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Intervista a Alice Oliveri


Alice Oliveri (Oliveri e non Olivieri, badate bene) è una giornalista freelance: la potete trovare spesso su The Vision e Link Idee per la Tv, ha scritto per VICE, ed è pure autrice televisiva e podcaster. Ho avuto la possibilità di parlare con lei per un paio d’ore riguardo al mondo della comunicazione in Italia, della sua carriera e dell’importanza delle facoltà umanistiche.
Dato che è impegnata su più fronti (al momento soprattutto nella scrittura di un programma TV), non sapevo come lei si definisse professionalmente, quindi gliel’ho chiesto. Insieme ad altre cose.


Ciao Alice! Guardando un po’ online, e anche in base a quanto mi hai anticipato, il giornalismo non è la tua unica occupazione. Mi viene però da chiederti: professionalmente ti definiresti giornalista?

Sono giornalista pubblicista, iscritta all’albo dal 2019, anche se non so se voglio diventare professionista a tutti gli effetti, per motivi più burocratici che altro. Poi oggi essere giornalisti vuol dire tutto o niente, non serve il patentino. Comunque sì, sono giornalista, ho anche aperto la partita IVA e con il recente bonus mi sono comprata un’aspirapolvere.

Okay, perfetto. Sempre spulciando le varie bio mi sembra che tu abbia iniziato a scrivere durante il tuo percorso di studi (Alice è laureata in Scienze linguistiche e letterarie, n.d.r.). Quanto hanno influenzato il tuo approccio alla scrittura? La scelta di un percorso di studi umanistico era correlata a un’idea di futura professione nel giornalismo?

Io ho studiato lingue, ma quando ho iniziato non avevo veramente idea di cosa volessi fare. Sapevo cosa mi piaceva, ma non come farne una professione. Il motivo per cui ho iniziato a scrivere è stato casuale. Durante il mio secondo anno di triennale sono andata in Erasmus per un anno a Londra. L’approccio universitario anglosassone mi ha in un certo senso forzato a scrivere, e lì mi sono resa conto che mi piaceva. Ho iniziato scrivendo racconti brevi che sono arrivati, per vie traverse, alla redazione di The Dude Magazine, uno dei tanti esempi di quelle realtà molto giovani che ti permettono di scrivere, che danno modo di iniziare una carriera, e così ho cominciato.

Se posso “lanciare un messaggio” (ride, n.d.r.) mai sottovalutare le facoltà umanistiche, perché in realtà col fatto che non insegnano niente di concreto permettono di sviluppare una capacità critica che nella scrittura, ed in generale nel mondo del lavoro, servono. La cosa del “Non studiare le materie umanistiche” mi sembra una cazzata, a maggior ragione nel mondo digitale di oggi, dove qualunque azienda ha bisogno di un qualcuno che ne curi i contenuti. Certo, la premessa è non incasellarsi in un mestiere preciso, ma ripeto, anche noi poveri umanisti serviamo a qualcosa.

Tu sei una giornalista freelance. È una scelta?

Sì. La prima rivista che mi abbia pagato è VICE, poi mi sono spostata a Milano presso The Vision, che è stata fondata da un ex editore di VICE, Andrea Rasoli. Lì ho fatto un anno di redazione da dipendente, e se devo essere sincera, non mi sono trovata bene. Ho quindi ripreso a lavorare come freelancer, e mi rendo conto che mi piace di più. Credo sia molto più divertente: innanzitutto per me non è bello avere l’esclusiva con un solo giornale, e poi, avendo la strizza di non trovare lavori sono molto più spinta a cercarne di nuovi. Per esempio, ho iniziato a collaborare con una trasmissione di Rai 3, Tv Talk e oltre a The Vision scrivo per Link Idee per la Tv. Anzi, se non fosse stato per la pandemia, l’anno scorso stavo cominciando ad avere collaborazioni sempre più concrete e anche diverse, dopo un anno magari più traballante da un punto di vista economico.
Da freelance sto imparando un sacco di cose, cose che se fossi stata in una redazione fissa non avrei imparato. Capisco che per un giovane l’idea della redazione fissa possa essere allettante, ma io personalmente la vita d’ufficio l’ho trovata opprimente per la scrittura, che non mi sembra un qualcosa che funziona a blocchi di ore. Anche perché, come dicevo, il giornalismo è cambiato, non ci sono più le vecchie redazioni dei grandi quotidiani che ogni giorno devono fare cronaca. Oggi le redazioni delle riviste online si occupano di approfondimento; lo smart working in teoria per questo tipo di lavoro credo sia la formula adatta.

