Radio Entropia nasce per dare spunti musicali e offrire il proprio spazio a band e musicisti emergenti, a chiunque volesse farsi conoscere e provare a emergere in un settore così spietato come quello musicale. Inoltre si impegna a creare playlist originali con pezzi che raramente sentireste alla radio.

<< I am a Negro:
    Black as the night is black,
    Black like the depths of my Africa.
I’ve been a slave:
    Caesar told me to keep his door-steps clean.
    I brushed the boots of Washington.
I’ve been a worker:
   Under my hand the pyramids arose.
   I made mortar for the Woolworth Building.
I’ve been a singer:
  All the way from Africa to Georgia
   I carried my sorrow songs.
   I made ragtime.
I’ve been a victim:
   The Belgians cut off my hands in the Congo.
   They lynch me still in Mississippi.
I am a Negro:
   Black as the night is black,
  Black like the depths of my Africa. >>
                               Langston Hughes

Ci sono momenti in cui la creatività dell’uomo matura con una profondità tale da rendere obsolete certe distinzioni. Allora non si può comprendere un’opera senza conoscere il momento storico in cui è sorta, non si può afferrare una melodia fugace senza almeno tentare di rivivere i drammi di quegli uomini che attraverso di essa hanno cercato una riconciliazione con il mondo e soprattutto non si può pretendere che una rigida separazione tra arte, storia e politica abbia senso.

Alabama” di John Coltrane è senza dubbio un’opera del genere. Pubblicato in Live at Birdland nel 1963, il brano è un canto funebre dal tono mesto e grave. Fu composto in seguito ad un attentato contro una chiesa afroamericana di Birmingham, che portò alla morte di quattro bambine.

Al tempo la città di Birmingham era già nota per le severe condizioni in cui la comunità afroamericana era costretta a vivere. Negli anni precedenti al ’63 erano state segnalate almeno 21 esplosioni in chiese o proprietà di cittadini afroamericani. Tuttavia l’esito non era mai stato così cruento. La reazione degli esponenti del Civil Rights Movement, per i quali l’attentato segnò un cambio di rotta, fu dura. Tutti erano complici della tensione e della violenza repressiva rivolta contro ogni accenno di emancipazione, anche il governatore, che venne pubblicamente accusato da Martin Luther King Jr.

<<This afternoon we gather in the quiet of this sanctuary to pay our last tribute of respect to these beautiful children of God. They entered the stage of history just a few years ago, and in the brief years that they were privileged to act on this mortal stage, they played their parts exceedingly well. Now the curtain falls; they move through the exit; the drama of their earthly life comes to a close. They are now committed back to that eternity from which they came. These children — unoffending, innocent, and beautiful — were the victims of one of the most vicious and tragic crimes ever perpetrated against humanity.

And yet they died nobly. They are the martyred heroines of a holy crusade for freedom and human dignity. And so this afternoon in a real sense they have something to say to each of us in their death. They have something to say to every minister of the gospel who has remained silent behind the safe security of stained-glass windows. […]>>

Martin Luther King Jr. a Birmingham, nel 1963.

Al funerale delle bambine King pronunciò un discorso che Coltrane ebbe modo di leggere sul giornale. Ispirato da quelle parole, il musicista trasformò le forme ritmiche di quel discorso in un sublime canto funebre. Il tono è solenne e dignitoso, le marcate note del sassofono esprimono un dolore profondo. Non è la disperazione del Negro, non un dolore scomposto; è l’antica sofferenza di quattro e più secoli di schiavitù e di ingiustizia a trovarvi espressione. Il lutto infatti non è l’unico tema di questo capolavoro, che vuole infondere anche una solida speranza. Questo pacifico messaggio di speranza nella parte centrale del brano si accorda con l’attitudine non-violenta di Martin Luther King Jr. e della rivoluzione pacifica che questi cercava di portare avanti. Ecco un altro passagio del discorso: << And so I stand here to say this afternoon to all assembled here, that in spite of the darkness of this hour, we must not despair. We must not become bitter; nor must we harbor the desire to retaliate with violence. No, we must not lose faith in our white brothers. >>. King esorta i suoi fratelli a non serbare rancore e li incoraggia a proseguire con fermezza nell’opposizione pacifica.

Come già accennato, l’evento di Birmingham e in generale la situazione di quel tempo segnarono un punto di svolta. Si consolidarono nuove prospettive, orientate ad una resistenza attiva: molti smisero di escludere la violenza dall’elenco dei mezzi possibili. Significativi da questo punto di vista sono l’indirizzo d’azione e la retorica di Malik El-Shabazz, conosciuto anche come Malcolm X. Egli non nutriva alcuna fiducia nelle istituzioni federali, espressione del potere bianco, e riteneva che la comunità afroamericana dovesse difendersi con i propri mezzi, se necessario. Un uomo come Martin Luther King Jr. era ai suoi occhi un “Uncle Tom“, un nero che si comporta da schiavo, docile al volere dell’uomo bianco. All’idillio di una rivoluzione pacifica, Malcolm X rispondeva  <<You don’t have a peaceful revolution. You don’t have a turn-the-other-cheek revolution. There’s no such thing as a nonviolent revolution. The only kind of revolution that’s nonviolent is the Negro revolution. The only revolution based on loving your enemy is the Negro revolution. Revolution is bloody, revolution is hostile, revolution knows no compromise, revolution overturns and destroys everything that gets in its way. And you, sitting around here like a knot on the wall, saying, “I’m going to love these folks no matter how much they hate me.” No, you need a revolution. >>.

