Roy McBride (Brad Pitt) è un ingegnere spaziale dell’esercito che, per scoprire la verità sul padre scomparso, l’astronauta Clifford McBride (Tommy Lee Jones), decide di imbarcarsi in una pericolosa missione. Clifford era stato mandato, sedici anni prima, in missione sul pianeta Nettuno per indagare su un segnale mandato da una possibile intelligenza aliena. In realtà, il padre di Roy stava lavorando al progetto Lima, ovvero ad una serie di esperimenti che si stavano rivelando molto pericolosi per il sistema solare, con il possibile rischio di eliminare ogni forma di vita. L’unica alternativa per salvare il nostro pianeta è quella di mandare Roy nello spazio per recuperare informazioni e, se necessario, distruggere il progetto che il padre elabora da anni.
Non è una novità che il fulcro di quasi tutta la produzione cinematografica di James Gray, regista premiato nel 1994 (a soli 25 anni) con il Leone d’Argento per quel gioiello che si chiama Little Odessa, siano i legami di sangue. Nel film appena citato, Joshua, il figlio più grande della famiglia, ritorna a casa dopo anni con il compito di assassinare un gioielliere, ma ad aspettarlo ci sarà l’ostilità del padre Arkady, che lo aveva rinnegato anni prima, impedendogli di vedere addirittura la propria madre. I fratelli Joe e Bobby, protagonisti del film I padroni della notte, hanno seguito strade completamente diverse. Joe è un poliziotto affermato che ha seguito le orme del padre, mentre Bobby ha rinnegato il proprio cognome e gestisce un locale all’interno del quale si svolgono affari loschi. Il giovane Leonard Kraditor di Two Lovers oscilla tra la volontà di soddisfare le esigenze dei propri genitori, sposando la donna da loro scelta, oppure ribellarsi e difendere il sentimento che prova per la sua nuova vicina di casa.
Legami di famiglia che uniscono, separano, generano sofferenza, senso di colpa e frustrazione. Legami che a volte lasciano ferite aperte, mai ricucite. Legami che a volte restano una grande domanda e necessitano una grande risposta.
Il protagonista di Civiltà perduta, Percy Fawcett (l’opera precedente di Gray), era un uomo assetato di conoscenza, condizione esistenziale che lo spingeva ad esplorare ossessivamente il mondo. Se Fawcett si avventurava in Amazzonia alla ricerca dello splendente regno di El Dorado, Roy si spinge oltre, si misura con l’infinità dello spazio, l’unica dimensione nella quale gli è possibile cercare un senso. L’immanenza di Civiltà perduta diventa in Ad Astra trascendenza, perché McBride le risposte non può trovarle qui, ma deve andare oltre, in quell’orizzonte spaziale (ed esistenziale) che sfugge alla ragione umana: l’infinito. Roy, come Astolfo nel celeberrimo canto XXXIV dell’Orlando furioso, ritrova lontano dalla terra (in questo caso Nettuno e non la luna) ciò che qui è stato perduto.
Infine, Se Fawcett si spingeva ai confini della terra, possiamo ben dire che McBride si spinge ai confini dell’universo.
James Gray approda, con il suo settimo lungometraggio, alla fantascienza, confrontandosi con una grande tradizione cinematografica che già aveva cercato di esplorare i misteri dell’universo. Ovviamente impossibile non partire da 2001: Odissea nello spazio, il capolavoro di Stanley Kubrick che esplora l’esistenza umana, immergendoci nelle profondità dell’universo, fino ad arrivare a raccontarci di un’intelligenza superiore, il famoso monolite nero, che scandisce e manipola l’evoluzione della nostra specie. Contact di Robert Zemeckis poneva la domanda circa l’esistenza di forme di vita extraterrestri nello spazio, in Solaris Steven Soderbergh cerca addirittura di dare consistenza materiale all’inconscio umano raccontando la storia di un uomo che si reca su una piattaforma spaziale dove accadono fenomeni inspiegabili. Per giungere, infine, all’inquietante prospettiva proposta da Christopher Nolan in Interstellar, nel quale una situazione catastrofica legata alla scarsità di risorse sul pianeta terra sta per estinguere l’intera umanità, tanto da spingere un ex pilota della NASA ad attraversare un buco nero per cercare un pianeta abitabile. Nel 2009 uscì nei cinema Moon, bellissimo film diretto da Duncan Jones, in cui un astronauta si confronta con la propria solitudine e le proprie allucinazioni in seguito ad un’operazione andata male.
I riferimenti sono molteplici e, Gray, con grande abilità, riesce a dirigere un’opera che si colloca a pieno titolo allo stesso livello dei precedenti film appena citati. Ciò che davvero interessa al regista è l’odissea intimamente psicologica del protagonista, la sua esistenza, il suo essere – nel – mondo. Roy McBride cerca la verità, perché solo attraverso di essa egli potrà (ri)trovare una vera ragione per continuare a vivere nell’ordinarietà dell’esistenza umana.