“Se tento di trovare una formula comoda per definire quel tempo che precedette la prima guerra mondiale, il tempo in cui son cresciuto, credo di essere il più conciso possibile dicendo: fu l’età d’oro della sicurezza” – Stefan Zweig
“Gli anni più splendidi della Germania e di Berlino, i loro anni parigini così pieni di talento e di arte… non torneranno mai più” – Gottfried Benn
Stretta tra la tragedia della Prima Guerra mondiale ed il nazismo, la vicenda della Repubblica di Weimar non è sempre stata in grado di solleticare la curiosità del pubblico, se si esclude la generica conoscenza del periodo dell’iperinflazione e l’altrettanto drammatica conclusione della sua storia. Weimar fu però un periodo capace di regalare l’espressionismo, Einstein, Thomas Mann, Bertol Brecht, la musica del tempo ed il teatro.
Non stupisce quindi che i maggiori intellettuali e politici che la governavano – pur per mezzi diversi – fossero disposti a tutto al fine di mantenerne la libertà stabilita nella costituzione. Associare le parole di Zweig, per quanto riferite specificamente all’impero asburgico, e quelle di Benn, scritte nel 1955 e riferitesi a Weimar, indica come una intera generazione si sia sentita il dovere morale di garantire la sopravvivenza delle libertà che già una volta si erano visti sfuggire.
Comprendere il pensiero di chi visse quella stagione da un posto privilegiato impone sin da subito una annotazione. La repubblica resterà sempre di Weimar, e mai tedesca. Questo gioco di parole a simboleggiare come il popolo della Germania non riuscì mai ad uscire dall’idea che la sconfitta nella Grande Guerra non era mai davvero avvenuta, che era stata quasi inventata e che era stata frutto della celebre pugnalata alle spalle: in questo modo quindi la scacciata del Kaiser e la repubblica erano state delle imposizioni non meritate. Le élite conservatrici non volevano accettare la situazione: il governo del Kaiser non era mai risultato in una dittatura stringente, e nessuno di loro provava alcuna fiducia nel sistema parlamentare. Non erano gli unici: ben conosciuta è l’insurrezione spartachista del 1919, che inaugurerà i tentativi dell’estrema sinistra e dell’estrema destra di ribaltare Weimar – due schieramenti i quali, per i motivi più diversi, non accettavano la repubblica sin dal principio, per come era nata e per ciò che intendeva essere.
Non era la dittatura del proletariato e non era l’antico Reich. I comunisti credevano sinceramente che il fascismo fosse già al governo, l’estrema destra sguazzava nelle divisioni avversarie ed alimentava il disprezzo profondo verso i socialdemocratici, il loro modo di fare ed il loro stile di vita.
In mezzo a queste spinte stavano i socialdemocratici insieme agli altri repubblicani. Persone ammirevoli nella loro sincera volontà di governare il paese al meglio, ma le quali non avevano mai esercitato il potere e non sapevano cosa farsene. Il loro primo atto fu di firmare il trattato di Versailles. Subito dopo, procedettero alle maggiori nomine amministrative: quasi tutti i dirigenti guglielmini restarono al loro posto. Le loro vicende interne, e l’esperienza della guerra, avevano convinto i socialdemocratici della necessità di riforme graduali, di responsabilità, di costruire un perno affidabile del governo del paese.
Ma era stata proprio quella responsabilità a non far attendere, a non far cercare delle condizioni migliori a Versailles; ed era stata sempre quella responsabilità a non far dotare il partito di squadre d’azione paramilitare, proprio mentre i venti della rivolta circolavano per tutto il paese: sperarono di essere arrivati alla loro ‘fine della storia’, e non compresero che non fosse possibile mettere tutti d’accordo, che non era tempo raffreddare l’inferno con la forza della ragione. Convinti che la buona amministrazione avrebbe pian piano sistemato le cose, accompagnarono Weimar nell’abisso.
Mancava entusiasmo. Mai una formula politica, tanto più una forma di governo, può vivere senza costruire un costume intorno ad essa. I socialdemocratici, insieme agli altri partiti di governo, avevano il compito di formare un costume repubblicano – ma l’appoggio dei giovani e degli intellettuali raramente andava ai governanti: le università ed i luoghi di ritrovo guardavano all’estremo, da una parte e dall’altra, e gli stessi gruppi paramilitari come i Freikorps, per quanto inizialmente trascurabili nel numero, facevano sempre la loro figura ed erano sempre in grado di essere al posto giusto, come nel 1919 contro gli spartachisti: sempre pronti ad essere i protagonisti di una storia che non era la loro, ma della quale coloro che dovevano esserne gli sceneggiatori non sapevano che farsene.
