniziato a spargersi per le città, creando blocchi stradali, occupando stazioni delle metropolitane e, se raggiunti dalla polizia, raggruppandosi in altre aree. In questo modo, le forze dell’ordine non erano in grado di reprimere ogni distaccamento. Le macchine che suonavano il clacson in supporto ai rivoltosi venivano intanto sistematicamente colpite dai poliziotti con manganelli ed altri oggetti contundenti.

Dal giorno 12 in poi, Lukashenko ha completamente perso il controllo del Paese. Sempre più poliziotti hanno buttato la divisa e si sono uniti ai manifestanti, spingendo, insieme alle pressioni estere, il Presidente ed il Ministero degli Interni a interrompere la repressione delle proteste e a dire che l’arresto di 7000 persone è stato esagerato. I lavoratori stessi hanno incominciato a scioperare, compresi quelli statali che erano tra i gruppi che sostenevano il Presidente. Nella data in cui scrivo, 17 agosto, la TV di Stato non sta trasmettendo, perché i suoi impiegati sono in sciopero. La Bielorussia è stata quindi inondata di tricolori biancorossobianco, la bandiera storica vietata da Lukashenko che aveva ripristinato nel 1995 quella sovietica (senza falce e martello), con le persone che esibivano i simboli della protesta: il segno della vittoria, il pugno chiuso ed i fiori rossi e abiti bianchi. Particolare risalto hanno avuto le donne, non solo per il trio che ha osato sfidare Lukashenko, ma anche per le manifestanti vestite di bianco con i fiori in mano che hanno più volte sfidato pacificamente la polizia.

Di fronte al visibile collasso del suo regime, Lukashenko ha cercato di giocarsi le ultime carte. Nell’illusione di avere ancora una qualche sorta di supporto popolare, ha indetto una manifestazione a suo supporto la stessa ora, lo stesso giorno e lo stesso luogo in cui l’opposizione aveva chiamato per la sua grande marcia. Il 16 agosto è andata in scena una delle farse più ridicole della storia bielorussa, con Lukashenko che ha tenuto un discorso delirante (chiedendo alla “folla” se volessero più libertà per farsi rispondere di no, accusando l’Occidente di fomentare la rivolta e dicendo che morirebbe piuttosto di indire nuove elezioni) di fronte a circa 500/1000 persone, nonostante l’organizzazione con treni speciali, bus e quant’altro per portare più partecipanti possibili. Nel frattempo, mentre loro si disperdevano, una marea umana si avvicinava a Piazza dell’Indipendenza. Una stima di 200/300 mila persone ha invaso la capitale, con bandiere bianco-rosse, chiedendo le dimissioni di Lukashenko e nuove elezioni. Una tale manifestazione non si era mai vista nella storia della Bielorussia.

Manifestazioni di protesta a Minsk il 16 Agosto (Photo by Sergei GAPON / AFP)

L’ultimo tentativo che è rimasto a Lukashenko è quindi l’intervento militare alleato. Il 15 agosto, ha annunciato di aver chiamato Putin per chiedergli aiuto in caso di escalation. Richiesta reiterata il 16 dopo le manifestazioni. Il Cremlino ha dichiarato che è disposto ad intervenire nei termini dei trattati sottoscritti. Come già accennato in questo articolo, Russia e Bielorussia hanno diversi trattati di integrazione in comune, tra cui quello di Unione, il quale stabilisce aiuto reciproco in caso di invasione estera. Questo significa sostanzialmente che Putin ha risposto e non risposto, lasciando credere che non abbia intenzione di intervenire. Le motivazioni sul non-intervento sono molteplici: mancanza di supporto in Russia per un’azione del genere, popolazione bielorussa generalmente amichevole e che diventerebbe improvvisamente ostile, possibilità di influenzare politica ed economia bielorussa qualsiasi sia il Presidente, presenza su più fronti sensibili che rischia di estendere eccessivamente gli impegni militari russi. D’altra parte, Putin ha da sempre paura che una rivoluzione possa avvenire in Russia sul modello di quelle avvenute in altri Stati ex-sovietici ed ha sempre cercato di renderle meno efficaci possibile per evitare un effetto domino. Potrebbe quindi intervenire, nonostante i rischi, per mandare un segnale di rigore all’opposizione in casa.

Nel momento in cui scrivo (17 agosto), Lukashenko ha da poco dichiarato che ha intenzione di indire nuove elezioni dopo una modifica della Costituzione tramite referendum. Credo però sia probabile che questo sia un modo per rimanere aggrappato al potere, rimandare il confronto con il Popolo e far abbassare la guardia all’opposizione per una nuova repressione. Solo il tempo potrà dire se i manifestanti riusciranno a far cadere il regime o se Lukashenko riuscirà, magari con l’aiuto di Putin, a rimanere in sella contro tutto e tutti.

Articolo di Bruno della Sala