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La legacy di Donald Trump


Martedì 19 gennaio 2021 il Wall Street Journal pubblica un articolo nel quale afferma come Donald Trump abbia intenzione di fondare un proprio partito politico, denominato “Patriot Party”. Gli eventi del 6 gennaio, che stabiliscono un prima e un dopo nella storia politica americana, hanno costretto a prendere una posizione avversa anche quei soggetti che, nei quattro anni di presidenza Trump, hanno mantenuto un atteggiamento di connivenza nei confronti del quarantacinquesimo presidente. Lo stesso 19 gennaio, lo storico leader repubblicano del Senato Mitch McConnell affermava come Trump sia da considerare il responsabile dell’attacco al Campidoglio.

Vale la pena quindi chiedersi se una mossa del genere possa essere conveniente per l’ormai ex presidente: no, per più ragioni.

Innanzitutto, si può ricordare come negli Stati Uniti formazioni politiche indipendenti abbiano avuto un successo pressoché nullo dal dopoguerra a oggi: la tentazione di un terzo polo si ripropone ciclicamente e, per più ragioni, dimostra di non essere nulla più che una tentazione, appunto.

Di più, spesso i terzi partiti negli States rappresentano l’incarnazione politica di movimenti dalle posizioni radicali, posizioni che oggi Trump ha già portato al centro del partito Repubblicano. Elencare nello specifico le volte in cui è stato fatto ciò, è un esercizio che, a settimane di distanza dagli accadimenti del 6 gennaio, aggiunge pressoché nulla di nuovo. I commenti dopo Charlottesville nel 2017, gli ordini esecutivi apertamente islamofobi, le nomine alla Casa Bianca di personaggi connessi al suprematismo bianco, l’aperto incitamento a gruppi razzisti come i Proud Boys, sono tutti eventi noti. È tuttavia importante ribadire come una condotta politica di questo tipo non sia destinata ad esaurirsi solo perché Donald Trump non è più l’inquilino dello Studio Ovale. Se una condanna all’impeachment (che beninteso, sembra improbabile) porrebbe fine alla carriera politica di quest’ultimo, la sua legacy sopravvivrebbe, per più motivi.

In primo luogo, perché la legittimazione di un discorso politico suprematista non è un qualcosa di cui approfittano solo i gruppi estremisti: sebbene loro siano l’espressione più rumorosa di un determinato clima politico-sociale, non rappresentano il problema nella sua interezza. Riassumere l’elettorato di Trump come una versione estremamente reale dei cosiddetti “Nazisti dell’Illinois” è esercizio pressappochista, che banalizza il razzismo come un fenomeno strettamente correlato agli strumenti culturali a disposizione, assolvendo quindi gli stessi soggetti razzisti in quanto non colpevoli della propria ignoranza. Non è così, ed è la stessa storia statunitense a dimostrare come il razzismo sia stato (e continui a essere) tratto unificante di certe élite desiderose di mantenere la propria posizione di potere, a scapito di altre parti della popolazione. Si pensi ad uno dei gruppi più noti, il Ku Klux Klan: come sottolineato dallo storico Eric Foner, i fondatori del gruppo non erano espressione della popolazione meno abbiente, ma esponenti di gruppi sociali dominanti, come mercanti, avvocati e uomini politici.

Se si vuole usare riferimenti più recenti, abbiamo Stephen K. Bannon e a Richard Spencer. Stephen K. Bannon, imprenditore e personaggio politico di peso centrale nel percorso che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca, è titolare di una brillante carriera accademica, laureatosi presso alcune delle maggiori università americane, come Georgia Tech, Georgetown e Harvard. Richard Spencer, uno dei soggetti di maggior notorietà all’interno dell’Alt-Right, è rampollo di un’abbiente famiglia della Louisiana, e vanta anche lui un discreto passato accademico.  Ha conseguito infatti due lauree, rispettivamente presso l’Università della Virginia prima, e quella di Chicago poi. Ulteriori esempi sono forniti dal 6 gennaio stesso: Aaron Mostofsky, partecipante al mob, è figlio di un giudice della Corte Suprema di Brooklyn, ed è stato scarcerato dietro il pagamento di una cauzione da 100.000 dollari; Jenna Ryan, anch’essa coinvolta nell’insurrezione, ha raggiunto Washington tramite il proprio Jet privato.

Associare quindi il razzismo a una fumosa e impropria figura del cittadino redneck è un errore. Il razzismo permea la società statunitense e Donald Trump ha permesso che lo stesso potesse farlo in modo manifesto. La parte di elettorato americano razzista infatti non sente più il bisogno di rispondere a stimoli come il dog whistiling, o alla tentazione offerta da formazioni politiche indipendenti: le sue posizioni sono rappresentate dal leader di uno dei due principali partiti del paese.

Vi è poi un ulteriore elemento che suggerisce come la stagione politica attuale sia destinata a continuare; lo scenario all’interno del partito Repubblicano. Se, come detto, all’indomani del 6 gennaio tutto il G.O.P.  indicava il Tycoon come responsabile, a un mese di distanza la situazione è differente. McConnell ha votato contro l’impeachment, così come altri 43 suoi compagni di partito, tra cui possiamo citare Lindsey Graham e Kevin McCarthy, tanto veloci a condannare Trump la sera del 6 gennaio, quanto rapidi a ritrattare le proprie posizioni in un secondo momento.

