Chissà quanti di noi, in questo lungo, lunghissimo, periodo storico di paralisi fisica ed esistenziale, vorrebbero rivivere un singolo momento del proprio passato. Un passato che sembra lontanissimo, ma molto più recente di quanto possiamo pensare. Si sa, il tempo è una nostra costruzione e, come direbbe Max Weber, dopo averlo costruito ne rimaniamo ingabbiati. Ci sono momenti che vorremmo rivivere in eterno, altri che vorremmo non aver mai vissuto e altri ancora che vorremmo vivere. A volte la vita scorre velocissima, senza nemmeno accorgersene. Lei va, noi con lei, consapevoli o meno. Il mondo cambia, sempre più velocemente. I nostri sforzi di adattamento diventano sempre più difficili, faticosi e psicologicamente repressivi.
Victor (Daniel Auteuil) è infatti un uomo all’antica, fumettista un po’ naïf, emotivamente incompreso, astioso verso il mondo digitale. Il suo rapporto con la moglie Marianne (Fanny Ardant) è in progressivo peggioramento, tanto da arrivare al punto di lasciarsi. Victor non sa però che esiste un eccentrico imprenditore (Guillaume Canet), amico di suo figlio che, grazie all’uso di scenografie cinematografiche, di trucchi e di attori, permette a coloro che lo desiderano di rivivere il giorno più bello della loro vita.
Ed è così che Il nostro protagonista, decide di rivivere un giorno ben preciso, temporalmente passato, ma impresso nei suoi disegni e dipinto nella sua mente: il 16 maggio del 1974, giorno in cui ha incontrato la donna della sua vita, che sostiene di aver, nel presente, perduto.Tutto può tornare “in vita”: le persone, l’ambiente, le comparse, gli oggetti, i dialoghi e gli sguardi, la musica. È possibile ricostruire e ripetere le stesse azioni, come se quegli istanti fossero di nuovo presenti, qui e ora, non corrosi dalla forza caotica e distruttrice del tempo.
L’incontro con la giovane Marianne (interpretata da una magnifica Doria Tillier), trasporta Victor in una dimensione che, seppur artefatta, lo conduce ad uno stato emotivo in cui finzione e realtà non sono più distinguibili, dove l’angoscia del presente lascia il posto alla riscoperta di sé stessi e di ciò che eravamo.
Il sapore di un bicchiere di Vodka, l’odore di una canna o il primo accordo di una canzone, bastano affinché l’effetto madeleine prenda il posto della realtà e ci permetta di sentirci vivi, esistenti. E, forse chissà, l’amore che si prova in quei singoli momenti, tende a consumarsi in quegli stessi attimi e ciò che viene dopo è solo una ricerca esasperata, idealizzata, di ciò che non c’è più.
Ma la prospettiva del regista Nicolas Bedos non propone toni drammatici e pessimistici. La belle époque è infatti una commedia, a tratti esilarante, capace di mescolare nostalgia, gioia e tristezza, creando un’atmosfera quasi magica.
Bedos mette in scena, con grande intelligenza e talento, un gioco di ruoli nel quale i livelli di finzione sono molteplici. Il film, già di per sé finzione, con gli attori che ne fanno parte, si rispecchia all’interno di sé stesso, dove gli attori diventano attori di un altro film (quello della vita di Victor) e lo spettatore si trova così a guardare un film nel film, in un presente del passato. Non di certo un’operazione metacinematografica particolarmente innovativa, ma la forza del film risiede proprio in una sceneggiatura pressoché perfetta e in una regia capace di delineare e limitare il confine in cui si svolge questo gioco, in cui lo sguardo del protagonista e quello dello spettatore finiscono per coincidere.
Una dialettica passato – presente che si presenta non come monolitico contrasto insanabile, ma piuttosto come un dialogo reciproco, con sé stessi e con l’altro da sé, che solo in questo modo può diventare specchio per riscoprire la quotidianità in cui siamo immersi e le persone che ci circondano, quelle che amiamo o che abbiamo amato.