Dicevamo dell’appoggio degli intellettuali: la SPD si era sempre considerata il partito della classe operaia, e non desiderava essere di più. Guardava agli intellettuali come una perdita di tempo, e dagli intellettuali ricevevano sguardi di sufficienza, dato che non avevano costruito la società utopistica che questi si aspettavano: chi poteva costruire un senso nazionale non tollerava, insomma, i rappresentanti stessi della nazione, i quali avrebbero voluto vederli limitarsi all’attività amministrativa e politica nelle sezioni socialdemocratiche. Un accordo era impossibile, e mai avvenne: la SPD rimase un partito di governo, ma privo di una vera cultura politica e metapolitica, spazio che era totalmente occupato dai comunisti, i quali però non guardavano nemmeno loro con entusiasmo a questi intellettuali borghesi.
Finiva così che gli intellettuali di sinistra si limitassero – quando non colti nel vortice del “problema dell’impegno” – a camminare a fianco dei comunisti, spesso senza partecipare direttamente, e senza dubbio senza partecipare al partito socialdemocratico. Gli intellettuali rifiutarono di partecipare alla repubblica, e la repubblica non visse mai fuori dai palazzi di governo. Così come, al contrario, mai la politica entrò davvero negli ambienti intellettuali, restando nei bar e nelle piazze.
Certo, additare la responsabilità dei problemi in Germania ai soli repubblicani ed ai loro metodi di governo è improponibile. Ci fu la crisi economica, l’aumento del numero degli studenti che trovavano meno lavoro all’aumentare dei colleghi, ma non si possono discutere i risultati in politica interna ed estera di personaggi come Stresemann: in un qualche modo non si può sfuggire dal fatto che Weimar fu tutto considerato governata bene – certo, da un punto di vista tendenzialmente moderato e costituzionale. Eppure crollò.
Il peccato originale dei partiti di governo di Weimar l’abbiamo citato: Versailles. Il fantasma del trattato di pace continuò a perseguitare tutti loro, colpevoli come detto di averlo firmato sin da subito, facendolo diventare il primo atto del nuovo Stato e di fatto fondandolo su ciò. Weimar poteva essere fatta nascere in modo diverso? Un’operazione politica si sarebbe forse potuta fare, presentando il nuovo Stato come uno sviluppo, come il risultato dell’ammutinamento di Kiel e delle manifestazioni del popolo tedesco? Poteva essere presentato come uno stato fondato dal popolo, aperto ad evoluzioni che comprendessero sì anche la partecipazione di elementi più radicali, come una tavola bianca sulla quale scrivere?
Invece sin da subito fu lo Stato della sconfitta, che era stato disegnato così dai vincitori e che non poteva che essere così e rimanere così, ed i socialdemocratici per primi si posero alla testa della conservazione di una novità che in realtà pochissimi, tra coloro che erano disposti a farsi sentire, volevano.
Versailles dicevamo: la perdita delle colonie, dell’Alsazia-Lorena, dei territori orientali, la smilitarizzazione e mutilazione dell’esercito, i debiti di guerra.
Sin dalle superiori conosciamo tutti l’effetto che i debiti di guerra tedeschi ebbero sulle casse e sul destino della repubblica di Weimar. Limitarsi al solo aspetto finanziario però non rende l’idea dello sdegno con il quale il popolo tedesco rispose a dei debiti che non sentiva suoi, che non sentiva di meritare e che avrebbero potuto condizionare la vita quotidiana dei loro discendenti per generazioni – i partiti repubblicani si macchiarono della prima deliberazione del nuovo Stato, la più impopolare, e quella che appariva fondativa dello stato stesso in quanto emessa per prima: non stupisce che abbiano dovuto convivere, ed infine perire, con questo fardello per tutta l’epoca repubblicana.
Anche dopo la ripresa dell’economia in seguito al 1923 la situazione politica ed economica tedesca rimase fragilissima, finendo per collassare davanti alla crisi del 1929, quando lo stesso Stato repubblicano non apparve più credibile nemmeno a parte dei suoi sostenitori.
Versailles, come detto. Dal 1919 al 1923 la crisi inflazionistica che colse la Germania fu un macello psicologico e morale senza precedenti. La guerra era stata tremenda, ma era stata la Prima guerra mondiale: combattuta dagli eserciti, in luoghi lontani, da un esercito addirittura invitto! Non fu la Seconda guerra, che arrivò a Berlino portando così i disastri umanitari che conosciamo. L’iperinflazione fu anche peggio della Grande guerra.
Fu una esperienza collettiva tremenda, che vide come attori involontari quasi tutti i cittadini tedeschi, con tutti che videro le loro ricchezze, i loro salari, perdere drammaticamente valore. Tutto questo mentre il governo era ostaggio degli speculatori e non riusciva ad elaborare una soluzione credibile, arrivando a situazioni di iperinflazione grottesche e che sono anche oggi nell’immaginario collettivo.
