Radio Entropia nasce per dare spunti musicali e offrire il proprio spazio a band e musicisti emergenti, a chiunque volesse farsi conoscere e provare a emergere in un settore così spietato come quello musicale. Inoltre si impegna a creare playlist originali con pezzi che raramente sentireste alla radio.

<<You can soundtrack your entire life with Spotify. Whatever you’re doing or feeling, we’ve got the music to make it better>>

Con l’avvento delle grandi piattaforme di streaming la fruizione di musica è cambiata drasticamente.

Ad un osservatore disattento potrebbe sembrare che la principale e forse unica differenza sia la quantità di contenuti a cui è possibile accedere con un semplice tocco sullo schermo dello smartphone.

Perché una piattaforma, come suggerisce il nome dai connotati egalitari che rimandano all’idea della partecipazione orizzontale, è soltanto un mezzo neutro.

Radioentropia dissente.

Non ci lanceremo tuttavia in una critica cieca per proiettare sinistre ombre paranoiche sugli entusiasmanti meriti della tecnologia. Per questo vi invitiamo a seguirci in una narrazione che prende le mosse da lontano.

Nella metà degli anni ’90 il commercio al dettaglio online si stava consolidando e si sviluppò la necessità di garantire ai clienti una navigazione facile tra gli innumerevoli articoli disponibili e soprattutto di proporre qualcosa che corrispondesse ai gusti del singolo cliente. Così informatici e ingegneri progettarono degli algoritmi per la pubblicità mirata (i cosiddetti Recommender Systems).

Benché si tratti di questioni tecniche di difficile comprensione per il laico, l’idea di fondo è semplice da afferrare: lo scopo è quello di approssimare la valutazione che un utente darebbe di un oggetto e di stilare poi una classifica dei vari oggetti per scegliere quali proporgli. Gli approcci di base sono il collaborative filtering e il content based filtering.

Con il primo si cerca di fare una previsione sui gusti di un utente in base ad un confronto con i gusti di un gruppo di utenti affini, mentre nel secondo il confronto avviene tra gli oggetti già valutati dall’utente e quelli candidati alla raccomandazione. In entrambi i casi è necessario che esista un profilo dell’utente, un registro in cui siano salvati i suoi acquisti passati e le sue preferenze. E qui arriva la parte interessante: come si fa a costruire questo profilo? La soluzione più immediata sarebbe quella di chiedere in modo esplicito all’utente cosa gli piaccia, ma ci sono anche modi per costruire un profilo analizzando il comportamento dell’utente sulla piattaforma.

I recommender systems si sono evoluti molto e spesso sono frutto di un approccio ibrido fra più soluzioni, ma per quanto riguarda il commercio online le soluzioni alla base sono sempre quelle.

Il caso della musica è ben diverso. Già le idee brevemente esposte sono del tutto insufficienti, perché l’ascolto di musica in streaming somiglia poco all’acquisto di libri online. Prima di tutto vi è la ricorrenza. Un brano può essere ascoltato più volte, è possibile che l’utente cambi brano dopo trenta secondi. Poi vi è il contesto. Era in una playlist? In un album? L’utente ha cliccato sul brano o questo era semplicemente in coda? Queste sono soltanto alcune delle problematiche che hanno dato impulso alla ricerca nel campo della music recommendation. Nel 2001 erano appena tre i lavori di ricerca sull’argomento, nel 2008 ben diciannove e Netflix premiava addirittura il miglior progetto di collaborative filtering.

Gli sviluppi nel campo sono affascinanti, ma i meccanismi degli algoritmi all’avanguardia sono difficili da capire. Riamandiamo il lettore interessato  a Jannach et al. – Recommender Systems, an Introduction, Cambridge University Press e Celma – Music Recommendation and Discovery, Springer Verlag.