Nello stesso discorso egli fa riferimento all’attentato di Birmingham e afferma con tono provocatorio <<Long as the white man sent you to Korea, you bled; he sent you to Germany, you bled; he sent you to the South Pacific to fight the Japanese, you bled. You bleed for white people, but when it comes times to seeing your own churches being bombed and little black girls murdered you haven’t got no blood.>>
Quattro anni dopo la morte di Malcolm, nel 1969, il jazzista Leon Thomas compone “Malcom’s gone“, un epitaffio musicale in sua memoria.

Nell’apertura del brano Thomas pronuncia il nome El-Hajj Malik El-Shabazz. I brevi istanti di silenzio che seguono vengono squarciati da un tumulto di suoni che evoca il dolore di chi perde una persona amata. Infine, dopo questo primo lamento vengono cantati i pochi versi che costituiscono il testo minimale del brano.

<< I know he’s gone… but he’s not forgotten.I know he died just to set me free. Yes, Malcolm’s gone, but he’s not forgotten, he died just to save me, give me back dignity.>>

Poi la voce di Thomas esplode in un ululato di dolore che si innalza sull’intreccio di suoni e ritmi intessuto dai musicisti.

A prima vista potrebbe sembrare soltanto un tributo alla figura dell’attivista, ma vi è di più. È un ammonimento che sembra quasi prefigurare lo sviluppo che i movimenti per l’emancipazione avranno nel corso degli anni settanta, come per esempio nel caso del Black Panther Party. Difficile non intravedere la provocatoria analogia appena velata con la figura di Cristo, fondamento ipocrita del patriottismo conservatore dei suprematisti bianchi.

La struttura e i contenuti della composizione sono significativi. Essi rimandano a lamenti funebri rituali di una tradizione perduta, le cui tracce permangono nella pratica afroamericana di riti musulmani o cristiani. Come rimarca Ernesto De Martino in “Morte e pianto rituale“, un elemento caratteristico di questi rituali è la << periodizzazione del planctus risolto in ritornelli emotivi, riplasmazione del parossismo in ritmi mimici definiti >>. Come nel brano di Thomas, si possono distinguere due momenti: il planctus, la fase del grido convulso e inarticolato, e il lamentum, in cui si ripetono periodicamente brevi frasi di lamento riferite alla persona trapassata. Il dolore incomunicabile del lutto viene imbrigliato in una ritmata gestualità rituale al fine di evitare la pazzia di colui che piange il morto.

Questa è chiaramente la funzione originaria dell’autentico pianto rituale. Nel nostro caso invece abbiamo una rappresentazione artistica, la cui funzione è però simile. Sia nell’opera di Coltrane che in quella di Thomas vi è il motivo di una consolazione volta a placare la rabbia e il dolore. Non la rabbia irrazionale del singolo di fronte alla morte, bensì quella giustificata di un gruppo offeso e oppresso.

Nella misura in cui un brano è vicino a King e l’altro a Malcolm X, in Coltrane la consolazione è definitivo acquietare di pulsioni aggressive in nome dell’Amore, inteso come forza superiore nella lotta, mentre in Thomas è eterodirezione di queste stesse ad un progetto politico più lungimirante della disordinata rappresaglia. In ogni caso il lamento funebre ha una funzione costruttiva, è fondazione di identità.

La fondazione avviene nella forma e nel contenuto. Abbiamo appena visto come ciò avvenga nel contenuto. Nella forma la ricostruzione identitaria avviene in quanto si attinge ad una tradizione le cui origini risalgono alla madre Africa. Attingere a tradizioni ancestrali e ricordare in modo affermativo e orgoglioso le proprie origini è infatti un motivo diffuso nell’espressione culturale di quegli anni.

In questo ricondurre ad una qualche razionalità dunque la somiglianza nelle funzioni. <<La ritualizzazione del planctus introduce nella crisi iniziale il suo proprio ordine moderatore sul piano mimico o del comportamento, e ciò al fine tecnico di dare orizzonte al discorso>> (De Martino).

Come tale, come istituzione di una cultura autonoma ad opera degli oppressi, va intesa questa storia e come inni alla libertà vanno ascoltati i due brani. Non vorremmo che quanto raccontato venisse inteso come amena curiosità sulla storia di due pezzi qualunque. Il jazz da salotto e gli aneddoti da smalltalk li lasciamo ai sordi e ai borghesi.

Perché, attenzione, benché oggi il jazz sia accettato come un genere tra tanti, benché dal ’70 in poi sempre più scuole di musica e conservatori abbiano iniziato ad offrire dozzinali “corsi di jazz”, questo non era in origine lo sterile esercizio di tecnica di qualche virtuoso o un’avventura musicale per i bianchi colti delle classi medie. Prima che prodotto dell’accademia, il jazz è attitudine, autentica forma d’arte dalle inconfondibili radici sociali.