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In difesa di Sergio Mattarella

Tutti noi, a meno che non si viva su un altro pianeta, sappiamo cosa sia successo il 27 maggio appena trascorso, e ce lo ricorderemo per molto tempo. Il 27 maggio 2018 è il giorno in cui il Presidente del Consiglio incaricato Conte ha sciolto negativamente la riserva, ed è il giorno in cui le istituzioni repubblicane si sono rotte. Si sono rotte non tanto a fronte di una cesura voluta dal Presidente della Repubblica, quanto a causa della testardaggine e dell’esagerazione manifestata da certe forze politiche. Il Capo dello Stato, va detto a gran voce, non può essere relegato a fare il burattino. Mattarella non è un manichino alla mercé della Lega, del M5S né di nessun altro. Il Presidente della Repubblica Italiana – se si sa leggere la Costituzione lo si capisce – ha dei poteri ben precisi fra cui quello di nominare i ministri. Il premier incaricato propone i nomi, certo, ovviamente però è la massima carica dello Stato a prendersi la responsabilità di nominarli, e proprio in virtù di questo ha la possibilità di pronunciarsi ed opporsi ai nomi. Si tratta di ingerenza? No, assolutamente no. Persone che provano a ricoprire cariche istituzionali come quella del ministero dell’interno o del lavoro, insomma individui come Di Maio e Salvini, dovrebbero sapere che il Presidente della Repubblica ricopre un ruolo “notarile” quando non vi sono necessità d’intervento, assume invece la pienezza dei poteri in casi di crisi istituzionale come quella che viviamo da tre mesi.
Il Presidente della Repubblica è l’unica figura con la capacità costituzionale di contrapporsi ad una qualsivoglia maggioranza parlamentare, i padri costituenti hanno voluto così: lasciare una maggioranza senza un argine istituzionale significa lasciar il Paese in mano anche alle derive più estreme. Il Presidente ha questo solenne compito: prendersi carico di decisioni difficili per garantire la tenuta istituzionale, economica e sociale del paese, proprio come ha fatto ieri, opponendosi anche alla volontà della maggioranza. Ed è giusto così, perchè una maggioranza senza freni è potenzialmente una dittatura della maggioranza.

Di fronte a tutto questo, reagire come ha reagito Salvini “ci sta”, pur col suo modo sempre esagerato, colorito, ricco di intolleranza. Reagire come ha reagito Di Maio è invece inappropriato, irrispettoso delle istituzioni, da vero agitatore del popolo. Chiamare in diretta Fabio Fazio irrompendo in trasmissione e minacciare la messa in stato d’accusa di Mattarella, reinterpretando a proprio piacimento l’articolo 90 della Costituzione, è stato prevaricante e violento. Tirare in ballo la reazione popolare è stato volutamente pericoloso. È così che si va alla deriva: si rompono le regole costituzionali e le si reinterpretano a proprio piacimento, si pensa di poter dire tutto e si arrivano a compiere gesti brutali e prepotenti che non distano molto da quando altri esponenti politici minacciavano di trasformare il Parlamento in un “bivacco di manipoli”. Così Di Maio al telefono con Fazio:

«Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri. Io chiedo di parlamentarizzare questa crisi istituzionale, utilizzando l’articolo 90 della Costituzione, per la messa in stato d’accusa del presidente della Repubblica. […] Bisogna parlamentarizzare tutto anche per evitare reazioni della popolazione».

Ai signorotti novelli costituzionalisti va detto che la Corte Costituzionale ammette tranquillamente il comportamento tenuto da Sergio Mattarella, inoltre si possono rintracciare vari precedenti che vanno dalla presidenza Pertini sino alla più recente di Giorgio Napolitano. Chi vuole può documentarsi, questo articolo non diventerà una noiosa trattazione dei precedenti. L’ipotesi “Impeachment” risulta dunque essere una buffonata, ma non è il caso di sottovalutare tutto ciò, perché è la violenza manifestata da certi leader il punto fondamentale. Si può criticare la scelta politica, mentre non si può tirare in ballo un fantomatico attentato alla Costituzione da parte di Sergio Mattarella, così a caso.

