Sono passati sette anni da quando la Crimea è stata annessa alla Federazione Russa e alcuni territori dell’Ucraina orientale si sono proclamati indipendenti. Sette anni di guerriglia e tensioni. Un conflitto che qualifica il Donbass, di cui fanno parte le regioni di Donetsk e Luhansk. Da febbraio la situazione si è scaldata e per settimane si è vociferata l’entrata in gioco della Nato. Il confine russo-ucraino è stato per quasi un mese il punto più caldo delle tensioni globali, fino a quando la Russia non ha ritirato le truppe dal confine. Tuttavia, è probabile che il Donbass torni ad essere il fulcro delle tensioni.
Nel 2019 in Ucraina si svolgono le elezioni presidenziali. Petro Porošenko (presidente ucraino dal 2014) viene sconfitto da Volodymyr Zelensky, il quale viene eletto con il 72,3% dei voti. Un plebiscito. Il cambio di presidenza ha comportato distensioni con Mosca solo in una prima fase.
Zelensky, prima di entrare in politica, era un uomo dei media, direttore artistico dello studio cinematografico Kvartal 95 e attore comico. La fortuna arriva con la serie tv Sluha Narodu (tradotto: Il servitore del popolo), in cui interpreta un Capo di stato onesto, che riesce a sconfiggere facilmente i concorrenti politici. La serie viene accolta con grande favore dal pubblico. Nel 2018 il Kvartal 95 crea il partito Sluha Narodu, che porta Zelensky dritto al risultato.
Al primo turno delle presidenziali del 2019 il Donbass vota per Yuriy Boyko, che rappresenta la corrente filorussa. Boyko era il vice di Mykola Azarov, Primo ministro dal 2010 al 2014. Nel 2013 l’Ucraina stava per firmare l’accordo per il libero commercio con l’Unione Europea. Azarov sospese le trattative. Putin cercava di riportare Kiev sotto la sua egida, allettando l’esecutivo con proposte di finanziamenti e ricattandolo con misure protezionistiche.
La crisi del 2014
Le zone di Donetsk e Luhansk sono zone di confine. La maggioranza della popolazione è russofona, di religione ortodossa russa, storicamente e culturalmente legata alla Russia. Nel 2013, quando le istituzioni sembrano nuovamente avvicinarsi a Mosca, il paese insorge. Le manifestazioni Euromaidan costringono il governo alle dimissioni. Il presidente Janukovic fugge da Kiev il 22 febbraio. Al suo posto siede il presidente della Camera, Turcynov, e il parlamento vota un governo ad interim, non riconosciuto dal Cremlino. Le regioni orientali protestano contro il nuovo governo. Erano il bacino più sostanzioso del consenso di Janukovic.
Il 16 marzo 2014 la Crimea vota il referendum per l’indipendenza. È il punto di non ritorno. Il risultato è inequivocabile: il 95,32% è per il sì. Il fatto che Mosca si sia mossa per l’approvazione diventa sempre più plausibile, il 17 marzo Putin dichiara la penisola parte della Federazione. Il governo ucraino non riconosce il risultato. Il referendum è illegale anche per Stati Uniti, Unione Europea, Consiglio d’Europa e OSCE. Già a febbraio le forze armate russe si spostano verso l’Ucraina e sicuramente entrano in Crimea. Il rappresentante russo all’Onu riferisce che l’invio delle truppe è stato chiesto dall’ex presidente Janukovic.
Il 6 aprile alcuni separatisti si impadroniscono dei palazzi governativi dei distretti territoriali orientali. Vengono proclamate due repubbliche indipendenti: quella di Donetsk e quella di Luhansk. L’11 maggio un referendum conferma l’indipendenza. Kiev non ritiene legittimo il risultato. Il 15 maggio la Repubblica federale di Donetsk e il 22 maggio quella di Luhansk proclamano la legge marziale e chiedono la fuoriuscita di tutte le truppe ucraine. È in atto la guerra civile.
Gli scontri continuano
Gli scontri si fanno giorno dopo giorno più pesanti, con perdite consistenti da ambo le parti. Intanto, viene eletto presidente Porošenko. Tra tregua e guerra si va avanti per mesi. Il 17 luglio l’aereo di linea della Malaysia Airlines, partito da Amsterdam e diretto a Kuala Lampur, viene abbattuto, con il risultato di 298 morti. L’aereo è stato colpito da un missile russo, lanciato nelle aree del Donbass. Le milizie russe sono già presenti nei territori indipendenti. Solo tra il 22 e il 25 agosto, però, la Nato denuncia uno sconfinamento rilevante dell’esercito di Mosca, una invasione furtiva, con la presenza imponente di carri armati.
