Isteria, trauma, sonnambulismo, totem e tabù, desiderio, regressione, catarsi e rimozione. Questi sono i titoli degli otto episodi di questa “nevrotica”, discutibile, ma estremamente affascinante serie tv dedicata al padre della psicoanalisi. Termini che riprendono direttamente elementi cruciali degli studi freudiani, entrati ormai da decenni nell’immaginario collettivo e nel linguaggio comune. Con Freud si inaugura un’indagine volta a “tagliare” il velo della coscienza e della ragione, per cercare le forze e i moventi nascosti dell’agire umano. Non è di certo questo il contesto per ribadire, se mai ce fosse ancora il bisogno, la smisurata incisività che la psicoanalisi ha ancora oggi nell’apparato culturale e simbolico occidentale.
Presentata al festival di Berlino nella sezione “Berlinale Series” Freud, serie tv austriaca targata Netflix, diretta e co-sceneggiata da Marvin Kren, è un perfetto esempio di sovvertimento pressoché totale delle aspettative di noi spettatori.
Siamo nel 1886 ed il giovane Sigmund Freud è appena rientrato da Parigi, città nella quale frequenta la scuola neuropatologica della Salpêtrière, diretta da Jean-Martin Charcot, dal quale apprende la tecnica dell’ipnosi, che successivamente rifiuterà a favore della tecnica della libera associazione. Il 1886 è anche l’anno in cui Freud sposa Martha Bernays e stringe amicizia con Josef Breuer, anch’egli medico, con il quale pubblicherà (nel 1895) gli studi sull’isteria.
Pur partendo quindi da precisi riferimenti biografici, Marvin Kren abbandona fin da subito il classico Biopic per orientarsi verso scelte visive che sembrano guardare al Body horror del cinema di David Cronenberg e, in alcuni momenti, addirittura ad atmosfere derivanti dalla genialità di David Lynch. È curioso osservare come, paradossalmente, proprio David Cronenberg avesse trattato, in A dangerous method, la psicoanalisi in modo decisamente più convenzionale.
In questa serie abbiamo invece a che fare con un Freud (interpretato da un ottimo Robert Finster) appena trentenne, accanito consumatore di cocaina, anima perduta in mezzo ad una Vienna quasi spettrale, nel cui sottosuolo nasconde forze crudeli e malvagie, traumi di guerra, omicidi, cospirazioni politiche e magia nera. Grazie all’amico Arthur Schnitzler (autore di Doppio sogno, libro da cui Kubrick trasse Eyes wide shut) Freud ha l’opportunità di entrare nei circoli dell’alta società viennese, all’interno dei quali si verificano però efferati omicidi, che il giovane Sigmund vorrebbe risolvere con i propri metodi, anche se incontrerà l’ostilità dei colleghi medici, i quali lo trattano, per usare un eufemismo, con grande supponenza e profondo scetticismo. Così, ad aiutarlo nelle sue indagini ci saranno la medium Fleur Salomé (interpretata dalla bellissima Ella Rumpf) ed il reduce di guerra di guerra Alfred Kiss (Georg Friedrich), un uomo fortemente traumatizzato dalle esperienze belliche.
Freud ricorda molto, sia da un punto di vista dell’impianto narrativo sia dell’ambientazione storica, The alienist, un’altra ottima serie tv prodotta da Netflix. Entrambe sono ambientate alla fine del diciannovesimo secolo, anche se in contesti geografici diversi (una a Vienna, l’altra a New York) e, sia l’una che l’altra, in modi diversi, sembrano prefigurare gli orrori di cui si macchierà il ventesimo secolo. Tuttavia, The alienist relegava la violenza quasi sempre fuori campo, mentre Freud non si preoccupa di turbare lo spettatore, trasgredendo ogni moralità dell’immagine (forse, questo è l’aspetto più freudiano di tutta la serie).
C’è poca, davvero poca psicoanalisi e Marvin Kren è ben consapevole di questa scelta. Non a caso sceglie di mettere in scena la primissima fase degli studi che porteranno Freud alla “scoperta” dell’inconscio, quando ancora era l’ipnosi la via prediletta per cercare di comprendere l’isteria che affliggeva la società viennese di fine ottocento.
Da possibile biopic o da possibile thriller d’ambientazione storica, Freud diventa una macabra rappresentazione orrorifica della natura umana, desiderosa di uno spietato e assoluto dominio sull’altro.
Insomma, siamo di fronte ad un Freud che ricorda un po’ Sherlock e un po’ un Dandy uscito da un romanzo di Oscar Wilde.
Forse la sceneggiatura si perde un po’ alla ricerca dell’inconscio perduto, mentre la regia, tra primi piani con volti alienati ed esasperata ricerca di immagini-sogno deleuziane, risulta un po’ eccessiva e a tratti fine a se stessa. Però, tutto ciò è altamente perdonabile, dal momento che Freud resta comunque un prodotto piacevole, interessante e nel complesso riuscito.