Era la prossima domanda. La pandemia come ha intaccato la tua vita lavorativa? Come ti trovi?

Io mi spostavo tantissimo, vivendo a Roma ma dovendo andare comunque molto a Milano. Anche perché a Roma, e questo può sorprendere, di redazioni di riviste online ce ne sono un millesimo di quante ce ne sono a Milano. Per quanto riguarda lo scrivere io preferisco andare in biblioteca, non mi piace stare in casa, ma mi sono dovuta abituare. Quindi anche per questo ho comprato un’aspirapolvere.

Recentemente sei anche podcaster; conduci assieme a Giuseppe Francaviglia “Il nulla mischiato col niente”, prodotto da The Vision. Cosa pensi dei podcast? Nel momento attuale, in cui il mercato relativo è così saturo viene da pensare che i podcast piacciono più a chi li fa che a chi li ascolta.

Hai anticipato la risposta. Io di podcast ne ascolto pochi, però mi piace farli. Tu pensa che da piccola avevo un registratore, un Fisher Price, con cui registravo dei programmi fittizi tipo “Alice Music” dove leggevo riviste e parlavo di musica per tre ore di fila. Più seriamente, i podcast vanno a riempire lo spazio del contenuto radiofonico, io preferisco la radio. Il mio problema con i podcast è che sono un po’ a briglia sciolta, un flusso di parole, di pensieri, che dall’altro lato però ne è anche il bello. Come sempre l’arma a doppio taglio di Internet è questa, la libertà di creare contenuti da un lato e l’impoverimento dato dal gran numero che ne consegue.

Sempre usando il podcast come gancio, nella seconda puntata, affrontando il tema del politicamente corretto, hai parlato della distanza della nostra società, che banalmente potremmo riassumere fra under 35 e over 35. Come si traduce questa incomunicabilità a livello professionale per te? Quanto è difficile fare giornalismo con questo divario di mezzo e quanto è importante rompere la bolla?

Tantissimo. La più grande soddisfazione da un punto di vista professionale è rompere le bolle (ride, n.d.r.).
Io odio i contenuti fatti solo per la bolla, ci sono molti miei colleghi coetanei che fanno contenuti unicamente per la bolla. Libri per la bolla, articoli per la bolla, eccetera. Okay, siamo fighi, siamo quelli dell’editoria (a parte che non siamo fighi per niente, siamo degli sfigati che non guadagnano un cazzo che si sentono chissà chi), ma così è un tipo di scrivere autoreferenziale. Se io e te ci conosciamo e parliamo di un tema su cui sappiamo di avere la stessa idea, non otteniamo nulla a farci i complimenti; se invece una persona di un contesto diverso dal mio legge un qualcosa che scrivo e riesce a capirlo, sono contenta. Una sorta di ultimate goal del giornalismo online.

Sul come sfondarle, personalmente è tutto un po’ un terno al lotto, dipende molto dal tema, dall’argomento.
In più, una volta usciti dalla bolla, c’è anche il rischio di scottarsi con il mondo reale. Il fatto che chiunque, nel momento in cui ti esponi, possa dirti la propria opinione è pesante; spesso perché sono commenti che vanno nel personale, in reazione al titolo di un articolo che non hanno letto. Si va dal “fammi vedere le tette” allo “zitta gallina” passando per “chi è ‘sta troia”. Questo aspetto di Internet è un macello non certo da oggi, ma a volte penso che i commenti dovrebbero essere a pagamento, non annullarli perché comunque servono, creano engagement, ma andrebbero limitati.

Tra l’altro, a proposito di engagement, la questione giornali-social e anche politica-social, è una questione problematica. L’impatto che hanno sul mondo reale è un qualcosa che non può essere determinato da un like.

Sono d’accordissimo, e scusa se ti interrompo. Penso alla politica, che si costringe a stare sui social e, inseguendone i modelli conseguenti, comunica in modo indecente.

