“Signora, se avesse voluto ucciderla, l’avrebbe fatto”
Queste le parole pronunciate dal conduttore Rai Bruno Vespa durante l’intervista a Lucia Panigalli, sopravvissuta ad un tentato femminicidio da parte del compagno. La vittima oggi si trova costretta a vivere sotto scorta, dal momento che l’ex compagno, che ha nuovamente tentato di commissionare il suo omicidio anche dal carcere, è adesso in libertà.
Lucia Panigalli è quindi vittima di violenza di genere, un fenomeno drammaticamente diffuso nel nostro paese – nel 2017, 43.417 donne si sono rivolte a centri antiviolenza (Istat). Lucia ha trovato il coraggio di riportare e condividere la sua esperienza nell’intervista di cui sopra, ma l’atteggiamento tenuto nei suoi confronti dal noto conduttore nel corso della trasmissione rivela quale sia la concezione della violenza di genere e il trattamento che viene riservato alle sue vittime nella maggior parte dei media italiani.
Vespa, infatti, si rivolge a lei quasi volendo giustificare l’atto e portando in secondo piano la testimonianza di questa. Il parlare della relazione passata tra i due per cui «18 mesi sono un bel flirtino», l’attenzione riposta principalmente sui sentimenti e sulle intenzioni del colpevole trainato da «un amore folle» e per concludere lo sminuire l’esperienza della vittima dato che «se avesse voluto ucciderla, l’avrebbe fatto”, sono atteggiamenti frutto di una narrazione che vuole giustificare, salva e tenta di perdonare l’uomo, e che alla donna, ancora una volta, non riserva la giusta dignità.
Il caso Vespa, che tocca una tematica particolarmente grave, permette di aprire una riflessione generale sul trattamento che i media italiani riservano alla donna in diversi contesti. Le varie forme di discriminazione subite infatti dal mondo femminile, come quella salariale, lavorativa o di violenza, sono spesso rafforzate ed incentivate dalla narrazione, ancora intrisa di sessismo e pregiudizi patriarcali, che i media tendono ad utilizzare. Come un fatto viene narrato e comunicato al pubblico, infatti, contribuisce a plasmare le idee di quest’ultimo sull’accaduto ed ha quindi delle nette ricadute sociali.
Se pensiamo ad esempio, alla diversità con cui i successi lavorativi delle donne vengono raccontati sulle grandi testate giornalistiche italiane e non, risulta evidente come venga utilizzata una retorica che stonerebbe se si trattasse di un risultato raggiunto da un uomo.
In occasione della “Prima passeggiata ‘al femminile’ per le due astronaute della Iss”, la Repubblica ha dedicato questo titolo all’impresa di Christina Koch e Jessica Meir, uscite dalla Stazione spaziale internazionale per un intervento tecnico alle batterie. L’articolo continua con il sottotitolo “È la prima volta nella storia che due donne si avventurano sole nello spazio” mostrando non solo lo svilimento in termini dell’iniziativa che si riduce ad una passeggiata, ma anche la presunta debolezza di due donne che, in assenza di un uomo, sono sole, quando in realtà sono in due. In altre occasioni, la stampa non ha mancato di concentrarsi su dettagli completamente irrilevanti rispetto alla carriera della protagonista, tendenzialmente relativi all’aspetto fisico, all’abbigliamento o al loro status sociale.
Così è accaduto quest’anno in occasione della vittoria del Premio Nobel per l’Economia da parte di, Esther Duflo, Abhijit Banerjee e Michael Kremer. I primi due, sposati, sono stati inizialmente presentati come marito e moglie e sin dal titolo si nota come la dottoressa Duflo venga nominata in quanto moglie e solo in seguito come contribuente alla pari nel successo, quando viene nominata: titolo scelto dal National Herald è stato “Indian-American MIT Prof Abhijit Banerjee and wife Esther Duflo win Nobel in Economics”, quello del National FirstPost “Indian-American Abhijit Banerjee, wife Esther Duflo and Michael Kremer win 2019 Nobel Economics Prize” e dal Business Insider “Indian-American MIT Prof Abhijit Banerjee and wife Esther Duflo win Noble prize in Economics”.
