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David Lynch: L’ordine delle apparizioni


David Lynch è senz’altro un regista (oltre che pittore e fotografo) che ha fatto del cinema un modo per indagare la complessità del reale, cercando a sua volta di renderlo indagabile dal pubblico. Perché se le risposte renderebbero tutto troppo semplice e cristallizzato, e l’evasività di Lynch nel parlare dei suoi lavori lo dimostra bene, le domande sono fondamentali e necessarie per chi sceglie di frequentare l’arte come un orizzonte conoscitivo che, invece che ribadire instancabilmente ciò che è davanti agli occhi di tutti nel quotidiano, cerca di far intuire quel «contatto» con ciò che agisce al di sotto, all’interno degli strati di materia e che emerge, viene secretato, da quella darkness tanto pregnante per il regista quanto lo è il nero nei suoi dipinti.

Dalla serie Distorted nudes (1999)
IL RECUPERO DELLA FORZA ESPRESSIVA DEL SENSIBILE IN BACON

«Un giardino ha molti nemici che lo aggrediscono. È pieno di stragi di morti, vermi e bacherozzoli. C’è molta attività. È un tormento…[1]». Il cinema di David Lynch eccede tutti i generi cinematografici classici che sembra impostare, rifacendosi a categorie sensibili quale quella del figurale in pittura e del perturbante. Figura che è «la forma sensibile riferita alla sensazione[2]», è il recupero della forza espressiva del sensibile. La sensazione è infatti tutto ciò che ha a che fare con un sentire assolutamente non passivo: i quadri di Francis Bacon mostrano il sentire come attività deformante, la sensazione, appunto, «maestra delle deformazioni, agente di deformazione dei corpi[3]».          

La fenomenologia del corpo in Lynch si rivela allora come estremamente complessa: il regista americano oscilla all’interno di una vasta gamma di possibilità, dal corpo evanescente, fantasmatico, al corpo come materialità irriducibile, dalla monade isolata al corpo come insieme di relazioni. Il problema del corpo sta al centro dell’enigma del cinema, della sua ambiguità feconda tra immaterialità e materialità. […] Il corpo e il soggetto in Lynch si trovano all’interno di una tensione continua dell’essere, di una «potentia» che continuamente crea e svela nuove relazioni e connessioni[4].

Ragionare sul corpo significa avere a che fare con una complessità tale da necessitare, in questa sede, di una scelta mirata a una determinata morfologia di riferimento. Considerata la centralità dell’immagine, l’espressione di «corpo virtuale» pare appropriata seppur non scevra di problematiche. Una possibile significazione di questo tipo di corpo è il simulacro, fantasma con le proprie volizioni e affezioni rispetto al mondo circostante che si presenta come «ambiente intermediario[5]». Un’altra è la prospettiva di Deleuze, che, definendo il simulacro come «l’istanza stessa del differire», applica un rovesciamento di una filosofia della rappresentazione fondata sull’identità, sulla logica rappresentativa e sul modello, in favore del «dissimile, il non conforme, il singolare».

Date queste due posizioni rispetto alla virtualità del corpo, oggetto di massicci studi che non verranno approfonditi ulteriormente in questo articolo, l’immagine non è priva di consistenza auto-poietica. Riguardo la trasformazione dell’immagine-corpo nel tempo e nello spazio, Lynch condivide con Francis Bacon la loro materialità, la tensione, la muscolarità, le forze coercitive che li deformano dall’interno e l’indeterminazione irrappresentabile.  

La spazializzazione, la corporeità delle figure in movimento, in torsione, in mutamento non solo fanno della pittura il luogo di riabilitazione del sensibile, della materialità sentita e percepita del mondo (come in Cézanne), ma la rendono il luogo di manifestazione della realtà come complesso gioco di forze, come continuo mutamento, come molteplicità.[6]

La Figura di Bacon è una delle risposte più efficaci alla domanda di Klee, ovvero come rendere visibili forze invisibili eccedendo l’ordine prestabilito del figurativo. Cézanne riuscì a «rendere visibile la forza di corrugamento del­le montagne, la forza di germina­zione della mela, la forza termica di un paesaggio[7]».

Quelle di Bacon sono forze di isolamento, di defor­mazione e di dissipazione che con­vogliano gli effetti entropici della forza del tempo, del soverchiante lavoro della morte. Le teste, più che i volti, di Bacon sono esposte alle forze di pressione, dilatazione, contrazione e stiramento e genera­no grida, spasmi, cadute, mutila­zioni, immedicabili sofferenze[8].