Il punto fondamentale è il tentativo di comprendere il contesto delle abitudini di ascolto. È stato rilevato con alcune tecniche di data mining che vi sono delle traiettorie di ascolto ricorrenti. Entro un certo periodo di tempo un utente compie un ciclo di ascolti che fa riconoscere uno schema. Questo può essere dato dagli artisti che si susseguono, dai generi e da tante altre caratteristiche. È infatti possibile mettere in correlazione gli oggetti, cioè i brani, in molti modi e dunque osservare degli schemi ricorrenti non triviali grazie alla costruzione di un contesto di senso dato non solo da categorie di classificazione, come artista, album e genere, ma anche dalla vicinanza semantica delle descrizioni verbali relative agli oggeti.

Le traiettorie ricorrenti rendono molto efficace il collegamento tra pratica di ascolto e abitudini quotidiane dell’utente. È qui che innesteremo la nostra critica alla tendenze che il modello Spotify sembra manifestare.

È importante chiarire che non è la tecnologia per se il problema; lo sono il modo, i fini e l’intensità del suo utilizzo.

Se da una lato la raccomandazione di brani e l’edizione di playlist personalizzate sono facilitate dalle informazioni disponibili sul contesto dell’ascolto, dall’altro la presentazione stessa e l’organizzazione tematica delle playlist incoraggiano gli utenti ad una pratica di ascolto che meglio si lascia imbrigliare in una prospettiva utilitaristica e funzionale nei confronti della musica.

La forma playlist, che dal radio broadcasting allo smartphone, passando per i lettori mp3, ha conosciuto una diffusione sempre maggiore, nel caso di Spotify ha la funzione economica di rimercificare tracce sparse. Inoltre essa si presta bene a veicolare una forma di tastemaking neutralizzata (basti pensare che Filtr, Topsify e Digster appartengono rispettivamente a Sony, Warner e Universal, stakeholder di Spotify).

Un tratto debole, ma degno di nota, è il carattere crononormativo delle playlist che vorrebbero scandire i momenti della giornata. L’implicita suddivisione del giorno sembra voler suggerire il formato della giornata tipo. Dal punto di vista del singolo questa considerazione lascia il tempo che trova; provate però ad immaginare migliaia di persone che ogni giorno si trascinano attraverso la routine, narcotizzate dal suono della stessa raccolta di brani.

Vi sono poi le playlist legate ad una qualche attività, come l’allenamento, il lavoro o lo studio. Si prenda come esempio la raccolta intitolata “Study | Focus | Concentrate”, presentata con questa descrizione: <<The ultimate study playlist! Over ten hours of calm, focused music – ideal for studying without distractions>>. L’idea che si cerca di trasmettere è che l’ascolto non solo faccia da accompagnamento, ma che aumenti anche la prestazione. La musica diventa così ancella della produttività.

O ancora, come nelle playlist ispirate alle sensazioni, al mood, essa funge da strumento di regolazione dell’umore. Non a caso la maggior parte dei messaggi è improntata ad una positività motivazionale che presuppone un’attitudine imprenditoriale nei confronti della propria psiche. È questa un’attitudine costitutiva della narrazione neoliberal del soggetto vincente, nella quale si riconduce la coltivazione del talento e l’indirizzamento delle inclinazioni ad un discorso di capitalizzazione. Benché sia possibile imbattersi talvolta in alcune raccolte come “Life Sucks”, la loro rarità e il contrasto con le altre raccolte hanno l’unico effetto di mettere in risalto l’ottimismo compulsivo veicolato dalla piattaforma.

Questa idea della musica non è certo nuova ( <<Quando dunque lo spirito di Dio era su Saul, Davide prendeva in mano la cetra e suonava: Saul si calmava e si sentiva meglio e lo spirito cattivo si ritirava da lui.>> I Samuele 16:23 ). Ciò che invece è reso possibile soltanto dallo streaming è l’ascolto ubiquo e continuo. Ogni momento, ogni attività possono e devono essere accompagnati dalla musica, come ci ricorda il messaggio pubblicitario citato in apertura. Il soggetto non ha più un ruolo attivo, critico; chi ascolta è soltanto recettore passivo.

