Circola in rete senso di vergogna nell’osservare che certi ministri designati dal governo Gentiloni siano sprovvisti di alcuna formazione universitaria. Sembra quasi, a leggere i giornali, che il neo Presidente del Consiglio abbia cercato col lanternino persone poco preparate e dunque prive dei mezzi tecnici necessari per svolgere la loro funzione, perché di laureati volenterosi in Italia ce ne sarebbero a bizzeffe.
Mettiamo da parte la questione Fedeli, discorso su cui si è detto tanto e ci si è documentati poco, e ripartiamo da zero in queste considerazioni: ci sarebbe da chiedersi cosa sia un ministro e quali compiti debba svolgere.
Un ministro è il funzionario di un governo, posto a capo di un dicastero, ovvero di un organo che si occupa di pubblica amministrazione, risulta essere dunque parte attiva della guida politica del paese. Nel caso italiano, per farla breve, si può vedere il ministro come una pedina del governo messa alla guida di un corpus di tecnici, necessari per poter mandare avanti la burocrazia: deve egli stesso essere un tecnico? Secondo quanto si desume da questo discorso, non per forza.
A capo di un ministero può starci senza ombra di dubbio un “semplice” politico, certo nulla toglie, ad esempio, che a ministro della salute vi sia un importante medico e così via, ma non è un obbligo. Oltretutto se il corpo di governo dovesse essere per forza tecnico non avrebbe senso distinguere fra governo politico e governo tecnico, una classificazione che lascia spazio a varie interpretazioni e illazioni, ma che ha una logica di fondo ben precisa.
Il ministro quindi di norma ha il prerequisito unico di essere un politico, e il vero problema nasce adesso, parlando, più che dei ministri,della figura politica in sé: può essere essa una persona qualunque? Deve avere una preparazione inerente alla politica? Se fosse in dubbio, la formazione adatta esiste, risiede in tutti quei campi che fluttuano attorno alle Scienze Sociali, da Scienze Politiche a Giurisprudenza, ma la risposta al quesito che si pone è complessa. La sentenza più semplice può essere trovata nella nostra Costituzione:
Art. 49. «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».
Certo, si tratta di una risposta che dista un po’ dalla realtà, dove esistono barriere che impediscono a taluni di entrare in politica, ma sul piano formale ognuno ha il diritto di prenderne parte, chiunque esso sia, e ideologicamente la carta fondamentale parla chiaro: tutti gli individui hanno in sé la capacità e la possibilità di sviluppare politica attiva. Dunque il principio assunto dalla nostra Costituzione prevede che non ci siano ostacoli a danno di coloro i quali non dispongano di una laurea adatta, e non potrebbe essere altrimenti, visto che fino a prova contraria si vive in un sistema democratico, il cui presupposto è garantire a tutti i medesimi diritti politici.
La prassi però, si sa, è tutt’altra cosa, spesso ad arrivare al vertice sono i “professoroni”, come li definisce qualcuno, persone qualificate nella crema delle migliori università internazionali. Non si può certo dire che questo sia un aspetto negativo: solitamente uno o più titoli di studio possono essere prova di una competenza seria, e gli elettori stessi, si presume, preferiscono talvolta essere guidati da persone preparate.
Posto sotto questa luce, allora, il precetto costituzionale va riletto nell’ottica di un monito: non dimenticarsi mai che avere buone idee politiche e buoni intenti non corrisponde ad essere preparati accademicamente, un abile politico può anche essere frutto della strada, o di una formazione scolastica non brillante, perché chiunque decida di buttarsi in questo mondo, ad ogni età, è capace di farsi le ossa da solo, poco importa se la prassi comune ed il popolo vogliano che al governo vi siano degli esperti: la democrazia dice altro, e comunque il nostro sistema lascia spazio alla venuta dei governi tecnici qualora ve ne sia bisogno.
Allora il ministro? Egli è un politico esattamente come gli altri, ed esattamente come gli altri ha il diritto di essersi fatto sul campo o, allo stesso modo, di essere un colto individuo che ne ha studiate tante. Il suo compito è infatti proprio dare colore politico ad un neutro corpo di funzionari del dicastero che cercheranno di mettere in pratica il lavoro secondo le direttive, nei limiti del possibile.