Ciò che distingue il figurale (a cui fa riferimento la Figura) dal figurativo (a cui fa riferimento la rappresentazione) è in prima battuta il rinvio da parte della figuratività «alla stabilizzazione di uno scenario esperienziale dove attori e circostanti sono legati da un certo diagramma di relazioni pregnanti per l’osservatore (uno scenario inter-attanziale)[9]». Nel rapporto di tipo iconico-rappresentativo il referente è la conditio sine qua non dell’immagine[10]:

La Figura ha di certo un suo referente materiale, e questo è il corpo, non rappresentato come un oggetto […]. Il corpo solo, defigurato, più che “sfigurato” che si deforma sotto l’azione lacerante di forze costantemente in fieri, e si torce spasmicamente come tentando, con grida mute che rimarranno sempre inudibili, di fuggire da e a se stesso o dalla propria immagine attraverso uno dei suoi organi-orifizi. Ed è con questo sforzo che il corpo diventa Figura[11].

A sinistra Bacon, a destra Lynch

Le Figure, per non partecipare al figurativo, all’illustrativo come al narrativo, devono essere isolate dallo sfondo, dalla storia nella quale sono inserite. Un’istanza anti-rappresentativa che ha luogo tramite l’uso di linee dritte o curve, o da spazi abitati o fuggiti in un’inderogabile relazione corpo-spazio.

Bisogna comunque dire che le opere di Bacon degli anni quaranta e cinquanta sfuggono a questa definizione. Se prendiamo quadri come Figure in a Landscape (1945) o Figure Study I (1945-1946), spicca in modo evidente proprio l’impossibilità di marcare un netto confine tra figura e fondo, tra ciò che appartiene al corpo e ciò che appartiene al mondo circostante.

Inoltre, Lynch stesso, parlando di Bacon, sembra in qualche modo rovesciare il discorso di Deleuze, definendo i quadri di Bacon come «frammenti di racconto»[12].

Per David Lynch, difatti, la narrazione permane come termine necessario alle mutazioni spazio-temporali e d’azione: «I miei quadri sono commedie organiche piene di violenza[13]». Due Figure in particolare, quelle della stanza e della strada, ricoprono il ruolo di luoghi teorici oltre che estetici in quanto si riferiscono al conflitto che, in particolare nel Novecento, ha caratterizzato ancor prima del cinema la storia del Pensiero. «Immobilità e dinamismo, interno ed esterno sintetizzano infatti il movimento stesso dei concetti oltre che delle immagini: da una concezione del reale e della filosofia come dialettica, ad un rifiuto della sintesi degli opposti nelle filosofie postdialettiche».

Il moto oppositivo si sviluppa a favore di «una tensione costante, in cui il cinema si connota come dispositivo creatore di mondi, in feconda e continua tensione con i corpi che li abitano[14]». Il Figurale, viene definito da Lyotard in Discorso, figura[15] come concrezione della forza, del livello energetico, che porta l’invisibile ad essere visto, rilanciandone sempre il senso che non è mai uno solo, perché proprio ciò che è meno riconoscibile più si offre alla vista[16].

TWIN PEAKS

Nel caso del cinema la nostra esperienza visiva coincide con i bordi dell’inquadratura. Il fuori campo è uno spazio non visto in cui si fonda la possibilità stessa del visibile, dell’immagine, sia come dimensione totalmente altra rispetto allo sviluppo diegetico sia come luogo percepibile tramite il suono.

In questo senso, il cinema di Lynch è letteralmente attraversato dalle tracce acustiche di un fuori campo macchinico, fatto di rumori metallici, ronzii, disturbi elettrostatici che a volte entrano addirittura nell’immagine stessa (basta pensare alle innumerevoli lampadine dalla luce intermittente che da Eraserhead a Fuoco cammina con me sono presenti nei suoi film)[17].

Nell’episodio 17 della terza stagione di Twin Peaks Cooper ritorna (o è da sempre) nel fuori campo di Fuoco cammina con me (Fire Walk with me, 1991) mentre Laura Palmer, ai confini del bosco, dà l’addio a James Hurley. Proprio nell’indefinito del fuori campo vi era già la possibilità che quel determinato spazio fosse occupato da Cooper venticinque anni dopo, o, sempre in termini di possibili, che Cooper occupasse già, in direzione dello sguardo e del grido di Laura. Quando Laura scende dalla moto di James per raggiungere Jacques Renault, Leo Johnson e Donna le immagini di Twin Peaks 3 incontrano quelle del 1991 e, guardandosi per la prima volta, producono una combustione interna straordinaria.

