Black Like Me è un libro scritto dall’intellettuale statunitense John Howard Griffith nel 1961, che tratta il tema del razzismo negli Stati Uniti del periodo. L’opera, basata sulle vicende personali dell’autore, illustra come la vita di un afroamericano nel Sud degli States fosse un’esistenza crudele, soggetta a violenza, mortificazione, oltreché legalmente invalidata a causa delle varie norme della segregazione razziale, il tutto semplicemente a causa del colore della pelle.
Ora, vale la pena notare come John H. Griffith fosse bianco. Originario del Texas, ricevette un’educazione classica, e, tramite una borsa di studio, completò parte dei suoi studi in Francia. L’esperienza da cui nacque Black Like Me trovava motivazione nel voler documentare la violenza sistemica operata dalla società statunitense nei confronti dei cittadini afroamericani. Nel 1959, Griffin consultò un dermatologo di New Orleans per scurire la propria pelle, tramite l’utilizzo di creme, esposizione a raggi UV e l’assunzione di medicinali, si rasò per nascondere i capelli lisci, e partì per il Sud, dove per settimane documentò le proprie esperienze. Il caso di Griffith non è un unicum, anzi.
Alisha Gaines, professoressa associata presso l’università di Florida State ha scritto un libro nel 2015 relativo a casi in cui individui bianchi, per le più diverse ragioni, si sono definiti o identificati come afroamericani, intitolato Black for a Day. Nell’ultimo capitolo dell’opera, l’autrice tratta, fra le altre cose, la vicenda relativa a Rachel Dolezal. Conosciuta anche come Nkechi Amare Diallo, Dolezal è un ex professoressa universitaria, docente di Africana Studies presso l’Eastern Washington University fino al giugno 2015, e già presidentessa della sezione di Spokane della National Association for the Advancement of Colored People (NAACP), associazione fondata nel 1909 per il miglioramento della condizione afroamericana. Come si potrà intuire, Dolezal è anch’essa una persona bianca, fintasi di colore; sono stati gli stessi genitori della donna a rilasciare un’intervista nella quale denunciavano le menzogne su cui la figlia aveva fondato la propria carriera. Licenziata dall’università e sollevata dalla NAACP, Dozelal ha spiegato il perché delle proprie azioni in un’intervista al talk Today Show, nel quale affermava di identificarsi come “trans-razziale”. Con ciò si riferiva all’identificazione con un determinato gruppo etnico fatta da individui che hanno origine in un gruppo etnico diverso: insomma, una sorta di applicazione del concetto di transessualità, sostituendo però l’etnia all’identità di genere.
È qui che la storia di Dolezal, che all’apparenza sembra una storia di poco conto, infelice, ma pur sempre di poco conto, può essere usata come punto di partenza per parlare del concetto di trans-razziale, delle sue implicazioni e del parallelo fatto con la transessualità.
All’indomani di quanto successo a Dolezal molti si sono lanciati in similitudini fra transessualità e trans-razzialità: se razza e genere null’altro sono se non costrutti sociali, un’identità fluida è un concetto ragionevole, tanto in ambito di gender quanto di etnia. Questo almeno è ciò che hanno scritto e discusso vari accademici. Vale la pena sottolineare come questi paragoni fossero influenzati dalla vicenda di Caitlyn Jenner, donna transgender, che aveva completato la propria transizione nella stessa estate del 2015 (nota ai più per essere il padre biologico di due delle sorelle del clan Kardashian, Kendall e Kylie), suscitando interesse nel dibattito prima pubblico e poi accademico. È lo stesso caso di Caitlyn Jenner che ha spinto molti a chiedersi quale sia il discrimine che libera persone trans dalla zavorra attuata da una società visuale, per citare Marshall McLuhan, in cui il risultato ottenuto da un senso dominante (la vista), è il criterio fondante per l’esercizio della definizione?