Si dovrà aspettare il 5 settembre per la firma del Protocollo di Minsk. Un accordo per porre fine alla guerra, firmato da Ucraina, Russia e dalle due Repubbliche federali di Donetsk e Luhansk. L’accordo consta di dodici punti, ma non tutti saranno rispettati. Le ostilità continuano e il 19 settembre un memorandum amplia a 15 i punti del Protocollo, grazie all’intervento di Francia e Germania. Tuttavia, le tensioni continuano per anni.
I morti della guerra civile del Donbass si stimano oggi intorno alle 14mila unità. Molto spesso sono avvenuti scambi di prigionieri e sia il Protocollo di Minsk II, di inizio 2015, sia gli accordi di armistizio successivi hanno comportato unicamente una riduzione momentanea degli scontri. Nel 2018 il Presidente della Repubblica di Donetsk viene ucciso in un attentato. Nel 2019 uno scambio di prigionieri avviene grazie all’incontro del Quartetto di Normandia, composto da Ucraina, Russia, Francia e Germania.
L’ultimo accordo è di luglio 2020, con un cessate il fuoco sottoscritto dalle parti ma considerato molto favorevole alla Federazione. La Russia, negli anni, ha passato armi ai manifestanti e utilizzato prevalentemente i così detti piccoli uomini verdi, forze speciali senza uniformi o segni di riconoscimento, ma anche mercenari e soldati non regolari.
2021. Le tensioni crescono, anche a livello internazionale
È il 26 marzo. Quattro militari ucraini vengono uccisi e uno rimane gravemente ferito. I riflettori si spostano di nuovo sul Donbass. Osservatori europei e ucraini parlano di un afflusso più consistente del solito di milizie russe al confine. Il 30 marzo il portavoce del Cremlino parla di una escalation delle tensioni. Da Mosca parlano di “fallimenti di colloqui di pace”. Da Kiev gli fanno eco. Indicano una rottura del patto di pace e denunciano una maggior presenza russa nelle aree del Donbass. L’Ucraina chiede ulteriori sanzioni alla Russia da parte degli Usa e dell’Unione Europea.
A febbraio Zelensky sembra avvicinarsi alla Nato, più di quanto non abbia fatto nei due anni precedenti. Alla Casa Bianca ora siede Biden e non più Trump, che sulla Russia non aveva mai fatto passi troppo grandi. Biden, invece, ha subito affibbiato l’etichetta di killer a Putin. Sul fronte interno, l’esecutivo di Kiev sanziona il leader della corrente filorussa Viktor Medvedchuck per finanziamento del terrorismo. Vengono chiusi anche tre canali televisivi di propaganda filorussa. Mosca risponde: le tensioni si acuirebbero, nel caso in cui Zelensky entrasse nell’Alleanza atlantica. Ma c’è anche la questione, geopoliticamente rilevante, del nuovo gasdotto North Stream 2, un progetto russo-tedesco, che non passerebbe più in territorio ucraino. Gli Stati Uniti e la Francia si sono opposti alla nuova conduttura, che, però, è già completata al 96%.
L’8 aprile l’agenzia Agi riferisce che sono 25 i soldati ucraini uccisi dall’inizio dell’anno nelle aree del Donbass. Merkel ha parlato con Putin, il quale ha imputato la colpa a Kiev e ha fatto sapere di non avere intenzione di ridurre le truppe al confine. Il 9 aprile gli Usa fanno sapere che la settimana successiva navi Nato entreranno nel mar Nero, cosa che poi non accadrà. Per farlo sarebbero dovuti passare attraverso Istanbul. La Turchia cerca di entrare nell’alveo diplomatico ed Erdogan sa di poter contare sulla sua posizione strategica.
Il 13 aprile Biden chiama Putin e chiede un incontro, dopo aver fatto sapere che la Nato agirà con fermezza per salvaguardare Kiev. Intanto, afferma di aumentare di 500 unità la milizia Usa in Germania. I ministri degli esteri del G7 hanno chiesto al Cremlino di cessare le provocazioni. Zelensky parla di 41mila militari russi impiegati al confine orientale, a cui vanno aggiunti i 42mila già presenti in Crimea. In più, un numero consistente di carri armati e di altra artiglieria pesante è stato spostato dalla Siberia a Voronezh, a quasi 200 chilometri dal confine.
