In un seminterrato, da qualche parte a Seul, in Corea del Sud, vive una famiglia. Questa famiglia è povera, cerca lavori temporanei, lotta per rimanere a galla e per far quadrare i conti. L’orlo dell’abisso è vicino, restare in equilibrio è pericoloso, ma necessario. Si dice che l’unione fa la forza e, forse, in molti casi, è proprio così. La famiglia di Kim Ki-taek è infatti molto unita, non si spezza di fronte alla drammatica realtà sociale nella quale è costretta a vivere. La grande possibilità di avere entrate regolari si presenta quando un amico di Ki-woo, il figlio di Ki-taek, gli propone di fingersi studente universitario per aiutare, in veste di insegnante privato, Da-hye, la giovane figlia della ricchissima famiglia Park. Ki-woo accetta e, da questo momento, lo spettatore, da vero parassita, si insinuerà, insieme alla famiglia Kim, nella lussuosa vita della famiglia Park.
È la dialettica dell’opposizione che svolge il ruolo di primo motore di tutto il film: tesi e antitesi si contrappongono in una continua e dinamica ricerca di una sintesi, che risulterà un momento tutt’altro che positivo.
La sintesi diventa esplosione, esasperazione che si traduce in violenza, ritorno implosivo allo stato iniziale originario. C’è chi ha ben poco da mangiare e c’è chi può permettersi costose tende fingendo di essere un indiano. Esiste chi ha un bellissimo giardino e chi, invece, deve accontentarsi di qualche ubriaco che orina vicino alla propria finestra. Infine, esiste chi può permettersi di vivere nella finzione, mentre per altri la cruda realtà sembra il più gravoso fardello da dover sopportare. E, allora, in che modo noi possiamo essere come loro?
Pasolini direbbe che l’obiettivo delle classi inferiori non è più quello di attaccare e possibilmente sovvertire il sistema capitalistico che le ha prodotte, ma piuttosto quello di imitare atteggiamenti, usi e costumi della classe dominante. Forse i concetti marxiani di “lotta di classe” e “coscienza di classe” risultano superati ed improponibili nella realtà contemporanea, dove al posto dell’identità personale (e di classe) vediamo sostituiti modelli convenzionali ed aspirazioni considerate come universalmente valide.
È proprio in questo orizzonte che si muove, verticalmente, il capolavoro di Bong Joon-ho, regista da sempre attento alle contraddizioni delle realtà sociopolitiche dei nostri tempi. Pensiamo a Memorie di un assassino, pensiamo a Snowpiercer. Esiste però un aspetto in cui il regista sudcoreano eccelle più di chiunque altro: la capacità di cambiare, costantemente, i toni registici. Parasite è una commedia nera, è un thriller, è un film drammatico. Parasite ha quel qualcosa che tutti i capolavori hanno: l’indefinibilità.
Dall’iniziale tono umoristico del film, lo spettatore si trova immerso in un thriller magistralmente costruito attraverso gli spazi interni: lunghi corridoi, scantinati e salotti. Solo la violenza viene relegata all’esterno, alla luce del sole, perché non c’è più bisogno di nascondersi. Adesso la finta armonia si disgrega al suo interno, ritorna la linea di demarcazione noi e voi.
Parasite è un film che si muove nello scontro tra due nuclei opposti, che si avvicinano, convivono e poi si allontanano. E c’è, infine, la storia di una famiglia che si ama, di un amore vero, che va oltre il semplice legame di sangue. Forse, l’unico sentimento vero di un’indimenticabile parabola di finzione, ma anche di spietata e lucidissima analisi sociale.