Rebecca Tuvel, professoressa associata di filosofia presso il Rhodes College di Memphis, autrice del paper “In defense of Transracialism”, parte proprio dal presupposto che, considerata la generale accettazione sociale nei confronti della decisione di un individuo di cambiare sesso, lo stesso dovrebbe essere fatto in ambito di razza. Ella afferma come “[…] we treat people wrongly when we block them from assuming the personal identity they wish to assume […]”, dando quindi una dimensione centrale all’autodefinizione tanto in ambito di gender, quanto di etnia. L’articolo di Tuvel ha rappresentato il punto di partenza di una lunga discussione accademica che ha portato forti critiche alla docente. Il paper di Robin Dembroff e Dee Payton, intitolato “Why We Shouldn’t Compare Transracial to Transgender Identity”, confuta la tesi di Tuvel, sottolineando come l’identità di un determinato gruppo etnico, definita da concetti particolari come l’eredità storica, sono un qualcosa che concorrono alla definizione di un individuo in un modo che, in determinati casi non può essere ignorato.
Nel caso degli afroamericani, l’ineguaglianza è un qualcosa che si accumula in modo intergenerazionale: il bagaglio di cosa vuol dire essere una persona di colore negli Stati Uniti è un qualcosa l’individuo di colore acquisisce al momento della nascita e del proprio confronto con la società, a prescindere dalle ambizioni, convinzioni e valori che andrà ad avere durante la vita adulta. In ambito di genere, secondo gli autori, concetti come la misoginia e il patriarcato, sebbene portanti di una complessità storica, rappresentano una dimensione molto più ampia rispetto alla condizione di ineguaglianza subita dalla comunità afroamericana, più specifica e circoscritta. Se la maggior parte delle donne, sia cis che trans, ha subito le conseguenze del patriarcato, nel caso della trans-razzialità si potrebbero avere situazioni in cui una persona che si identifica in un’etnia diversa dalla propria lo faccia senza comprendere l’eredità storica derivante. Nel caso di Dolezal, per farla più breve, l’individuo nato non nero, che successivamente si identifica come tale, lo farebbe senza conoscere una parte integrante di quell’identità. Per questa ragione, molti commentatori hanno definito la concettualizzazione del transracialism come un esempio di white privilege.
È questa l’opinione di Khadijah Costley White docente nel Department of Journalism della Rutgers University nel New Jersey. La vicenda di Dolezal è, secondo White, caratterizzata dal fatto che la donna è nata e cresciuta in una società con i privilegi derivanti dalla sua etnia, caucasica: esempio di ciò è dato da un fatto avvenuto durante i primi anni 2000, quando Dolezal frequentava la Howard University, nota per essere uno degli istituti più black degli States, fece causa all’università per discriminazione, discriminazione a suo modo di dire avvenuta perché bianca.
Nella storia statunitense, le volte in cui cittadini afroamericani hanno finto di essere bianchi, per vivere una vita migliore, una volta scoperti hanno perso la vita, Dolezal ha invece perso solo la reputazione. Appare quindi comprensibile come la comunità afroamericana, accademica e no, rifiuti questo concetto di trans-razzialità, vedendolo come l’ennesimo tentativo di gentrificazione e appropriazione culturale effettuato dalla componente dominante della società, i bianchi, nei propri confronti.
Vale infine la pena fare un chiarimento: la definizione di transracial intesa da Dolezal risulta sbagliata, non solo e soltanto per i motivi qui elencati, ma perché in ambito accademico il termine aveva già un significato prima del 2015. La parola infatti vuole identificare le situazioni di bambini cresciuti in contesti famigliari etnicamente diversi da quelli di nascita, che nella pratica, si traduce nei casi di bambini afroamericani adottati da famiglie bianche. Il tema è eticamente delicato negli Stati Uniti, discusso sia da un punto di vista accademico che pedagogico.
In conclusione, sembra quindi possibile affermare come un concetto di fluidità culturale è inattuabile, se non addirittura utopistico. La società occidentale odierna, attraverso la validità di un approccio teorico come quello dell’intersezionalismo, si mostra ancora vicina ad una dimensione oppressiva che non è parte del passato, ma ancora attuale.