Il 15 aprile Biden espelle dieci diplomatici russi per l’attacco hacker a SolarWind, che ha colpito gli Usa (e non solo), e anche per quanto sta accadendo in Ucraina, mettendo tutto sotto l’ombrello delle destabilizzazioni internazionali. A queste espulsioni vengono addotte sanzioni, oltre a quelle già presenti. Il giorno successivo Mosca non esita a espellere a sua voltadieci diplomatici e “consiglia” agli Usa di richiamare il proprio ambasciatore a Washington, oltre a impedire l’entrata nel paese di personale di Ong americane e di funzionari governativi americani. Tuttavia, non c’è ancora un clima da escalation forte tra le due superpotenze. Biden non ha posto sanzioni nemmeno su North Stream 2, cosa che renderebbe i colloqui molto più problematici.
Il 16 aprile Putin fa sapere di voler limitare il passaggio di navi da guerra straniere in alcune parti del Mar Nero, quelle più vicine alla Crimea, lasciando però lo stretto di Kerch aperto. Anche l’Unione Europea, seppur con ritardo, si sta muovendo. Nel frattempo, Merkel, Macron e Zelensky stanno chiedendo un incontro del Quartetto di Normandia con Putin. Il leader di Mosca non ha escluso il summit con Biden in un paese europeo durante l’estate.
Il 22 aprile Mosca fa sapere che ritirerà le truppe dal confine. La tensione al confine russo-ucraino che al Cremlino hanno chiamato esercitazione si conclude così, con i militari che tornano alle proprie basi, sparse in tutto il territorio della Federazione. Tuttavia, l’allerta rimane alta. I mezzi pesanti, che erano stati spostati durante l’esercitazione, rimarranno nella base di Voronezh, al confine con l’Ucraina. Nel frattempo, gli Usa hanno predisposto 155 milioni di dollari per finanziare lo sviluppo dell’Ucraina, di cui 63 per contrastare l’aggressione russa.
Il rischio di una guerra è reale?
Difficile rispondere. Sicuramente non nel breve periodo. Non sarebbe nemmeno conveniente per la Russia, che, al momento, ha uno status quo favorevole: le aree del Donbass sono di fatto sotto la sua egida, tanto che Mosca ha rilasciato oltre 650mila passaporti agli abitanti delle due repubbliche indipendenti. In questo modo, se l’Ucraina dovesse rispondere a future provocazioni, Putin potrebbe giustificare un intervento di difesa. La distensione degli ultimi giorni è stata avvantaggiata dall’atteggiamento di Kiev, che non ha dato risposte scomposte e che ha posto freni alle spinte di Putin, grazie ai continui riferimenti alla Nato. La possibilità che il Donbass possa diventare la nuova Georgia sembra, allo stato attuale delle cose, molto improbabile.
Le mosse dell’Alleanza atlantica, per il momento, sono state ben misurate. Alle dichiarazioni bellicose di Putin, Biden, Blinken e i vari generali hanno risposto a tono e muovendo in modo giusto le pedine. Tutto dipenderà dalle prossime mosse, fare passi falsi è sempre possibile, ma portare avanti una vera e propria guerra è molto costoso in termini economici, soprattutto di vite umane, e nel caso dell’Ucraina vorrebbe dire oltrepassare la linea della zona cuscinetto, tanto da avvicinarsi (forse troppo) alle porte dell’Europa. L’entrata dell’Ucraina nella Nato sembra ancora abbastanza lontana, è più plausibile un appoggio esterno, che rimarrà comunque saldo nel tempo e i fondi aggiuntivi provenienti dagli States lo dimostrano. Le varie dichiarazioni di Putin devono essere lette anche nei termini di una forte politica interna. A settembre si svolgeranno le elezioni legislative nella Federazione e il governo è già in difficoltà per le manifestazioni avvenute a seguito dell’incarcerazione di Navalny. Anche la pandemia e la gestione del Covid non aiutano il governo in carica e un’escalation su larga scala sul Donbass (che la Federazione ritiene già Russia), potrebbe aiutare Putin nel mantenimento dello status quo.