Esattamente, anche perché diventa un gioco al ribasso sulla comunicazione di massa che può avere delle conseguenze molto pericolose. Personalmente che un uomo di stato usi Instagram per diffondere video falsi è un qualcosa che andrebbe punito legalmente. Credo che nel mondo della comunicazione lo stato dovrebbe essere più presente, quanto meno nello stabilire le regole del gioco.

Non solo, un gioco al ribasso dove si elegge a grandi comunicatori quelli che ottengono le maggiori interazioni.

Comunicare, se lo intendiamo come lo utilizzava Berlusconi, riuscire, in certo senso, ad ingannare le persone, allora siamo d’accordo. Credo ovviamente comunicare sia un qualcosa di diverso, ci sono dei settori che non possono essere schiavi della performance perché le conseguenze sono drammatiche. Per esempio, i quotidiani attraverso le pagine social riescono a dare una notizia e il contrario della stessa notizia nel giro della stessa giornata, solo per creare engagement, abbandonando qualsiasi idea di linea editoriale. Ora, non sono a favore del socialismo reale ma un minimo di regole dovrebbero esserci.

Tornando al rompere la bolla, può farlo la TV generalista? Mi spiego. A primo impatto la televisione sembra riassumere bene questa distanza: è un mezzo comunicativo che fa riferimento a realtà distanti dai giovani. Tuttavia, i giovani si mostrano reattivi alla televisione quando offre un contenuto che può comunicare con loro. Penso all’ultima edizione di San Remo, al successo recente di Lundini. Può la televisione generalista essere strumento di un tipo di informazione-intrattenimento che va oltre al divario che oggi rappresenta?  

Io credo fermamente nel servizio pubblico, e dico questo perché la TV abbia delle possibilità enormi.
Al contempo spesso queste potenzialità vengono bruciate per colpa di apparati burocratici giganteschi, creando ulteriori problemi. In più, se la TV pubblica abbandona degli spazi, questi poi vengono riempiti.
Pensa all’intrattenimento per l’infanzia, tu sei del ’97, quindi ti ricordi bene la Melevisione, una realtà incredibile. In una diretta che abbiamo fatto con Danilo Bertazzi, ossia Tonio Cartonio, lui ci raccontava come i contenuti fossero di un livello talmente alto che arrivavano ugualmente al bambino Christian dello Zen di Palermo così come al Piermaria del centro di Milano. La Rai è piena di esempi virtuosi, che funzionano; parlavi della Pezza di Lundini, un programma dove un team di giovani è stato capace di creare un programma di successo, tanto che ora ne faranno una seconda stagione.

Io credo tantissimo nel valore generalista della TV, nella accezione in cui può arrivare a tutti. Quanto la TV si stia muovendo in questo senso, è un po’ un problema. La TV non è ancora del tutto defunta, ma sulla partita del digitale ci si gioca una grande parte del futuro; esiste una generazione che della televisione guarda solo il Collegio e Amici di Maria De Filippi. Se la TV e i suoi dirigenti non creeranno una sorta di cuscino che attutirà la caduta nel momento in cui i giovani saranno la maggioranza, l’impatto rischia di essere devastante.

Detto questo, per me rimane lo strumento più adatto per rompere la bolla, sempre se si ha fiducia nei giovani.

E io non sono appassionata dell” OK Boomer”, questo scontro generazionale è una cosa da ’68 trita e ritrita che anche basta., Augias, Alberto Angela, Barbero, fanno televisione riuscendo a comunicare benissimo con la mia generazione.

Un’ultima domanda, sempre riguardante le bolle. Quella del giornalismo e delle riviste digitali, si è evoluta rispetto a quando ci sei entrata?

In un certo modo sì. Un qualcosa che era molto presente qualche anno fa nelle riviste online era un taglio molto provocatorio, più simile ai blog, che si contrapponeva in modo netto alla stampa classica.

VICE, per fare un esempio, era una rivista che proponeva guide all’Ecstasy, all’MD, mentre oggi, e non ne faccio un discorso di cosa è meglio o peggio, punta più a temi più “woke”, come i diritti della comunità LGBTQ e via discorrendo. In generale, mi sembra che le riviste digitali si basino meno sulla contrapposizione con i giornali mainstream e abbiano un’identità più fluida.