Ma il ministero è anche parte di una carica istituzionale, e qui il discorso sembra complicarsi. Così come il Presidente del Consiglio, tutti i suoi colleghi sono chiamati ad una certa levatura, certo questo non può essere negato. Non solo il ministro indirizza tecnici, non solo è un personaggio politico, ma dunque è anche, in terza istanza, un’istituzione. Dove sta il limite fra ciò a cui può ambire un “semplice” membro di partito rispetto al plurilaureato? Il quesito lascia spazio a risposte molteplici che non riescono ad ergersi come definitive. Questo genera problemi sul piano formale-legale? Ancora una volta no, visto che ogni istituzione, in sé e per sé, è presieduta comunque da un personaggio politico, il che fa rientrare di nuovo il discorso nei ranghi.
Sul piano pratico invece la preoccupazione per il fatto che una figura istituzionale possa essere impreparata si fa sentire, a ragion veduta, perché tal carica non deve solo dare pareri, sposare semplicemente un’opinione, farsi voce di un pezzetto di popolo, ma deve anche saper prendere decisioni e misure a mente fredda: una cultura maggiore non può che essere d’aiuto.
Ma si è veramente sicuri, anche in questo caso, di potersi privare a priori della conoscenza e della coscienza messe a frutto da una persona dalla lunga esperienza pratica? Si è davvero in condizione di dire che in politica, sia essa “bassa” o istituzionale, la morale e l’etica personale, le doti strategiche innate, la naturale capacità di dialogo e d’azione, la bravura dialettica e tanti altri fattori non accademici siano privi di valore nei confronti di un titolo di studio? il discorso potrebbe anzi essere ribaltato: “chi sei tu, laureato, per poter dire di essere migliore di me, che mastico politica da quando sono nato?”.
L’argomento, come prevedibile, non può che scadere in trattazioni filosofiche che alla fine lasciano il tempo che trovano, perché ognuno può avere la propria idea, ma vivendo in una democrazia non si può certo gridare “allarme!” e “sopruso!” quando una persona dal curriculum vitae scarno giunge a ricoprire una carica politica: ciò è frutto del meccanismo democratico stesso e se questo non andasse bene bisognerebbe affrontare la realtà e smettere di osannare a priori la democrazia, cosa che, per carità, si può fare eccome.
Spesso si addita a certi politici meno preparati, poi, di essere frutto della corruzione, o di qualche giochino illecito, ma questo è un rischio che riguarda i politicanti di qualsiasi estrazione è formazione, è uno dei grandi pericoli della Repubblica in generale, come sottolineava secoli fa anche Machiavelli.
Ad ogni modo, nella stessa maniera in cui ci si scandalizza di un ministro senza laurea, ci si dovrebbe scandalizzare del parlamentare, che in teoria dovrebbe occuparsi di fare le leggi, mestiere non tanto semplice, eppure il parco dei presenti alla Camera e al Senato è assai variegato ed anzi, in nome della rappresentanza, qualcuno rivendica una presenza di deputati ancora meno d’élite. Gente comune.
Poi quando a prendere la via del potere è il politico impreparato del partito preferito però si sta zitti, di colpo va bene così, e va a finire che ciò che si dice del ministro non vale per il vicepresidente della camera e viceversa (ogni riferimento a fatti reali è puramente voluto).
Facendo una considerazione esclusivamente personale, vedrei di buon occhio il requisito di un preciso titolo di studio per poter prendere parte a cariche istituzionali, perché le lauree del campo politico esistono per un motivo, ma la mia opinione vale quanto quella di un altro e non posso pensare di giudicare Tizio e Caio finché non li vedo all’opera; si noti che non sto andando contro ad un preciso politico, ma al principio democratico in generale, strizzando l’occhio al principio meritocratico. È invece giudicare il lavoro del singolo, a prescindere dalla preparazione sulla carta, il dovere politico e morale di ciascuno: il giudizio a posteriori è ciò a cui chiama la democrazia.
Infine vorrei rivolgermi a quei saltimbanchi da social che si lamentano in continuazione della disparità di titoli necessari ai lavoratori comuni e ai politici per poter svolgere il proprio incarico: vi do una bella pacca sulla spalla, avete piena comprensione, ma voi allo stesso tempo cercate di applicarvi un minimo e abbiate comprensione nei confronti del principio democratico, che riguarda solo la vita politica e non ciò che vi pare e piace. E meno male.
Articolo di Stefano Ciapini.