Non dobbiamo però pensare alla società di Versailles come ad una società depressa. Come nel celebre volume di Walter Laqueur, la repubblica di Weimar fu: “una società permissiva”. Abbiamo le innovazioni culturali ed artistiche citate ad inizio articolo, i passi in avanti sul voto femminile, i balli e le feste. Abbiamo soprattutto il costante, instancabile desiderio dei tedeschi di essere al centro del mondo: è durante Weimar che si prova a lanciare lo Zeppelin – per quanto la vicenda non finisca bene, l’impatto fu grande: la Germania poteva ancora trionfare, poteva ancora essere la migliore.
È operazione necessaria provare a comprendere le reazioni di quelle persone agli eventi che si palesavano nelle loro vite.
Pensiamo ad un uomo che nel 1916 ha vent’anni: va in guerra, magari non perde una battaglia ma la sua nazione perde. Torna a casa, e tutto ciò che lo aveva cresciuto: Stato, morale nazionale, i simboli stessi della nazione, tutto è scomparso nelle mani delle potenze vincitrici. C’è una repubblica, governata da persone sconosciute ed incapaci di creare un ethos nazionale. La situazione post-bellica è durissima per la crisi economica: c’è l’inflazione, poi l’iperinflazione, il salario ha un valore scarsissimo. Poi nel 1923 la situazione si stabilizza: il nostro uomo ha ora 27 anni ed ha già vissuto tutto questo.
Passano sei anni, magari ha avuto un paio di figli, la Germania sembra stare riprendendosi e torna a sedersi al tavolo con le grandi potenze. Però avviene la crisi del 1929. In poco tempo il terrore non può che prenderlo: tutto tornerà come prima, con i salari da fame ed il governo in balia degli speculatori?
Noi ed i nostri coetanei abbiamo visto un inizio di secolo niente male, ma questo povero tedesco deve essersela vista brutta diverse volte.
L’iperinflazione fu un trauma collettivo di proporzioni enormi, e senza questo in mente si fa fatica a comprendere il costante terrore che provavano sia i partiti repubblicani, spaventati che qualche cambiamento radicale potesse riportare nel caos, sia la popolazione, consapevole di poter perdere in poco tempo tutti i guadagni e tutte le conquiste salariali. Perché? La risposta era semplice, per molti: a causa di un governo debole, a causa della repubblica, a causa di Versailles. A causa della pugnalata alle spalle. Prima che la crisi arrivasse anche in Germania, nel 1930, molti speravano che la repubblica avesse ormai superato le difficoltà iniziali – ma il primo segnale di crisi fece sfasciare tutto. E chi si era per così tanto tempo mostrato più responsabile davanti alla repubblica che non al suo partito finì per esserne travolto.
Quando arrivarono le elezioni del settembre 1930, la vittoria nazista stupì i nazisti per primi, i quali non avevano mai avuto un grande sostegno nelle città, ma ne avevano conquistato moltissimo nelle aree rurali: queste però non avevano voluto votare espressamente i nazisti, avevano piuttosto voluto dare un segnale di discontinuità rispetto al governo precedente. La morte di Stresemann contribuì fortemente alla disgregazione dell’alleanza repubblicana, che non seppe più riprendersi e continuò a limitarsi ad una mera conservazione della situazione precedente, fino alla grottesca alleanza intorno ad Hindenburg per evitare Hitler.
Quei mesi furono di convulso terrore, con governi che si succedettero velocemente emettendo provvedimenti economici d’urgenza, senza alcuna visione complessiva della situazione e puntando sulla diminuzione della spesa pubblica. I socialdemocratici continuarono a gridare alla ragionevolezza, alla cautela, rivelandosi così sempre più impotenti davanti alla situazione, finendo per subire l’antidemocratico governo Papen e tutto ciò che ne conseguì – compreso il trionfo di Hitler.
I socialdemocratici non capirono i nazisti. Non avevano imparato nulla dall’esempio italiano: potevano dialogare tranquillamente con persone anche alla loro sinistra, dato che anch’esse erano abituate ai dibattiti parlamentari, ma non capivano proprio un movimento che agiva solo nelle piazze. Continuarono a ragionare come se tutti fossero come loro, come se per tutti il parlamento e la repubblica fossero il campo di gioco, anche se avversato. Non era così: i socialdemocratici vollero continuare ad essere ragionevoli, il che però significava non avere una linea forte che non fosse amministrare lo Stato al meglio. E furono travolti da coloro che seppero contrapporre al nessun ethos della Repubblica la forza dell’ideologia e della politica.