Uno degli incontri più reali e possibili mai visti nel cinema, poiché fino ad allora “soltanto” possibili. Reale a tal punto da poter ritornare, come percorrendo i lembi (che poi è uno soltanto) del nastro di Möbius, ugualmente all’origine, allo stesso tempo unica e differente per dimensioni percorse; «come se voi foste sopra un’altura a guardare verso il basso e poi dal basso a guardare verso l’altro[18]», il giro viene compiuto attraversando lati diversi per rientrare nel solo bordo esistente. Il cadavere di Laura avvolto nel cellophane sotto lo scoglio nel pilot della prima stagione di Twin Peaks viene fisicamente scancellato, Pete Martell questa volta andrà a pescare. Sullo sviluppo virtualmente infinito del serial e le sue conseguenze teoriche, scriveva, nel 1991, Paolo Cherchi Usai:

Twin Peaks “finirà” un giorno per autodissolvimento retorico, vittima di una lenta entropia che polverizza storie principali, vicende parallele, ramificazioni estemporanee; ma la storia nella quale si inseriscono le puntate della serie – questa l’implicita dichiarazione di Lynch e Frost – è destinata a non finire mai, indipendentemente dal fatto che Dale Cooper rimanga per sempre coinvolto nelle immagini o che ritorni al quartier generale del FBI a Los Angeles[19].

Cooper riporta Laura-Persefone dalla madre, nel mondo dove Twin Peaks non esiste e sulle mensole vengono esposti cavalli bianchi simboli di Ecate.

In altre parole, lo spazio del film, lo spazio in cui il film ha luogo sembra non esistere se non nel film stesso, nella struttura e nelle immagini del film che, dunque, non rappresenta un mondo, è esso stesso mondo. Un mondo chiuso in se stesso, che genera da sé le proprie regole, i propri spazi interni e i propri linguaggi e che non allude ad un fuori che lo contiene[20].

Il dispositivo-cinema è così un meccanismo di creazione di mondi, di «parcellizzazione de reale», che, in virtù del movimento, produce continuamente nuove realtà, riproponendo «il reale stesso come produzione e dinamica continua ed incessante dell’essere[21]».


[1] Lynch secondo Lynch, a cura di Chris Rodley, Dalai, Milano, 1998.

[2] Cfr. G. Deleuze, Francis Bacon. Logique de la sensation, p. 28.

[3] Ibidem.

[4] D. Dottorini, David Lynch. Il cinema del sentire, p. 15.

[5] Cfr. G. Concato, L’angelo e la marionetta. Il mito del mondo artificiale da Baudelaire al cyberspazio, Moretti & Vitali, Bergamo 2001.

[6] Ivi, p. 37.

[7] Cfr. G. Deleuze, Francis Bacon. Logique de la sensation, Quodlibet, Macerata 1995, p. 118.

[8] M. Vozza, Deleuze vive dentro Bacon. L’ultimo «sguardo» del filosofo, in “Tuttolibri de La Stampa”, 1995.

[9] Cfr. P. Basso Fossali, Interpretazione tra mondi. Il pensiero figurale in David Lynch, pp. 17-18.

[10] Cfr. A. Pinotti, A. Somaini, Cultura visuale. Immagini sguardi media dispositivi, Einaudi, Torino, 2016.

[11] M. Carboni, Non vedi niente lì? Sentieri tra arti e filosofie del Novecento, Castelvecchi, Roma 1999.

[12] D. Dottorini, David Lynch. Il cinema del sentire, p. 78.

[13] D. Lynch, Sulla mia pittura, in «Panta», n. 13, 1994, p. 322.

[14] Cfr. D. Dottorini, David Lynch. Il cinema del sentire, p. 14.

[15] Si veda J.F. Lyotard, Discorso, Figura, Mimesis, Milano 2008.

[16] Ibidem.

[17] D. Dottorini, David Lynch. Il cinema del sentire, p. 103.

[18] M. Henry, Le ruban de Moebius, Entretien avec David Lynch, in “Positif”, n. 431.

[19] P. Cherchi Usai, I cattivi colpi di Twin Peaks, in “Segno cinema”, n.48, 1991, p. 7.

[20] D. Dottorini, David Lynch. Il cinema del sentire, p. 46.

[21] Ivi p. 135.