La politica, bisognerebbe ricordarselo, si regge sulla ricerca del compromesso, e fino a pochi giorni fa si era lavorato in questa direzione, quando poi qualcosa si è rotto. Da parte di Mattarella vi è stato un atteggiamento di totale dedizione per arrivare a formare un governo, il “governo del cambiamento”, acconsentendo alle richieste di Lega e M5S e prolungando le consultazioni per tempi innaturali, mostrando una pazienza esagerata. Una sola cosa ha frenato Sergio Mattarella: il nome di Paolo Savona al ministero dell’economia. Tralasciamo per un attimo i motivi politici che hanno portato Mattarella a porre questo veto, e consideriamo il fatto che Mattarella, in un percorso caratterizzato da incredibile tolleranza, abbia espresso una singola richiesta, ovvero quella di fare un passo indietro sul nome di Savona. Cercare il compromesso significa non fare barricate su un singolo nome se di fronte hai un Presidente che ti ha permesso di lavorare con tutta la calma del mondo al contratto di governo votato su internet e a tanti altri capricci. Trovare un compromesso in questo caso avrebbe voluto dire andare un minimo incontro al Capo dello Stato, cosa che, a detta sua, non è stata fatta. Anzi, Mattarella nel suo discorso è stato molto chiaro, ha precisato che il problema non è “aver parlato male dell’Europa in passato”, come sostiene Di Maio, bensì il portare avanti una politica di immediata fuoriuscita dall’euro, un elemento da scongiurare a priori. Il problema non era la critica all’Europa bensì l’estremismo di una tematica tra l’altro nemmeno affrontata in campagna elettorale. Qui il passaggio tratto dal discorso del Presidente:

«Ho chiesto, per quel ministero, l’indicazione di un autorevole esponente politico della maggioranza, coerente con l’accordo di programma. Un esponente che – al di là della stima e della considerazione per la persona – non sia visto come sostenitore di una linea, più volte manifestata, che potrebbe provocare, probabilmente, o, addirittura, inevitabilmente, la fuoruscita dell’Italia dall’euro. Cosa ben diversa da un atteggiamento vigoroso, nell’ambito dell’Unione europea, per cambiarla in meglio dal punto di vista italiano.
A fronte di questa mia sollecitazione, ho registrato – con rammarico – indisponibilità a ogni altra soluzione, e il Presidente del Consiglio incaricato ha rimesso il mandato».


(QUI la trascrizione integrale del discorso di Sergio Mattarella). La gravità della situazione insomma sta nella violenza verbale manifestata da Di Maio in primis, un personaggio figlio di una politica fatta senza il benché minimo rispetto delle istituzioni, appartenente ad un partito la cui massima espressione è il “Vaffa day”. Sembrava di assistere alla nascita di un M5S diverso, più istituzionale, e invece in mezz’ora si è fatto un salto indietro di un annetto buono. C’è da difendere la decisione di Sergio Mattarella – a posteriori molto coraggiosa – dagli attacchi di una politica sprezzante delle istituzioni, e soprattutto dagli attacchi di un pubblico che si berrà tutto quello che gli verrà raccontato con un certa veemenza.

Al netto di tutto questo, comunque, dalla vicenda di ieri sera emerge un unico chiaro vincitore, ovvero Matteo Salvini, che ha architettato ad arte questo “colpaccio”. La Lega cresce vertiginosamente e tornare al voto significherebbe portare a casa un risultato ancor più storico da leader indiscusso della coalizione di centrodestra, che potrebbe arrivare tranquillamente da sola al 40%. Tra l’altro Salvini parrebbe aver allontanato almeno momentaneamente i discorsi in merito alla messa in stato d’accusa del presidente. A perdere un treno è invece Di Maio, che vede crollare il castello di carta che era riuscito faticosamente a tirare su. Messo in ombra da Salvini, il rischio per il leader 5s è quello di risultare perdente e sbiadito, e proprio per questo ha tirato fuori con tutta la forza che aveva in corpo il populismo, il politicamente scorretto e l’anti istituzionalità che aveva represso per 3 mesi. Ma anche se se ne capisce la tattica, una cosa va detta forte e chiara a Di Maio: la tattica DEVE fermarsi di fronte alla tenuta delle istituzioni repubblicane e al rispetto nei confronti del Presidente della Repubblica.
Cari lettori, purtroppo questo becero periodo lungo 3 mesi era solo l’antipasto.

Buon appetito.