Un’ulteriore prova di questa tendenza è il venir meno di quelle storie che servono a collocare le opere in un più ampio contesto. Il processo creativo non lascia più traccia. Dove la playlist diventa la modalità principale di ascolto, l’individualità dei brani si confonde nel loro scorrere uniforme e le voci degli artisti restano inascoltate. E così gli algoritmi mettono in coda Herbie Hancock a chi ascolta Coltrane, o gli AC/DC a chi ascolta i Led Zeppelin.

Già nel 2002 Steven Wilson, il cantante dei Porcupine Tree, rifletteva su problematiche simili in “The Sound of Muzak

Hear the sound of music
Drifting in the aisles
Elevator Prozac
Stretching on for miles
The music of the future
Will not entertain
It’s only meant to repress
And neutralize your brain
Soul gets squeezed out
Edges get blunt
Demographic
Gives what you want
Now the sound of music
Comes in silver pills
Engineered to suit you
Building cheaper thrills
The music of rebellion
Makes you want to rage
But it’s made by millionaires
Who are nearly twice your age
One of the wonders of the world is going down
It’s going down I know
It’s one of the blunders of the world that no-one cares
No-one cares enough

Elevator Prozac

Nel titolo del brano leggiamo “Muzak” e non “Music”. Il termine risale agli anni ’30 ed era all’inizio il nome di un’azienda che forniva a clienti commerciali i mezzi per riprodurre nei loro spazi musica da sottofondo. Era il risultato della crasi fra “music” e “Kodak” ed è divenuto nel tempo sinonimo di musica da ascensore. È molto originale la riappropriazione che Wilson opera intendendo la parola come crasi fra “music” e “Prozac“, nome commerciale di un antidepressivo molto diffuso.

It’s only meant to repress
And neutralize your brain

Come suggerito dall’accostamento con il Prozac, si accusa la musica commerciale di essere mezzo di ottundimento dell’ascoltatore. Wilson non poteva immaginare quanto questa funzione potesse essere potenziata nel contesto dello streaming.

Demographic
Gives what you want

Il riferimento è alla tendenza dell’industria di indirizzare i prodotti alla massa. È interessante notare qui che esiste un tipo di algoritmo di raccomandazione chiamato demographic filtering. Il suo funzionamento si basa sulla categorizzazione del profilo utente in base a criteri anagrafici e a stereotipi sociali. È probabile che questa tecnica sia utilizzata anche da Spotify, ma non è dato sapere come vengano costruite le categorie stereotipiche.

Alla luce di questo dato daremmo la seguente definizione dell’ascolto nel contesto delle playlist preconfezionate: organizzazione di individualità in forme collettive.

Engineered to suit you
Building cheaper thrills

Nel tentativo di andare incontro alle esigenze di un vasto pubblico, i produttori ricorrono a schemi familiari all’ascoltatore medio. Un esempio fin troppo facile è l’abuso dell’intervallo I-V nella musica pop.

Gli algoritmi sanno fare di meglio, propongono brani che sono veramente su misura, <<engineered to suit you>>. Il risultato è però un rapporto di superficialità con la musica, che diventa fonte di un piacere facile e perciò vacuo. L’assuefazione a schemi semplici, che permette di ricorrere alla stimolazione in modo ripetuto, conferma ancora l’idea dell’organizzazione in forme collettive di cui sopra.

Non vorremmo spingere la speculazione oltre limiti ragionevoli e rimandiamo dunque qui.

Le possibilità offerte dallo streaming sono immense e un ascoltatore consapevole potrebbe ottenerne qualcosa. Bisogna però considerare che, per la sua totale predominanza e per il suo funzionamento, Spotify innesca un ciclo di feedback, diventando per molti, soprattutto per i meno autonomi, una forma di educazione all’ascolto.

E poiché le dinamiche da noi esposte manifestano tratti che più in generale sono da imputare al parossismo collettivo del nostro tempo, vi lasciamo con un monito di Rilke

<< Tutto ciò che si affretta
    presto sarà trascorso;
    solo ciò che persiste
    ci inizia all’Essere.
    Non votate, giovani,
    il vostro ardire alla velocità,
    all’esperimento del volo.
   Tutto è riposo:
   oscurità e chiarezza,
   il fiore e il libro.   >>

               Sonetti a Orfeo, XXII