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Le aspettative nella realtà


L’ultima volta abbiamo affrontato il tema delle “aspettative, concentrandoci sul capire la loro importanza nel mondo economico.

Abbiamo visto come queste siano il vero e proprio combustibile che fa girare il motore del ciclo economico e quanto sia “miope” la loro visione da parte dei soggetti ma al tempo stesso reale e potente come impatto.

Cercheremo ora di addentrarci maggiorante in questo tema, andando a cercare di capire in che modo gli economisti modellizzano l’idea delle aspettative.

MODELLI CON ASPETTATIVE RAZIONALI

Le previsioni servono a formulare un quadro delle possibili evoluzioni del presente. Con riferimento alla teoria economica, esse stabiliscono il possibile valore che le variabili oggetto di interesse possono assumere e, a seconda del grado di complessità con cui si strutturano, risultano più o meno accurate.

Abbiamo già visto come le più semplici aspettative formulate hanno ad oggetto i valori passati delle variabili di interesse e vengono definite “backward looking”. Una sorta di media del passato per prevedere il futuro.

Nel 1961 Muth pubblica un articolo in cui propone una evoluzione delle aspettative cambiando radicalmente la loro visione, definendo una struttura che guarda avanti e non indietro nel tempo. Si arriva così alle “aspettative razionali” che definiscono le aspettative come la speranza matematica della variabile di interesse.

Il primo vero economista ad applicare tale visione delle aspettative razionali sarà Lucas, all’interno di un modello macroeconomico.

Cercando di evitare la complessità matematica del modello, andiamo a vedere da dove si è partiti e dove siamo arrivati nella struttura macroeconomica presentata dapprima da economisti come Philips, aggiornata da Lucas e infine sviluppata sempre maggiormente fino ai giorni nostri.

L’idea di base possiamo ricondurla al concetto di: Curva di Philips. Negli anni ’60 Philips si preoccupa di indagare sulla possibile correlazione tra tasso di disoccupazione e tasso di inflazione. Cerca quindi di capire, seguendo dei veri e propri annali dove sono contenuti i dati di decine di anni di queste variabili (nel mercato USA), se esista una correlazione reale.

Tale correlazione venne trovato e questo ebbe un impatto importantissimo. Di fatto spinse molti governi (soprattutto quello americano) ad utilizzare la politica monetaria come strumento per aumentare la produzione e ridurre il tasso di disoccupazione.

Questo grafico è il risultato dell’analisi di Philips, che ci mostra come, nel tempo, all’aumentare dell’inflazione, si induca una riduzione del tasso di disoccupazione. La spiegazione è “semplice”. Una riduzione del tasso di interesse genera un aumento degli investimenti, i quali a loro volta generano un aumento della produzione e quindi dell’occupazione (cioè minor disoccupazione), infine tale aumento dell’occupazione spinge a richieste salariali più alte e quindi ad un aumento dell’inflazione.

Chiaramente dovrà esserci un limite al valore di questa inflazione affinché non si creino squilibri in altre parti del mercato. Capiamo bene però l’importanza che ha avuto questa scoperta sulla spinta degli economisti ad avere una visione interventistica dei governi sulla politica monetaria.

La conclusione? Esiste un trade-off da mantenere. La politica economica-monetaria non può perseguire contemporaneamente obiettivi di riduzione dell’inflazione e della disoccupazione.

Partendo da qui sono stati fatti grandi passi avanti relativamente alle aspettative, soprattutto quelle di inflazione, ed è proprio qui che capiamo l’importanza di ciò che abbiamo analizzato nel precedente articolo.

Mentre nel breve periodo quanto appena discusso assume sia valenza teorica che empirica, nel lungo periodo quello che vedremo non sarà piu una curva fatta come nel grafico sopra bensì una linea verticale che parte da un certo livello di disoccupazione.

Le aspettative razionali ci dicono che le aspettative dell’inflazione sono uguali a ciò che effettivamente succede (razionali), con alcuni errori temporali. Cosa significa? Il breve periodo (minore a 5 anni) è talmente piccolo come riferimento temporale che cercare di portare il livello di disoccupazione al disotto di un certo valore di equilibrio (detto NAIRU) causerebbe un aumento repentino dell’inflazione che porterebbe ad un primo fallimento della politica economica e, in casi estremi, a un di fallimento di Paese.

Quest’ultima analisi è stata proprio quella ricavata dal modello di Lucas, che nel suo lavoro ha applicato tale intuizione di lungo periodo nel modello riferimento base della macroeconomia conosciuto come “AS-AD”.

Questo è solo un esempio dell’importanza delle aspettative, ma ci fa chiaramente capire che non è possibile “ottenere tutto e subito”.

Non è razionalmente plausibile ridurre velocemente la disoccupazione perché questo causerebbe squilibri che verrebbero pagati molto cari dopo anni.

L’obiettivo della politica? Andare a veicolare le aspettative di inflazione dei soggetti economici (cittadini, imprese, grandi banche ecc…) verso livelli stabili per impedire che queste variabili “scappino sulla curva”.

Un caso pratico: le dichiarazioni di Christine Lagarde

Nel Marzo 2020 la Presidente della BCE, Christine Lagarde, tenne una conferenza stampa definita come “la più disastrosa che si ricordi negli oltre vent’anni di vita della BCE”.

Proprio nel momento più fragile per l’Italia, la Presidente ha dichiarato “non siamo qui per chiudere lo spread”, e in meno di 10 secondi ha rischiato di vanificare tutti gli sforzi dell’ex Presidente Mario Draghi con il suo celebre “whatever it takes”. L’impegno di Draghi era quello di “fare qualsiasi cosa serva per mantenere la stabilità dell’Euro”.

Lagarde, con la sua frase, “non chiudere lo spread” è andata esattamente contro l’idea del suo predecessore. L’espressione chiudere lo spread vuol dire tenere sotto controllo il rendimento dei Titoli di Stato, in modo che il costo del debito non esploda per un paese con le finanze pubbliche fragili (il caso dell’Italia).

Questa frase è stata pronunciata in una mattina di marzo. Nel pomeriggio i rendimenti di Titolo di Stato Italiani hanno avuto un picco arrivando all’1.88% (valore estremamente negativo in un arco temporale così breve, ricordando che valori elevati di rendimento dei titoli di stato significano minor valore di credibilità del paese e del titolo stesso).

Per tali ragioni Lagarde ha dovuto poi ridimensionare tale dichiarazione in una successiva intervista per placare i mercati.

I mercati non perdonano. Scontano tutto.

Ecco, una semplice dichiarazione può portare a perdere miliardi di Euro a un Paese già in crisi. Non per la dichiarazione stessa, ma per le aspettative che si creano da parte del mercato in base a tale dichiarazione.

Le aspettative muovono ogni cosa nell’economia e come abbiamo appena visto, muovono ogni cosa nella vita reale.