Laureato in filosofia presso l’università degli studi di Genova, dove frequento la magistrale in metodologie filosofiche. Appassionato, ovviamente, di filosofia, soprattutto nel suo versante etico, politico e sociologico.

Maria (Chiara Mastroianni) e Richard (Benjamin Biolay) sono sposati da vent’anni. Lei, però, porta avanti una relazione extraconiugale con un suo studente. Una sera Richard scopre, leggendo i messaggi della moglie, il tradimento: i due litigano e Maria, per riflettere, si traferisce in una camera dell’hotel di fronte al suo appartamento ed osserva la disperazione del marito. In questa stanza la donna potrà entrare in contatto con le personificazioni di individui che hanno segnato la sua vita: da una versione ringiovanita di Richard fino a tutti gli uomini con cui ha avuto rapporti sessuali.

Non è di certo un caso che il numero della camera in cui Maria si trasferisce sia proprio il 212. Infatti, il regista Christophe Honoré gioca ironicamente e provocatoriamente con questo numero, il quale fa riferimento all’articolo del codice civile francese che vincola il legame matrimoniale: “I coniugi si devono mutuo rispetto, fedeltà, aiuto e assistenza.”

Maria non è di certo e mai è stata una moglie fedele ma, proprio la sua infedeltà, le permette di riflettere sul proprio matrimonio, sui turbamenti del presente e sul fardello del passato. In questa prospettiva, la camera 212 diventa una sorta di mondo parallelo, dove i pensieri assumono una loro consistenza ontologica fatta di carne ed ossa, un luogo magico ma privo di  surrealismo o trascendenza. Questo luogo è l’inconscio di Maria, laddove la razionalità viene spezzata e i sogni si materializzano a tal punto da sembrare reali. Una stanza delle meraviglie che mette in dialogo presente e passato, una stanza dove Maria riflette esistenzialmente sull’essere, il dover essere e su ciò che avrebbe voluto essere. Il dolore del tradimento, lo scorrere inesorabile del tempo, l’egoismo individuale e l’asfissia della routine sono solo alcuni dei temi che percorrono l’intera opera. Honoré si interroga sui legami sentimentali che vincolano ognuno di noi, soffermandosi in modo particolare sul vincolo matrimoniale. È possibile amare ancora una persona dopo vent’anni? Esiste ancora il sentimento oppure azioni ed atteggiamenti che compiamo non sono altro che automatismi interiorizzati? L’amore esiste davvero oppure, freudianamente parlando, non è altro che un istinto sessuale sublimato?

Honoré, con grande intelligenza, non si rifugia dietro a risposte banali o semplicistiche, e non rimane vittima né di un drastico nichilismo né di un illusorio ottimismo. È quasi frutto dell’egoismo e del cinismo umano pensare che l’amore resti sempre lo stesso, condensato in un unico istante che per restare vivo dovrebbe avere il potere di ripetersi in modo perpetuo, sempre uguale a sé stesso, protetto dal logorio del tempo. Ed è proprio questo istante che Maria non fa altro che (ri)cercare nel corso della sua esistenza, poiché negli uomini che la protagonista frequenta spera di ritrovare suo marito da giovane. Gli istanti, però, passano, mentre l’amore può restare tale, ma assumendo una sorta di nuova “natura”.

L’hotel degli amori smarriti è un’opera che gioca in modo estremamente libero e personale con la grammatica filmica, muovendosi in un orizzonte cinematografico che accoglie tematiche squisitamente alleniane e bergmaniane (non a caso i due autori vengono ringraziati nei titoli di coda), mentre da un punto di vista stilistico rimanda chiaramente alla lezione della Nouvelle Vague. Tuttavia, l’influenza maggiormente presente è quella del regista Jacques Demy: l’ambiente favolistico, vicino ad una dimensione onirica, all’interno del quale si manifestano la malinconia, le illusioni ed i desideri dei protagonisti, sono tutti elementi che omaggiano il cineasta francese.

Maria non è James Stewart che, ne La finestra sul cortile, è ossessionato dal vedere la vita altrui. Maria osserva la propria di vita, ma da un’altra prospettiva. Guardare suo marito disperarsi non vuol dire osservare qualcuno che è altro da sé, ma al contrario vuol dire guardare se stessi attraverso il corpo del marito, che non è solo materia, ma diventa storia incancellabile del percorso esistenziale della protagonista.

L’hotel degli amori smarriti è un’opera spiccatamente metacinematografica (non a caso l’hotel è situato sopra ad un cinema) che, in una splendida Parigi innevata, blocca una porzione di esistenza dei protagonisti. Ed è così che, tra un Jump-cut iniziale ed un fermo immagine finale, il cinema può manifestare tutta la sua potenza: fermare la vita per un istante, per osservarla da diverse angolature e per poter dialogare davvero con se stessi attraverso il proprio passato.