L’impressione è che i membri del partito Repubblicano non vogliano inimicarsi Trump e soprattutto i suoi sostenitori, consci del fatto che la Political Agenda del partito è ancora quella del 45° presidente: la polarizzazione che caratterizza il dualismo fra Democratici e Repubblicani si ripresenta a livello interno nel G.O.P. quando soggetti singoli provano a distaccarsi dal faro rappresentato da Donald Trump. I parlamentari del Red Party che hanno votato a favore dell’Impeachment sono marginalizzati, quando non direttamente ostracizzati: Liz Cheney, senatrice del Wyoming ha subito diversi attacchi, fra cui quello di Matt Gaetz, parlamentare repubblicano che ha pensato bene di andare direttamente in Wyoming per fare campagna elettorale contro Cheney stessa. Adam Kinzinger, membro della Camera che ha votato a favore dell’impeachment, è stato definito “oltraggioso” dal comitato elettorale del distretto in cui è stato eletto, in Illinois.

Le modalità rese mainstream da Trump, fondate su un rifiuto manifesto della contraddizione, della complessità, in favore di un continuo schierarsi politicamente, non appartengono più soltanto a lui e al suo elettorato, ma anche al suo partito. Infatti, fra le fila Repubblicane è possibile citare diversi esempi di sostenitori di Trump, imitatori del suo modo di far politica, oggi eletti in vari uffici istituzionali statunitensi.

Agli eventi del Campidoglio era presente Derrick Evans, membro del Parlamento della West Virginia (ora dimessosi); sempre le elezioni del 2020 hanno portato alla Camera dei Rappresentanti soggetti come Marjorie Green e Lauren Boebert. Entrambe sostenitrici della teoria complottista Qanon, si sono fatte notare negli ultimi mesi per toni consoni a quelli di un paese che sta attraversando una guerra civile; guerra civile nella quale Trump è leader di parte degli Stati Uniti che legittima le istituzioni e la democrazia soltanto se le stesse sono governate da proprie espressioni; in tal senso, vale la pena recuperare un articolo di Michael Kruse, scritto per Politico, intitolato The Antipope of Mar-a-Lago, all’interno del quale The Donald viene paragonato a Benedetto XIII, l’ultimo papa avignonese. Per rafforzare la metafora, Kruse fa l’esempio del sopracitato McCarthy, che nel giro di un mese è passato dal condannare Trump per gli eventi del 6 gennaio, a chiedergli udienza nella villa di Mar-a-Lago.

Lauren Bobert su twitter

Trump, approfittando di una polarizzazione già in atto, utilizzando toni divisori, mentendo in modo continuativo e strumentale, ha spostato molto più a destra la base ideologica del G.O.P., e con essa i suoi votanti. È proprio l’elettorato repubblicano che sembra intenzionato a voler tenere viva la sua legacy politica: un sondaggio di NBC News dello scorso 18 gennaio (quasi due settimane dopo quanto avvenuto al Campidoglio) mostrava come l’87% degli elettori del Red Party si mostrassero favorevoli all’operato dell’ormai ex Presidente, solo due punti percentuali in meno rispetto al tasso di approvazione di cui godeva prima delle elezioni. Anche per quei Repubblicani che si dicono più vicini al Partito rispetto a Trump, l’approvazione per quest’ultimo è alta: risulta dell’81%.

In conclusione, è quindi possibile affermare come l’idea di un terzo partito rilevante all’interno della politica statunitense sia più un’idea, un vezzo buttato lì da un ex presidente storicamente impulsivo che una realtà, soprattutto perché è proprio lui a non averne bisogno.

Trump e la sua agenda politica rappresentano già oggi uno dei due poli politici del paese; l’elettorato del partito Repubblicano, sia attivo che passivo, ne sono una prova sempre più evidente: il proposito di un establishment del G.O.P. responsabile, disposto ad opporsi alla deriva trumpista è tanto ingenua quanto lo è sorprendersi di quanto successo al Campidoglio; ad oggi, Donald Trump rappresenta il conservatorismo statunitense da almeno 4 anni.

Lo scenario in questione sembra essere assimilabile in quello che lo storico Richard Hofstader definì “stile politico paranoico”, una tendenza presente nella storia statunitense a identificare dei gruppi sociali (nel caso di Trump i non bianchi) sui quali riversare avversioni e paure più o meno fondate, dando a questi timori un valore politico, legittimandoli da un punto di vista istituzionale e sociale. Così facendo, ad essere legittimati sono anche quegli individui che combattono sotto il vessillo della xenofobia e del razzismo, come i protagonisti dell’attacco al Campidoglio del 6 gennaio. La differenza rispetto al passato, è che la paranoia di cui parla Hofstader non è più diretta conseguenza di un patriottismo estremizzato, ma è la reazione terrorizzata di chi percepisce i fondamenti della propria posizione di dominio, storicamente solidi, venire meno.