Prima di essere una ricercatrice da Nobel, Esther Duflo è la moglie del ricercatore con cui ha condotto gli studi e si qualifica solo in relazione ad esso. The Economic Times non cita nemmeno il suo nome nel titolo: “Indian-American MIT Prof Abhijit Banerjee and wife win Nobel in Economics” non venendo nemmeno presentata.
L’immagine che la donna da di sé e come sceglie di presentarsi subisce da sempre uno scrutinio molto più acuto rispetto a quella degli uomini; spesso scegliere di riportare l’attenzione del pubblico su questi dettagli porta a sminuire i risultati raggiunti e rimarcare una narrazione retrograda di differenza tra i due generi.
Ad esempio, quando questo giugno Carola Rackete, in un atto di piena difesa dei diritti umani e dei migranti, ben consapevole dei rischi e dell’iter giudiziario a cui sarebbe andata in contro, ha deciso di far attraccare a Lampedusa la nave da lei capitanata, la Sea-Watch 3.
I giornali italiani sono comunque riusciti a concentrarsi, perpetuando la retorica sessista, su un dettaglio irrilevante: l’assenza di reggiseno. “Sea Watch, Carola Rackete senza reggiseno in Procura: sfrontatezza senza limiti, il dettaglio sfuggito a molti”, Libero, luglio 2019.
Quando i media ed i giornali abbassano così tanto il livello del dibattito, non c’è da stupirsi se anche i singoli utenti dei social si sentono autorizzati a criticare e giudicare rilevanti figure femminili per dettagli effimeri come l’abbigliamento. Teresa Bellanova, ministra per l’Agricoltura del governo Conti bis, è stata infatti criticata in maniera aspra e profondamente sessista per l’outfit scelto per il giuramento di fronte al Presidente della Repubblica: «Agricoltura, giusto va bene a coltivare le patate, che se le magna tutte, sta grassona, è anche brutta e vecchia». Oppure «Halloween? Carnevale?» commenta ironico allegando una foto della ministra, Daniele Capezzone, giornalista de La Verità ed ex portavoce di Forza Italia. Inutile dire che non è stato fatto un singolo commento su abbigliamento e aspetto dei colleghi uomini della ministra.
Ci si potrebbe aspettare che questo tipo di trattamento denigratorio venga riservato solamente alle donne di cui i giornali vogliono dare una connotazione negativa e di spregio. Tuttavia, anche quando i media si trovano a descrivere personaggi positivi, sembrano non riuscire a fare a meno di inserire nella narrazione elementi relativi all’aspetto della donna.
Alexandra Ocasio Cortez, nell’audizione ormai virale in cui mette al muro il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg con una serie di domande incalzanti, è dotata di una dialettica e di una preparazione strabilianti, soprattutto se comparata con il suo intimidito interlocutore. Viene tuttavia descritta da Il Sole 24 Ore in un articolo che racconta l’audizione di cui sopra, come “la trentenne stella newyorkese”; “con il fare e l’occhiale dell’integerrima professoressa”. Offensivo? Sicuramente superfluo alla narrazione. Di nuovo, infatti, la competenza della protagonista passa in secondo piano, e viene ridotta la sua immagine ad uno stereotipo che annulla le peculiarità e la grandezza di ognuna di queste donne.
Sarebbe lontano da un’interpretazione attenta scaricare la responsabilità di questo fenomeno sui singoli giornalisti; è evidente invece che il retroterra culturale è, soprattutto in Italia, responsabile silente e pilastro portante di una discriminazione veicolata da pregiudizi che entrano in circolo nella società, soprattutto tramite il modo in cui vengono raccontate le protagoniste, quando lo sono, di storie mal scritte.
Questo articolo, scritto da Teresa Gori ed Edoardo Risaliti, è parte di una rubrica su femminismo e parità di genere a cura di quest’ultimo.